martedì, febbraio 27, 2007

Lettera dei commercianti di Biancavilla

E' una lettera-denuncia firmata genericamente «I commercianti di Biancavilla» e indirizzata alla Procura della Repubblica, alla prefettura e al sindaco. Si è preferito l'anonimato per denunciare la ripresa - secondo quanto riportato nella missiva - del fenomeno delle estorsioni. Negli ultimi anni, dopo le continue operazioni antimafia condotte dai carabinieri della compagnia di Paternò, i negozianti biancavillesi hanno vissuto un periodo di tranquillità. Un periodo che forse è finito. «Ritengo importante che si sia sentito il bisogno di chiedere aiuto alle istituzioni per l'aumento delle estorsioni in città - spiega il sindaco Mario Cantarella - la gente che prova a guadagnarsi il pezzo di pane e viene molestata, cerca un aiuto. Mi auguro che si continui su questa linea, che non sia un fatto isolato e non legato all'acuirsi del fenomeno». La denuncia dei commercianti, seppur anonima, in tempi non lontani sarebbe stata impensabile. Il clima adesso è cambiato. Eppure resistono certi cliché. E' di questi giorni la "scoperta" che nella versione inglese di Wikipedia, la nota enciclopedia libera online, la voce "Biancavilla", a fianco allo stemma comunale, riporta: «Centro della provincia di Catania, nonostante le sue piccole dimensioni ha una grande importanza per Cosa Nostra». Anche in questo caso non si è fatta attendere la reazione dal web con l'invito a bombardare di e-mail di protesta la fondazione, con sede in Florida, che gestisce il sito e che sembra avere confuso il centro etneo con altre «roccaforti» della mafia.
Fonte: La Sicilia

lunedì, febbraio 26, 2007

Crocetta risponde a Di Fede

GELA (CALTANISSETTA) - "Le accuse del signor Di Fede non mirano a proteggere una famiglia abbandonata, ma il nucleo familiare di uno dei più feroci mafiosi latitanti che esiste in Sicilia". Così il sindaco di Gela, Rosario Crocetta, risponde agli attacchi che Francesco Di Fede, 77 anni suocero del boss mafioso Daniele Emmanuello, latitante da diversi anni, gli aveva sferrato ieri a un'assemblea del "correntone" dei Ds, a Gela.
Di Fede ha invitato l'assemblea e l'intero partito a non votare per il sindaco, Rosario Crocetta. Il bidello statale in pensione, è il padre di Virginia Di Fede, 42 anni, ex lavoratrice Rmi (reddito minimo di inserimento) del Comune di Gela, licenziata dal sindaco Crocetta lo scorso 21 aprile, quando il primo cittadino scoprì la sua presenza tra i precari municipali.
"Certo che a sentirla come la racconta lui potrebbe persino sembrare una persecuzione. - aggiunge Crocetta -. Le colpe dei padri che ricadono su moglie e figli. Con questa ottica lo Stato dovrebbe dare le case popolari e i contributi del reddito minimo di inserimento alla moglie e ai figli di Provenzano, alla moglie e i figli di Riina, di Nitto Santapaola e di altri fior fiore di galantuomini".
"Emmanuello non è un povero emigrante che ha lasciato moglie e figli sul lastrico - osserva -, ma il terzo latitante più pericoloso attualmente in Sicilia. Uno che è inserito nell'organigramma come possibile successore al top di Cosa nostra, che per anni ha gestito appalti, subappalti, traffico di droga, estorsioni e usura, praticamente un miliardario".
26/02/2007
Fonte: La Sicilia

Quattro arresti in inchiesta su appalti

PALERMO - Gli uomini del Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Palermo hanno eseguito stamani quattro ordini di custodia cautelare in carcere nell'ambito di una inchiesta su mafia e appalti coordinata dai pm della Direzione distrettuale antimafia. Fra le persone arrestate su ordine del gip figurano anche imprenditori. L'inchiesta mette in luce come i boss mafiosi di una zona del Palermitano riuscivano a pilotare appalti pubblici imponendo nell'esecuzione dei lavori imprese a loro vicine. L'inchiesta ha consentito ai Pm della Direzione distrettuale antimafia di ricostruire i nuovi assetti delle famiglie mafiose del mandamento di Partinico. Gli inquirenti fanno riferimento nel provvedimento ad un particolare, al settore della mafia, quello "che si fa impresa". I boss, secondo gli inquirenti, si sostituiscono agli imprenditori.
In carcere sono finiti i fratelli Salvatore e Sergio Imperiale, rispettivamente di 40 e 30 anni; Leonardo Baucina, di 46 e Filippo Santoro, di 53. Il gip Vincenzina Massa ha contestato agli indagati l'accusa di associazione mafiosa. L'inchiesta è coordinata dai pm Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene. Le società degli imprenditori arrestati si sono occupate, fra l'altro, dei lavori di rifacimento di una pista dell'aeroporto Falcone-Borsellino, della messa in sicurezza dello stadio Barbera di Palermo per essere a norma con il decreto Pisanu, del Policentro di Partinico e di alcune attività all'Università di Palermo.
Alcuni di questi lavori, nonostante fossero stati aggiudicati a ditte catanesi, sono stati eseguiti in gran parte dalle società degli Imperiale, che avrebbero contatti anche con le famiglie mafiose del capoluogo etneo. Salvatore Imperiale è indicato come il leader del gruppo. Già condannato definitivamente nel 2001 per mafia, è ritenuto fra i maggiori esperti nel settore dei grandi appalti, in grado di mediare con i rappresentanti mafiosi di più province, intervenendo personalmente nelle decisioni prese al cospetto di latitanti mafiosi come Salvatore Lo Piccolo.
Leonardo Baucina è il factotum e uomo di fiducia di Salvatore Imperiale ed è incaricato di sovrintendere e controllare gli operai impiegati nei cantieri della famiglia Imperiale. Nel 1985 è stato coinvolto nell'omicidio dell'appuntato dei carabinieri Antonino Favazzi: condannato a 30 anni in primo grado, successivamente nel 1990 è stato assolto. Il gruppo, secondo quanto emerge dalle conversazioni registrate dalle microspie, disponeva anche di armi.
Le indagini hanno accertato, come si legge dal provvedimento del gip Vincenzina Massa, la capacità di infiltrazione dei fratelli Salvatore e Sergio Imperiale all'interno dell'amministrazione del Comune di Partinico. È emerso dalle intercettazioni che i due indagati erano in grado di ricevere informazioni di prima mano sui lavori gestiti dal Comune, al punto da poter comunicare ad un responsabile di una impresa partecipante ad un appalto l'aggiudicazione prima ancora che l'interessato ne fosse informato dai canali istituzionali.
Secondo l'accusa i fratelli Imperiale avrebbero avuto contatti per la gestione illecita degli appalti anche con Simone Castello, esponente della famiglia mafiosa di Villabate e uomo di fiducia di Bernardo Provenzano; condannato in passato per associazione mafiosa. Gli investigatori il 16 gennaio 2006 intercettano una conversazione tra Salvatore Imperiale e Leonardo Baucina, entrambi arrestati stamani, durante la quale Imperiale racconta di essere stato avvicinato da un gruppo imprenditoriale catanese, interessato all'appalto per la costruzione della metropolitana di Palermo, i cui lavori sarebbero stati aggiudicati a un'azienda di Torino e un'altra spagnola, consociate appunto con imprese catanesi.
26/02/2007
Fonte: La Sicilia

Dimostrazione che Crocetta "arreca fastidio"

GELA (CALTANISSETTA) - C'era un insolito parterre a un convegno del "Correntone" dei Ds, a Gela: il presidente del gruppo parlamentare al senato, Cesare Salvi, firmatario della mozione di minoranza al prossimo congresso nazionale, il deputato nisseno, Angelo Lo Maglio, l'assessore comunale ai servizi sociali, Paolo Cafà e Francesco Di Fede, 77enne suocero del boss mafioso Daniele Emmanuello, latitante da diversi anni.
Di Fede è pure intervenuto al dibattito che si è svolto dopo l'illustrazione della mozione congressuale. Il suocero del mafioso latitante di Gela ha detto di essere comunista da sempre ma ha invitato l'assemblea e l'intero partito a non votare per il sindaco, Rosario Crocetta (PdCI-L'Unione), alle prossime elezioni comunali di maggio, perché avrebbe "rovinato la sinistra a Gela". In evidente imbarazzo, nessuno dei dirigenti diessini locali ha replicato a Di Fede, malgrado il partito abbia confermato ufficialmente il proprio sostegno alla ricandidatura di Crocetta alla guida dell'amministrazione comunale.
Francesco Di Fede, bidello statale in pensione, è il padre di Virginia Di Fede, 42 anni, ex lavoratrice Rmi (reddito minimo di inserimento) del Comune di Gela, licenziata dal sindaco Crocetta lo scorso 21 aprile, quando il primo cittadino scoprì la sua presenza tra i precari municipali. Allora Crocetta sostenne che la donna era "tutt'altro che povera".
Un mese dopo il sindaco trovò il nome di Virginia Di Fede tra quelli dei poveri della città inseriti nella graduatoria per l'assegnazione delle case popolari, e ne ordinò la cancellazione. "Crocetta si è accanito ingiustamente contro mia figlia e la sua famiglia - ha detto Francesco Di Fede -, non merita di essere riproposto come sindaco di Gela". Crocetta, venuto a conoscenza dell'intervento di Di Fede all'assemblea diessina (alla quale il sindaco aveva portato il suo saluto per poi andare subito via), ha chiesto un incontro urgente con i vertici Ds di Gela.
25/02/2007
Fonte: La Sicilia

Quarto attentato a Misilmeri

SAN GIUSEPPE JATO (PALERMO) - Bruciata a San Giuseppe Jato, nel palermitano, la stalla del vicepresidente del Consiglio comunale Francesco Miceli (Udc), 31 anni. Nel rogo sono morti cinque cavalli. Secondo i vigili del fuoco l'incendio è doloso. Sulla vicenda i carabinieri, intervenuti sul posto, hanno avviato indagini. Ieri, a Misilmeri, altro centro del palermitano, un attentato incendiario aveva devastato la casa di campagna del presidente del Consiglio comunale, Domenico Cammarata, della Margherita. Dal 29 dicembre scorso, quando un ordigno esplose davanti alla casa del capo ufficio tecnico del Comune, è il quarto attentato compiuto a Misilmeri.
25/02/2007
Fonte: La Sicilia

sabato, febbraio 24, 2007

Qualcosa in più su Notaro

«Francesco Montalto era diffidente da tutto e da tutti e aveva sistemi di controllo che non avrebbero permesso a nessuno di entrare in quel vivaio». Ma, come raccontano i pentiti Francesco Campanella e Mario Cusimano, quando dal monitor di controllo delle telecamere a circuito chiuso che aveva installato all´ingresso del vivaio di via dei Leoni, Francesco Montalto, figlio del boss di Villabate, vide il suo amico Nicola non ebbe sospetti e aprì. Pochi istanti dopo era morto sotto il fuoco del gruppo di killer dei Mandalà, i mafiosi emergenti che, con quell´omicidio, diedero la scalata alla leadership della cosca che poi sarebbe entrata nel cuore di Bernardo Provenzano. Era il dicembre del 1995. Il "cavallo di Troia" di quell´omicidio era l´allora 27enne Nicola Notaro che, cinque anni dopo, sarebbe diventato il segretario cittadino del Cdu e il punto di riferimento di Saverio Romano a Villabate. Tanto da non incontrare alcuna difficoltà, alle Regionali del 2001, a far candidare nelle file di una lista satellite, il Biancofiore, il candidato della famiglia mafiosa di Villabate, quel Giuseppe Acanto finito primo dei non eletti, approdato all´Ars dopo l´arresto di Antonio Borzacchelli e poi a sua volta raggiunto da un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Con tanto di benedizione di Totò Cuffaro e dello stesso Romano. «Salutami il dottor Mandalà», avrebbe detto il parlamentare dell´Udc a Francesco Campanella, poi diventato collaboratore di giustizia, che accompagnò Notaro da Romano per proporre la candidatura di Acanto. Incontro poi confermato, prima che sapessero di essere sotto inchiesta, sia da Acanto che dallo stesso Notaro. E ancora Notaro avrebbe chiesto a Cuffaro, dopo la bocciatura elettorale di Acanto, di accontentarlo con un posto di sottogoverno. Racconta ancora Francesco Campanella: «Eravamo io, Acanto, Antonino Vitale e Nicola Notaro. Lo incontrammo al mercato ortofrutticolo di Palermo. Cuffaro ci disse che non c´erano problemi e che avrebbe provveduto chiedendo allo stesso Acanto di mandargli un curriculum e che alla prima occasione lo avrebbe inserito da qualche parte». Romano si dice "sconcertato" e ribadisce di aver già querelato Campanella. Quanto a Cusimano, sostiene che «sono state secretate le sue dichiarazioni nella parte che esclude ogni mio coinvolgimento». Di essere indagato per mafia Nicola Notaro lo aveva appreso l´anno scorso andando a testimoniare al processo a Mimmo Miceli. Diversi mesi dopo, a farlo finire in manette sono state non solo le dichiarazioni di Francesco Campanella, ma anche quelle di Mario Cusimano, l´altro pentito della cosca di Villabate, che insieme a Notaro avrebbe firmato i preliminari per la vendita dei terreni per la realizzazione del centro commerciale che avrebbe fruttato a Cosa nostra un bel realizzo non solo in termini di tangenti ma anche di posti di lavoro e di aziende impegnate nella costruzione. Poi le cose andarono diversamente. Della attiva partecipazione di Notaro al business del centro commerciale non parlano solo i pentiti. Un riscontro formidabile è stato trovato dai carabinieri nel computer di Rocco Aluzzo, l´incaricato dell´acquisto dei terreni. E sono entrambi i collaboratori di giustizia ad indicare in Nicola Notaro l´uomo che aprì la strada ai killer di Francesco Montalto. Qualche mese dopo, per mettersi al sicuro, Notaro partì per gli Stati Uniti dove rimase un paio d´anni riciclando i soldi della cosca di Villabate in una società di import-export che faceva girare nei negozi americani i prodotti italiani. «Nicola Mandalà - racconta Mario Cusimano - gli diede centomila euro». I soldi del Bingo. Che Notaro fosse strettamente legato a Nicola Mandalà lo sapeva anche Campanella ma fu suo padre, Nino Mandalà, a spiegargli perché mai Notaro vantava tante pretese di incarichi e consulenze. «Ci dobbiamo tenere a Nicola Notaro perché è stato fondamentale - gli rispose Mandalà - Durante l´omicidio Montalto, perché è stato colui che ci ha permesso di accedere al vivaio». Un rapporto rinsaldatosi nel tempo quello tra Notaro e il rampante boss di Villabate, filmati insieme a New York nel marzo del 2004. Con loro c´era anche Giovanni Nicchi, uno degli astri emergenti di Cosa nostra, rampollo del capomandamento di Pagliarelli Nino Rotolo, oggi latitante dopo essere sfuggito all´operazione Gotha del giugno scorso.
Fonte: La Repubblica

Premi Livatino

MASCALI (CATANIA) - "Impegnatevi a dare l'esempio, anche con gesti semplici. Mi sono chiesta perchè Dio continua a sottopormi a durissime prove. Forse perchè sa che le accetto ed infatti io mi rimetto nelle mani di Dio. Mio marito è il seme, piantato nella società, che è la terra, ed io sono l'acqua". Lo ha detto Marisa Grasso, vedova dell'Ispettore capo di polizia Filippo Raciti, ucciso a Catania il 2 febbraio scorso negli scontri scoppiati fuori dallo stadio Massimino durante il derby Catania-Palermo, che stamane a Mascali ha ricevuto il premio Rosario Livatino. La manifestazione è stata promossa dalla Provincia di Catania con il patrocinio della Presidenza della Repubblica e organizzata dal Comune di Mascali e dal comitato Livatino di Riposto. Il premio, che ricorda il giudice 'ragazzino' ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990, è stato consegnato anche a Gianfelice Facchetti, figlio del presidente dell'Inter scomparso nel settembre del 2006 ed ai magistrati Sebastiano Ardita, Nicolò Marino, Clementina Forleo e Henry John Woodcok, al colonnello dell'aeronautica militare Candido Anastasi e al giornalista Leone Zingales. 24/02/2007
Fonte: La Sicilia

Boss Ercolano malato

CATANIA - Il boss Sebastiano Ercolano è gravemente malato e per questo non dovrà scontare, per il momento, la condanna che ha subito per traffico di droga e associazione mafiosa. Lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Catania, accogliendo la richiesta del legale dell'imputato, l'avvocato Giuseppe Lipera. I giudici, su parere conforme del Pg Fontana, hanno disposto il differimento di un anno della detenzione fino al 2020 alla quale Ercolano è stato condannato, con sentenza passata in giudicato.
24/02/2007
Fonte: La Sicilia

venerdì, febbraio 23, 2007

Per Mannino applicare la legge è un errore....

Il governatore della Sicilia imputato di favoreggiamento alla mafia nomina il suo mentore politico imputato di concorso esterno in associazione mafiosa alla guida del Cerisdi, prestigiosa scuola di manager finanziata dalla Regione che adesso rischia la paralisi: applicando la legge la Prefettura di Palermo, infatti, ha negato la certificazione antimafia all'ente di formazione che non può incassare alcun contributo pubblico. L'ennesimo paradosso siciliano investe due big della politica isolana targati Udc, il governatore Totò Cuffaro e il presidente del Cerisdi, il senatore Calogero Mannino, che della carriera politica di Cuffaro fu promotore e apripista. Mannino, infatti, è ancora imputato (assolto in primo grado, condannato in appello, e in attesa del secondo giudizio di secondo grado dopo che la Cassazione ha annullato il verdetto) di concorso esterno in associazione mafiosa. E, infuriato, dichiara: «Sarà certamente un errore di qualche archivista - dice Mannino - perchè io sono stato assolto, la mia posizione giudiziaria è questa e non occorrono molte altre spiegazioni. Sono convinto che si tratti dell'eccesso di zelo di qualche archivista, perchè se così non fosse la prefettura di Palermo si dovrebbe assumere la responsabilità di avere aperto una voragine». E cioè «significherebbe delegittimarmi - va giù duro Mannino - dalla carica di parlamentare che ricopro». «Nessun errore», replicano dalla Prefettura, è stata soltanto applicata la legge antimafia. Che al comma a dell'art. 7 testualmente recita: «I tentitivi di infiltrazione mafiosa sono desunti dai provvedimenti... che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli artt… » e, tra questi, è naturalmente citato il 110 e 416 bis, e cioè il concorso in associazione mafiosa. Mannino, cioè, è ancora un imputato «sub judice». Non solo. Dalla Prefettura fanno sapere inoltre che sul rifiuto della certificazione ha influito anche il contenuto della sentenza della Suprema Corte, che pur annullando la sentenza di condanna di Mannino ne ha però certificato le «relazioni pericolose» con i mafiosi dell'agrigentino. Lo stop alla concessione del certificato antimafia è giunto il 27 dicembre scorso a seguito della richiesta del Cerisdi di incassare alcuni contributi legati ad un corso di formazione del personale della provincia di Napoli. Ma a restare paralizzata adesso è l'intera attività dell'ente, e, persino, forse, la sua sopravvivenza: il Cerisdi vive infatti con i contributi della regione che nell'ultima Finanziaria ha stanziato 950 mila euro per le spese di funzionamento, 162 mila euro per il premio Giovanni Bonsignore, e 550 mila euro per l'aggiornamento del personale regionale. Con una proiezione verso l'area mediterranea: «Per la prima volta - conclude Mannino - con tutto il rispetto dovuto ai miei predecessori questo centro è riuscito ad ammettere al master Euromed giovani selezionati dalla Bosnia, dalla Palestina e anche da altri Paesi del Mediterraneo. Mi chiedo ora cosa dovremmo spiegare loro».
Fonte: L'unità

Sequestro a boss di Via D'Amelio

PALERMO - La Dia di Palermo ha confiscato beni per un valore di circa un milione e cinquentomila euro al mafioso Gaetano Scotto che è stato condannato per la strage in cui sono stati uccisi Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. Il provvedimento è dei giudici della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo. I beni confiscati, riconducibili a Scotto, sono immobili che si trovano a Palermo.
23/02/2007
Fonte: La Sicilia

Sequestro per 2 mln di Euro

AGRIGENTO - La Direzione investigativa antimafia ha confiscato beni per un valore di circa due milioni di euro riconducibili all'agrigentino Calogero Di Caro. Il provvedimento è dei giudici del tribunale di Agrigento. Di Caro è ritenuto un esponente di rilievo della cosca mafiosa agrigentina, ed è indicato dai pentiti come uomo d'onore. I beni confiscati riguardano sette unità immobiliari, fabbricati e appezzamenti di terreno che si trovano a Canicattì (Agrigento).
23/02/2007
Fonte: La Sicilia

Pizzo sui rifiuti, 13 arresti

GELA - Tredici persone sono state arrestate nel corso di un'operazione condotta dalla polizia di Stato di Gela su una presunta infiltrazione mafiosa nella gestione dei rifiuti solidi urbani. Gli arrestati sono ritenuti responsabili di estorsione consumata, continuata, in concorso, aggravata dal metodo mafioso, nonchè danneggiamento seguito da incendio. L'operazione, eseguita dalla squadra mobile in collaborazione con il personale del commissariato di Gela, prende le mosse dalle indagini sull' infiltrazione mafiosa nel settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani del comune di Gela. Le imprese del settore - si legge in una nota - erano da anni sottoposte a un pesante pizzo ad opera della 'stidda' e di Cosa nostra. La "tariffa" imposta alle società per la raccolta dei rifiuti sul pagamento del pizzo sarebbe stata decisa durante alcuni incontri fra imprenditori ed esponenti delle cosche mafiose. Secondo la squadra mobile nissena "nessuna delle vittime ha collaborato con gli investigatori per paura di ritorsioni, tutte hanno negato di aver ricevuto pressioni per versare il "pizzo". Dalle intercettazioni è però emerso che gli imprenditori, da un pizzo iniziale (anno 1996), corrisposto mensilmente, pari a 60 milioni l'anno di vecchie lire (circa il 2% dell'importo di aggiudicazione dell'appalto ), in favore della "stidda" di Gela, a partire dal 1998 sarebbero stati costretti a passare ad un pizzo, corrisposto mensilmente ad entrambe le organizzazioni criminali, per cui oltre alla "stidda" anche a Cosa nostra. La somma era stata decisa in 10 milioni di vecchie lire al mese; dal 2001 il pizzo sarebbe passato a 35 milioni al mese, e poi a 18 mila euro al mese, suddiviso in due rate da novemila euro cadauna. Le somme di denaro venivano ripartite in quote differenti per ogni imprenditore aderente all'associazione temporanea di imprese che si occupa della raccolta dei rifiuti.
Il pizzo imposto sullo smaltimento dei rifiuti a Gela avrebbe portato in dieci anni nelle casse delle cosche mafiose circa due milioni di euro. Il particolare emerge dall'inchiesta che stamani ha portato all'esecuzione di 13 ordinanze di custodia cautelare in carcere richieste dal procuratore aggiunto Renato Di Natale e dai pm della Dda, Nicolò Marino, Rocco Liguori e Antonino Patti. L'indagine è stata denominata "Munda mundis". Attualmente il servizio di smaltimento dei rifiuti a Gela è affidato a sette imprese riunite in una associazione temporanea che si è aggiudicata l'appalto per 13 milioni di euro. Nei mesi scorsi il sindaco di Gela, Rosario Crocetta, aveva denunciato la mano del racket nella raccolta dei rifiuti. Gli arrestati nell' operazione Munda mundis sono: Carmelo Fiorisi, 47 anni, mafioso, sorvegliato speciale della PS con obbligo di soggiorno, Gaetano Azzolina, 38 anni, mafioso, sorvegliato speciale della PS con obbligo di soggiorno, Domenico Vullo, 37 anni, Marcello Orazio Sultano, 38 anni, mafioso, sorvegliato speciale della PS con obbligo di soggiorno. Lo stesso provvedimento è stato notificato in carcere, a Francesco Morteo 42 anni, mafioso, Francesco Vella, inteso "cicciu u pazzu", 32 anni, mafioso, Fortunato Ferracane, 35 anni, mafioso, Paolo Portelli, 39 anni, mafioso, Gianluca Gammino, 33 anni, mafioso, Massimo Carmelo Billizzi, 32 anni, mafioso, Enrico Maganuco, 44 anni mafioso, Vincenzo Gueli, inteso "patatina", 42 anni, Crocifisso Smorta, 48 anni, mafioso. Sono accusati di concorso in estorsione continuata ed aggravata ai sensi dell'art. 7 della legge 203/91 (posta in essere nella qualità di affiliati ad entrambe le consorterie mafiose di Gela, di cosa nostra e stidda), ai danni delle imprese impegnate nei servizi di raccolta degli R.S.U. nel comune di Gela. 23/02/2007
Fonte: La Sicilia

giovedì, febbraio 22, 2007

Un altro dell' UDC... Ma no...

PALERMO - I carabinieri hanno eseguito sette ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dal gip, nei confronti di presunti appartenenti alle famiglie mafiose di "Villabate" e "Acquasanta". Gli indagati sono accusati di associazione mafiosa ed estorsioni. Dall'indagine emerge anche che alcuni boss avrebbero imposto ai partiti politici alcuni candidati da inserire nelle liste per le elezioni regionali del 2001. L'inchiesta prende spunto dalle dichiarazioni fatte dal collaboratore di giustizia Francesco Campanella, ed è stata coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone e dai pm Michele Prestipino, Maurizio De Lucia e Nino Di Matteo, che hanno anche chiesto ed ottenuto dal gip i provvedimenti cautelari. Le estorsioni accertate riguardano attività che fanno riferimento alla grande distribuzione commerciale. Fra le persone arrestate dai carabinieri vi è Nicola Notaro, l'ex responsabile dell'Udc di Villabate, accusato di far parte della cosca mafiosa della cittadina e in affari con la famiglia di Mandalà. Secondo gli inquirenti Notaro avrebbe ricoperto il ruolo di "trait d'union" con esponenti politici di spicco, "ed in particolare - si legge nel provvedimento dei magistrati - con l'onorevole Saverio Romano (Udc)", ex sottosegretario al Lavoro. Notaro avrebbe mantenuto questi collegamenti, secondo l'accusa, per conto di Antonino e Nicola Mandalà, padre e figlio, entrambi detenuti, nel periodo delle elezioni regionali del 2001. Uno dei sette provvedimenti cautelari è stato notificato stamani anche ad Antonino Mandalà.
22/02/2007
Fonte: La Sicilia

Imprenditore denuncia... sei arresti!!!

MESSINA - I carabinieri della sezione anticrimine del Ros coadiuvati dai militari dell'Arma di Barcellona Pozzo di Gotto hanno arrestato sei persone, ritenute affiliate al clan di Tortorici dei batanesi, con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alle estorsioni. In manette sono finiti Vincenzo Armeli, 27 anni, Sebastiano Bontempo, 35 anni, Agostino Campisi, 46 anni, Salvatore Costanzo Zammataro, 25 anni, l'imprenditore Giuseppe Karra, di Alcara Li Fusi, 55 anni e Giuseppe Marino Gammazza, 36 anni, di Tortorici. L'operazione definita 'Batana' dal nome del clan è stata eseguita dopo la denuncia di un imprenditore edile di Terme Vigliatore. L'uomo ha detto di essere stato avvicinato da un suo ex dipendente, Agostino Campisi, che gli aveva comunicato l'interesse della criminalità nel suo settore per avere dei subappalti nel tortoriciano. Gli estortori pretendevano che la ditta di uno di loro, l'imprenditore Giuseppe Karra, potesse avere dalla vittima almeno metà dei lavori di posa di fibre ottiche. Dopo le minacce in seguito la notte tra il 31 dicembre e l'1 gennaio, una persona, a volto coperto, si è introdotta negli uffici della azienda dell'imprenditore edile e ha messo a soqquadro l'appartamento sotto l'occhio delle telecamere a circuito chiuso, ma senza prelevare nulla come sfida nei confronti dell'uomo. I carabinieri hanno poi iniziato i pedinamenti, filamndo egli incontri tra la vittima e gli estortori che lo minacciavano, e infine hanno arrestato i sei uomini su richiesta del sostituto procuratore della Dda Ezio Arcadi.
22/02/2007
Fonte: La Sicilia

Tanta antimafia a Brescia...

Con «In un altro Paese» di Marco Turco continua questa sera (ore 20,30) preso la sala Buozzi della Camera del Lavoro il ciclo «Inchieste sulla mafia» organizzato dal Comitato antimafia di Brescia «Peppino Impastato». Due film in programma invece al Ctm di Rezzato per il Pianeta cinema del Cipiesse: «L'aria salata» di Alesando Angelini e «Dopo il matrimonio» di Susanne Bier. Tratto dal libro di Alexander Stille «Excellent Cadavers», riadattato da Vania Del Borgo e Marco Turco, «In un altro Paese» è la ricostruzione storica della mafia, dalla Prima Repubblica ai giorni nostri. Stille, agli inizi del 1990, decise di «indagare» sui delitti di mafia, immergendosi nella Palermo di Letizia Battaglia, fotografa di punta nella documentazione di questi crimini, che assurgerà a coscienza visiva dello scrittore statunitense, il quale pubblicherà il testo nel 1995. Dieci anni dopo, a Marco Turco il compito di filmarlo. La forza del film sta proprio nella capacità di ricostruire - a monte di un'attenta analisi delle più disparate fonti pubbliche - l'altalenanza tra il potere mafioso e quello politico, storicizzandola. Al centro troviamo la storia del maxiprocesso di Palermo e dei due magistrati che lo hanno reso possibile: Falcone e Borsellino. «L'aria salata» è uno dei film italiani più interessanti dell'ultima stagione. Fabio, un educatore dei detenuti di Rebibbia, ritrova per caso all'interno del carcere suo padre, Luigi Sparti, che è stato condannato per omicidio e finge di essere epilettico per ottenere la semi-libertà. Fabio e Luigi non si sono più visti da quando l'uomo ha abbandonato il figlio, che all'epoca aveva solo sei anni, ed è completamente ignaro del profondo legame che lo unisce a Fabio. Padre e figlio iniziano un confronto che li porterà a confidarsi le reciproche sofferenze vissute negli anni di lontananza. Eccellenti gli interpreti: Giorgio Pasotti, Giorgio Colangeli, Michela Cescon. Infine il danese «Dopo il matrimonio», un bellissimo film, un melodramma robusto, che come una tragedia greca prende spunto dalle contingenze del presente per riflettere sui grandi temi dell'uomo: il senso della vita, il dolore e la morte. L'egoismo e il prossimo. Jacob è un quarantenne che, dopo un'esistenza dissoluta (droga, sesso e alcool) e in continua fuga, ha trovato la serenità del buon samaritano dedicandosi al volontariato, all'assistenza dei bambini indiani abbandonati. Quando l'orfanotrofio in cui opera,rischia la chiusura per mancanza di fondi, inopinatamente compare Jørgen, un uomo d'affari danese che propone di elargire una congrua donazione, ma a patto che Jacob acconsenta a tornare in patria per firmare il contratto. Il ritorno a casa costituirà anche una immersione nel suo passato rimosso. La dimensione del dolore, quella dimensione che la nostra civiltà ha rimosso e bandito, diventa la necessità per una nuova consapevolezza individuale. Una storia di destini incrociati, di coscienze riattivate o sporche, ma anche di un mucchio di denaro, che potrebbe salvare molte vite, ma anche fare perdere l'anima come in un patto faustiano. Domani i due film a Rezzato verranno replicati in ordine inverso. Inizio alle 21, biglietto euro 4,00.
Fonte: brescia oggi

Viaggio di Provenzano a Marsiglia

MILANO - Mario Cusimano, pentito di mafia sentito nell'ambito del processo che si tiene davanti ai giudici della terza Corte d'Assise di Palermo, oggi in trasferta a Milano nell'aula bunker di piazza Filangeri, racconta il viaggio, "tutto compiuto via terra", con cui Bernardo Provenzano, nell'autunno del 2003 si recò a Marsiglia per un intervento medico. Un viaggio, a detta di Cusimano, con qualche peripezia: Provenzano era in camion con Michele Rubino, seguito da Ezio Fontana, Nino Mandalà e Gioacchino Badagliacca, su due auto diverse". Il camion però, "si ruppe e dovettero continuare il viaggio in auto". Per il collaboratore di giustizia, "tutto il viaggio fu organizzato da Salvatore Troia, amico intimo di Mandalà: si occupò del viaggio, di dove dormire e dei documenti", ha raccontato. A detta di Cusimano fu poi lo stesso Mandalà a "riportare indietro" il boss dei boss. Mandalà, imputato insieme a Ezio Fontana e Damiano Rizzo nell'attuale processo, in cui i tre sono accusati dell' omicidio dell'imprenditore Salvatore Geraci, avvenuto a Palermo il 5 ottobre 2004, era colui che, secondo Cusimano, aveva "la gestione dei pizzini" di Provenzano. "Nel 2004 - ha riferito - aveva lui lo smistamento". Poi l' incarico passò a Nicola Rizzo, fratello del Damiano imputato nell'attuale processo. "Una volta lo incontrai in un bar e aveva le tasche piene di questi pizzini", ha proseguito Cusimano, interrogato dal pm Nino Di Matteo. Il collaboratore di giustizia ha poi raccontato di una serie di incontri, che avvenivano con la frequenza di "10-15 giorni" e fino all'agosto del 2004, tra Provenzano, Mandalà, Fontana, Rubino e Francesco Pastoia, un altro favoreggiatore del boss, che dopo l' arresto si suicidò in carcere. Le riunioni avvenivano "sempre di mattina presto" in un magazzino a circa 100 metri da una villa di proprietà di Mandalà e dello stesso Cusimano, nel territorio di Ficarazzi, oppure al minigolf dello stesso paese. "Una volta c'erano i carabinieri e dovettero interrompere un appuntamento e scappare", ha raccontato ancora il pentito.
21/02/2007
Fonte: La Sicilia

Bacchettate per Grasso e Messineo dal CSM

ROMA - Una bacchettata per entrambi i protagonisti dello scontro sulla riorganizzazione della Dda di Palermo e cioè per il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, e per il capo della procura del capoluogo siciliano, Francesco Messineo. La Prima Commissione del Csm ha chiuso così, per la parte di propria competenza il caso, con un documento approvato all'unanimità e che potrebbe essere discusso dal plenum di Palazzo dei marescialli oggi stesso o più probabilmente domani. Nel testo i sei consiglieri che la compongono sottolineano "l'esigenza della massima unità e della leale ed efficace collaborazione tra i magistrati impegnati nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata"; e ribadiscono "il richiamo ai magistrati alla rigorosa osservanza dei doveri derivanti dall'alta responsabilità connessa all'esercizio delle funzioni ed alla massima riservatezza e prudenza nei rapporti con gli organi di stampa". Da parte sua il Csm "si impegna ad intervenire tempestivamente per garantire il realizzarsi" di queste condizioni e per "sanzionare eventuali comportamenti con esse contrastanti". Il caso era scoppiato dopo che Grasso con dichiarazioni ai giornalisti si era lamentato di non essere stato informato preventivamente - come a suo avviso prevede l' ordinamento giudiziario - ma di aver appreso solo dalla stampa della riorganizzazione della Dda di Palermo decisa da Messineo con il ritorno dei due aggiunto Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. E aveva parlato perciò di "violazione della legge" da parte del procuratore di Palermo passibile di sanzione disciplinare. Messineo si era allora rivolto al Csm sia per far sapere di aver adottato il piano con efficacia differita al primo marzo e di averne inviato copia al procuratore nazionale antimafia; sia per chiedere tutela al Csm, ritenendosi oggetto di un "pubblico attacco personale" da parte di Grasso tale da realizzare una sua oggettiva "delegittimazione". La Commissione, che due giorni fa ha ascoltato i due magistrati, afferma innanzitutto che "la collaborazione che deve animare i rapporti tra i diversi uffici" giudiziari, a maggior ragione quelli impegnati nella lotta alla mafia, "deve essere improntata non solo al rigoroso rispetto delle regole, ma anche ai fondamentali canoni di correttezza e di pieno rispetto per tutte le funzioni giudiziarie e deve concretizzarsi in condotte ispirate a costante, leale e fattiva cooperazione". Riconosce che la normativa sui rapporti tra le procure territoriali e la Procura nazionale antimafia in tema di modifiche dell assetto delle Direzioni distrettuali antimafia "presenta certamente alcuni margini di ambiguità" e che la comunicazione fatta da Messineo a Grasso "ha costituito sino ad oggi una delle prassi esistenti"; "tuttavia pare opportuno - aggiungono i consiglieri in un passaggio che sembra una stoccata al procuratore di Palermo - che l'informazione sia data con la massima tempestività e in seguito ad una previa interlocuzione", anche per "evitare che il provvedimento diventi di pubblico dominio prima di essere conosciuto dal Procuratore nazionale". Ma ce n'è anche per Grasso: "Quanto più delicate sono le questioni caratterizzanti i rapporti tra uffici giudiziari, tanto più è necessario che ogni eventuale comunicazione a mezzo stampa avvenga solo dopo la loro canalizzazione nelle opportune sedi istituzionali (confronto tra gli uffici e sottoposizione al Consiglio superiore della magistratura)" ammoniscono i consiglieri. Perchè "le eventuali divergenze e i possibili dissensi su singoli provvedimenti" vanno ricomposti nell' ambito del "luogo istituzionale" appropriato cioè del Csm. E in queste situazioni per "scongiurare il rischio che la fisiologica e costruttiva dialettica connessa ai diversi ruoli rivestiti dai magistrati possa ingiustificatamente trasmodare in potenziali fonti di discredito dell' attività giudiziaria, appare necessaria, nel rapporto con i mezzi di informazione e, in genere, nelle dichiarazioni rese in sedi pubbliche, una particolare prudenza e misura".
21/02/2007
Fonte: La Sicilia

Giuffrè rivela altro...

Palermo - Totò Riina ragionava con la sua testa mentre Bernardo Provenzano no. Questa l'analisi che avrebbe fatto Nino Giuffré detto 'manuzza', braccio destro di Provenzano e capo mandamento di Caccamo (Pa), nel tracciare, ai magistrati della Dda di Palermo durante le sue deposizioni da pentito, i profili dei due boss corleonesi succeduti a Luciano Liggio a capo di Cosa nostra.
Per Giuffré "iddu (come era inteso Totò Riina, ndr) le decisioni se le prendeva in prima persona, mentre Provenzano non ha mai preso una decisione in prima persona" perché "ha sempre ragionato - avrebbe dichiarato 'manuzza' - con la testa di Lipari e di Masino Cannella e anche di altre persone". Binnu (Provenzano ndr) avrebbe infine detto Giuffrè ai pm, "è stato sempre forte con i deboli e debole con i forti".
Fonte: virgilio.it

Caruso sul 41 bis

Roma - Il regime del 'carcere duro' non ripaga il dolore delle vittime delle stragi di mafia: lo Stato non può essere vendicativo e torturatore. Il deputato di Prc, Francesco Caruso, spiega il senso della posizione espressa contro il 41 bis, contestata dall'associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili. "Una 'tortura bianca e una barbarie' - hanno replicato in una nota - è assistere ogni giorno alla distruzione di vita dei nostri parenti rimasti invalidi sotto il tritolo stragista del 1993".
Parole che hanno spinto il deputato no-global a scrivere all'associazione. "Vorrei rassicurarvi - esordisce Caruso - che i responsabili della vile e cieca violenza di cui sono state vittime i vostri familiari sono rinchiusi in carcere e lo resteranno per lungo tempo, probabilmente fino all'ultimo dei loro giorni. Credo che la notizia della fine del 41 bis debba essere accolta con soddisfazione da parte vostra perchè signifca che la magistratura ha accertato che finalmente questi personaggi pericolosi e vili hanno definitivamente reciso e perso ogni controllo, relazione e contatto con l'esterno: questo era l'obiettivo per il quale hanno subito la detenzione speciale, un obiettivo raggiunto dopo diversi anni, e di questo non possiamo che essere profondamente soddisfatti".
Tuttavia, sostiene ancora Caruso, "i carnefici di via Georgofili non escono dal carcere, come sembra evincersi dai titoli di alcuni giornali o dalle dichiarazioni di qualche politico, nè finiscono di scontare la pena in un regime normale di detenzione: semplicemente passano dal 41 bis ad un altro girone infernale della detenzione, ossia i reparti EIV (Elevato Indice di Vigilanza) o AS (Alta Sicurezza), nei quali alcuni diritti riconosciuti ai detenuti comuni vengono negati e sacrificati per motivi di sicurezza".
Caruso assicura di comprendere il "dolore"dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili e giudica "anche legittimo che questo immenso dolore possa ricercare anche un accanimento vendicativo nei confronti di chi ha funestato e straziato le vostre vite e quelle dei vostri familiari": "Ma guai - sostiene - se le istituzioni e lo Stato, nella speranza di ripagare e rincorrere questo dolore, sacrifichino i propri principi di democrazia e di diritto. Allo stesso modo mi sembra completamente assurdo proporre oggi una rivisitazione del 41 bis in chiave ulteriormente peggiorativa: significherebe dar ragione a chi afferma che il vero obiettivo del 41 bis non è quello ufficialmente enunciato - recidere i legami con l'esterno - ma è una forma di tortura bianca tesa a estorcere confessioni e pentimenti".
"Solo poche settimane fa alla Camera - ricorda Caruso - abbiamo finalmente approvato l'istituzione del reato di tortura nel nostro paese: non voglio pensare che lo Stato sia il primo imputato di questo vile reato".
Fonte: virgilio.it

mercoledì, febbraio 21, 2007

Grande Totò... Sempre meglio...

PALERMO - "Con Cuffaro ci siamo incontrati, siamo stati vicini, lui è venuto diverse volte a trovarmi. Non è che ci fu una volta sola. Ci riunivamo là dentro da me, me lo accompagnava un altro e mi diceva: non ti preoccupare". Sono le parole del boss dell'Uditore Francesco Bonura riportate in una delle intercettazioni ambientali depositate stamane dalla procura nel processo alle talpe della Dda. In questo colloquio, registrato il 23 giugno 2005, il boss dell'Uditore, parlando con "un certo Marchese" di una questione che riguarda l'istituto zooprofilattico, fa riferimento alla necessità di discuterne con Cuffaro.
Nella conversazione, avvenuta nei locali dell'immobiliare Raffaello, i due, parlando della vicenda giudiziaria di Cuffaro, si stupiscono che il governatore non abbia subito provvedimenti restrittivi della libertà personale. Dice Marchese, riferendosi a Cuffaro: "Anzi, che è ancora fuori, perché si vede che i discorsi devono andare in questo modo". E Bonura conclude: "Lui può stare fuori, se fossi io...". Lapidario il commento del governatore siciliano: "Non ho mai incontrato il signor Francesco Bonura e non sono mai stato nella sede dell'immobiliare Raffaello". "Non ho cosa dire - aggiunge il presidente della Regione -, quando due persone parlano tra loro di me, di fatti che non conosco assolutamente". Francesco Bonura, 64 anni, è un costruttore mafioso di cui si parla dagli anni 80 ma che è riuscito a rimanere nell'ombra e a salire nella gerarchia mafiosa pur avendo subito arresti e condanne per mafia. Adesso Bonura è in carcere, arrestato nell'ambito dell'inchiesta dello scorso giugno, denominata "Gotha", che ha decapitato i vertici di Cosa nostra palermitana legati a Bernardo Provenzano. Proprio dalle carte di quell'inchiesta, alcune delle quali confluite nel procedimento al governatore Cuffaro, il mafioso sembra aver acquisito un ruolo più importante di quello finora attribuitogli. I magistrati lo accusano di "avere diretto l'organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra - tra l'altro attraverso la carica formale di sottocapo della famiglia mafiosa di Uditore - incidendo direttamente sulla struttura di alcuni mandamenti, tra i quali quello di Boccadifalco; aver costituito un punto di riferimento mafioso per il controllo di lavori pubblici e l'imposizione del pizzo; di aver mantenuto, attraverso il continuo scambio di contatti in particolare con Antonino Rotolo, un costante collegamento con gli altri capi dell'organizzazione mafiosa, svolgendo funzioni direttive e contribuendo a delinearne le linee strategiche". Bonura gestisce il racket, ha un ruolo di primo piano, ma cerca di defilarsi quando viene chiamato a ruoli impegnativi e "istituzionali" per Cosa nostra, come diventare capomandamento di Passo di Rigano-Uditore, il suo quartiere, dov'è cresciuto diventando uno dei più facoltosi costruttori palermitani.Negli anni 80 venne processato e assolto per 5 omicidi e una lupara bianca. Secondo l'accusa aveva eliminato i componenti di una banda di rapinatori che agivano senza il consenso di Cosa nostra. Venne fermato col suo guardaspalle e nell'auto venne trovata una pistola calibro 38 subito dopo due degli omicidi per cui venne rinviato a giudizio. Ma l'arma non era quella che aveva sparato e Bonura venne assolto per insufficienza di prove dalle accuse più gravi. Nell'86 Bonura subì la confisca di beni immobili e quote societarie per oltre dieci miliardi di lire oltre alla misura della sorveglianza speciale per 5 anni. Di lui parlò il pentito Buscetta definendolo "valoroso" e ricordando che era nipote del boss Pietro Torretta e che nel quartiere Uditore era uno dei "capi" della mafia.
20/02/2007
Fonte: La Sicilia

Lumia era nel mirino

PALERMO - I boss mafiosi avevano progettato l'uccisione dell'ex presidente della Commissione antimafia, Giuseppe Lumia (Ds). Il piano è stato scoperto dalla procura di Palermo che ha chiesto ed ottenuto dal gip due ordini di custodia cautelare in carcere. I provvedimenti sono firmati dal giudice Donatella Puleo, su richiesta del procuratore aggiunto Sergio Lari e del sostituto Michele Prestipino, e riguardano Domenico Virga, 43 anni, capomafia di Gangi (Palermo), già detenuto, e Salvatore Fileccia, di 42, ritenuto uomo d'onore della famiglia mafiosa di "Palermo Villagrazia".Il progetto di attentato, deliberato secondo l'accusa agli inizi del 2000 dai vertici di Cosa nostra con in testa Bernardo Provenzano, ha trovato riscontro dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia, Maurizio Di Gati. Già in precedenza aveva parlato del piano di morte nei confronti di Lumia il pentito Nino Giuffrè. I due collaboratori, per i quali la procura sta procedendo per queste accuse separatamente, sostengono che si erano procurati, attraverso Virga e Fileccia, una serie di armi, fra cui Kalashinikov, che dovevano servire per uccidere il parlamentare. I fucili mitragliatori provenivano dagli agrigentini e ancora adesso, secondo i pentiti, sono nella disponibilità dei boss palermitani.
Le armi che dovevano essere utilizzate per uccidere l'ex presidente della Commissione antimafia, Giuseppe Lumia, erano state consegnate, secondo il pentito Maurizio Di Gati, direttamente a Domenico Virga e Salvatore Fileccia, nei confronti dei quali stamani i carabinieri hanno notificato due ordini di custodia cautelare in carcere. Per mettere in pratica il piano di morte l'ex boss di Caccamo, Nino Giuffrè, aveva scelto due persone: i cugini Pino e Giuseppe Rizzo, della famiglia mafiosa di Cerda. Giuffrè spiega ai pm che l'idea di uccidere Lumia era nata nel 2000 dopo un incontro con Provenzano. "Lumia era molto attivo nei discorsi antimafia - afferma Giuffrè - allora se ricordo bene, addirittura era il Presidente dell'Antimafia nazionale e io ero particolarmente e in prima persona, uno dei suoi nemici, perchè lui gravitava in modo particolare nella zona di Termini Imerese, ma in modo particolare nella zona di Caccamo". "Lumia - aggiunge - martellava sempre in modo particolare contro di me nell'ambito politico, anche dopo l'uccisione di Nico Geraci, frequentava altri comuni nel mio mandamento, fra cui in modo particolare Roccapalumba e Vicari, ma frequentava anche altri comuni del mandamento di Corleone. Un giorno, trovandomi con Provenzano, prendendo lo spunto che lo stesso onorevole Lumia fosse stato in qualche paesino nel Corleonese, e si scagliava contro di noi... Provenzano mi dice, quasi casualmente, ad arte, 'Si, ma tu quasi quasi, che fai? Tu lo vuoi... lo vuoi uccidere?'. Lei la mia posizione la sa, gli ho risposto, e lui 'Se tu sei d'accordo, se tu lo vuoi fare, è il tuo territorio...'. Risposi subito che lo volevo fare. E siamo rimasti che l'onorevole Lumia doveva essere ucciso". Il piano per uccidere Lumia non venne messo in atto perchè Giuffrè aveva preso tempo, per timore delle conseguenze che sarebbero derivate dall'omicidio di un politico effettuato nel territorio in cui comandava il capomafia allora latitante. È lo stesso Giuffrè che lo spiega ai pm."Dopo che Provenzano aveva detto che Lumia si poteva uccidere - afferma Giuffrè - ho fatto con calma, siccome era un discorso, come sto dicendo mio, me ne hanno dato incarico a me personalmente e nel bene o nel male mi sono preso pure questa responsabilità di fare con calma, però in tutta onestà devo dire che ogni tanto mi si aggirava il discorso: piano, piano vediamo perchè era anche necessario valutare il danno che facciamo, da vivo, da morto; perchè se da morto deve fare più danno che da vivo, andiamoci piano, poi andiamo vedendo, andiamo valutando"."Posso dire - afferma Giuffrè - che in un certo qual modo ho babbiato, (scherzato) questo non l'ho detto mai a nessuno, l'ho detto a me stesso e ho preso tempo, e adesso siamo qua". Giuffrè, infatti venne arrestato dai carabinieri e il progetto di attentato che lui stava preparando sfumò.
20/02/2007
Fonte: La Sicilia

martedì, febbraio 20, 2007

Sconto per il pizzo "cristiano"

GELA (CALTANISSETTA) - Il racket delle estorsioni, a Gela, non risparmia nessuno, nemmeno la chiesa. Al parroco di S. Rocco è stata chiesta una tangente di settemila euro, ridotta poi a mille euro, in una sorta di "sconto speciale per il clero". La somma è stata incassata nel pomeriggio di domenica scorsa. La polizia ha intercettato il taglieggiatore e lo ha arrestato con l'accusa di estorsione aggravata e minacce. Si tratta di Angelo Ognissanto, di 46 anni, pregiudicato per reati specifici, sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno. Il sacerdote è don Enzo Romano, di 54 anni. Proprio nella messa di domenica sera, il parroco, molto turbato, aveva detto ai fedeli che quella era la sua ultima omelia. Non ne avrebbe dette più, un po' per protesta un po' per evitare espressioni condizionate da uno stato d'animo tutt'altro che sereno. Don Enzo Romano, alcuni anni addietro, fu preso di mira da sconosciuti malviventi che incendiarono la sua automobile e danneggiarono la sacrestia.
Era il periodo in cui si decideva per l'assegnazione dell'appalto della nuova chiesa della parrocchia, che è stata inaugurata nello scorso autunno.
20/02/2007
Fonte: La Sicilia

Mistero al Pronto Soccorso

CATANIA - La polizia ha avviato un'indagine su un misterioso ferimento di un pregiudicato, Sebastiano Solferino di 34 anni, avvenuto ieri poco dopo la mezzanotte a Catania. L'uomo la notte scorsa si è presentato al pronto soccorso dell'ospedale Vittorio Emanuele con una ferita a un piede provocata da un colpo di pistola. Solferino che ha precedenti per spaccio e l'estate scorsa era stato coinvolto in un'operazione antimafia contro il clan Pillera, ha raccontato di essere stato colpito mentre cercava di separare due persone che litigavano nel quartiere di Zia Lisa. La squadra mobile sta cercando di riscontrare questa versione ritenuta poco credibile.
20/02/2007
Fonte: La Sicilia

lunedì, febbraio 19, 2007

Scaduti cinque 41 bis... La solita Italia...

PALERMO - Scaduti i termini per la detenzione in regime di carcere duro per cinque boss di Cosa Nostra, condannati per le stragi di via d'Amelio e via dei Georgofili a Firenze. La segnalazione arriva dal ministero della Giustizia. La cancellazione del 41 bis riguarda Salvatore Biondo, Giuseppe Montalto, Lorenzo Tinnirello, tutti condannati all'ergastolo per l'attentato al procuratore aggiunto Paolo Borsellino e agli agenti di scorta e per Salvatore Benigno e Cosimo Lo Nigro, anche loro con condanna all'ergastolo per le autobombe di Firenze del 1993. La notizia è stata inviata alle direzioni distrettuali antimafia di Palermo, Caltanissetta e Firenze. Adesso saranno i magistrati di queste procure dimostrare l'efficacia della misura cautelare. Ovvero provare eventualmente "l'attualità dei legami tra il mafioso in prigione e i suoi gregari all'esterno".
"L'affronto che stiamo subendo è di una gravità inaudita, Lo Nigro e Benigno hanno ammazzato i nostri parenti e ferito 48 persone per far abolire il 41 bis". Questo il commento dell'Associazione tra i familiari delle vittime di via Georgofili. "Non bastava che a Cosimo Lo Nigro fosse stato revocato il 41 bis, ora è la volta di Benigno Salvatore e chissà quanti altri degli stragisti di Firenze saranno sulla strada della 'redenzione", afferma ancora l'Associazione secondo la quale "abolire il 41 bis bis vuol dire una cosa sola, che lo Stato ha subito il ricatto messo in atto in via dei Georgofili la notte del 27 Maggio 1993". L'Associazione chiede "di poter ascoltare pubblicamente, nelle prossime ore, la voce del ministro Mastella in merito a quanto sta succedendo sul fronte del '41 bis', l'unico regime carcerario adatto alla mafia stragista ed eversiva del 1993"."È evidente che rispetto al 41 bis c'è bisogno di individuare modifiche legislative che evitino situazioni come queste ma anche le scappatoie normative che negli ultimi anni hanno prodotto centinaia di ricorsi davanti ai tribunali di sorveglianza". Dice Rita Borsellino, sorella del magistrato Paolo ucciso nella strage di via D'Amelio, commentando la notizia della scadenza dei termini del regime di carcere duro per cinque mafiosi di Cosa Nostra. "Il 41 bis - continua Borsellino - non è una vendetta dello Stato ma una misura precauzionale per evitare che chi è condannato per reati così gravi continui ad avere rapporti con l'esterno e a controllare le cosche anche dal carcere. Proprio per questo motivo è grave che si arrivi ad un'interruzione della misura solo per scadenza dei termini". 19/02/2007
Fonte: La Sicilia

Relazione annuale della Procura Nazionale Antimafia

La relazione annuale della Procura nazionale antimafia ha lanciato l’allarme: in Italia la mafia russa sta estendendo sempre più la sua longa manus in Italia. Gli investimenti sarebbero molteplici e dilagano a macchia d’olio, dalle aziende agricole in Toscana agli investimenti immobiliari in Liguria, alla ristrutturazione di immobili di gran pregio in Lombardia. Senza contare il controllo esercitato sui parcheggi dei bus che trasportano persone e merci tra l’Ucraina e l’Italia, e il racket al quale sono sottoposti gli autisti degli stessi automezzi e persino dei passeggeri. In buona parte delle nostre regioni è accertata la presenza di elementi sospetti, soprattutto ai fini del riciclaggio di ricchezze provenienti da illeciti penali. Tra le attività illecite a cui si dedicano gruppi criminali dell’ex Unione Sovietica c’è anche il traffico di sostanze stupefacenti sintetiche, quali ecstasy ed eva, hashish ed eroina. Le donne vengono, di solito, avviate alla prostituzione o al lavoro di badanti e colf, mentre gli uomini vengono destinati al lavoro in fabbriche tessili o nel settore agricolo. La relazione dedica un intero capitolo alla geografia delle mafie straniere in Italia. Un cospicuo paragrafo è dedicato alla comunità cinese in Italia. Ciò che più preoccupa è il fenomeno dell’immigrazione clandestina, prevalentemente dalla provincia dello Zhejiang. Per poter arrivare in Italia, ciascun clandestino paga dai 10 ai 15 mila euro, spesso anticipata da organizzazioni che hanno sede in Cina. I cinesi si dedicano anche alla falsificazione di documenti, ai sequestri di persona a scopo di estorsione a danno di connazionali, estorsioni, rapine, recupero crediti con metodi intimidatori e violenti, organizzazione del gioco d’azzardo. Alla tratta di esseri umani, in particolare donne e minori, e allo sfruttamento della prostituzione sono dedite invece le organizzazioni criminali bulgare.
Fonte: il mattino

sabato, febbraio 17, 2007

Rivelazioni di Vara

I magistrati della Direzione distrettuale antimafia hanno chiesto la riesumazione del cadavere di una vittima di mafia, per un accertamento balistico che spera di fare piena luce su un delitto di mafia avvenuto 17 anni fa e rimasto finora senza colpevoli. L'omicidio è quello di Giuseppe Ricottone, 60 anni, di Milena, intermediario, avvenuto nel 1990, ucciso con un colpo di pistola, mentre si trovava nella sua casa di campagna, in territorio di Milena, insieme ad altre due persone. L'uomo era sul balcone di casa e venne raggiunto da un colpo di fucile: l'ex agricoltore di Milena, che per anni aveva vissuto all'estero, venne accompagnato in ospedale, ma spirò alcuni giorni dopo per le gravi lesioni provocate da quella fucilata.
L'inchiesta è ripartita grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Ciro Vara che ha raccontato ai magistrati della Dda nissena che il delitto sarebbe stato commesso da uomini d'onore di Campofranco e che tra i mandanti ci sarebbe un personaggio di Milena, finora mai indagato per vicende di mafia, ed il boss Giuseppe «Piddu» Madonia. Vara ha indicato anche i nomi dei presunti killer, indicandoli in Domenico Vaccaro e Salvatore Termini di Campofranco, il primo detenuto dopo una condanna per mafia al processo «Urano» e il secondo che sta scontando una condanna all'ergastolo per un omicidio che avrebbe commesso a Ribera.
«Non posso dire nulla su questo episodio», si è limitato a dire ieri il procuratore facente funzioni Renato Di Natale, che insieme al sostituto procuratore Ombretta Malatesta si sta occupando di queste indagini. Adesso si parla di incidente probatorio per cercare ulteriori riscontri a quanto ha dichiarato Vara, che ha raccontato i contesti in cui sarebbero maturati numerosi delitti di mafia avvenuti tra gli anni Ottanta e Novanta non solo nel Nisseno, ma anche nell'Agrigentino e in altre località. Vara si è pure accusato di alcuni di questi fatti di sangue e di recente è stato archiviato il procedimento a suo carico per l'omicidio del commerciante Giuseppe Grasso, avvenuto nel 1983 a Vallelunga. Per Vara - che ha beneficiato dello sconto di pena e delle attenuanti per i collaboratori di giustizia - il reato infatti è ormai prescritto.
Fonte: La Sicilia

Sequestro ai Ficarra

Serradifalco - Ci sono anche alcuni beni immobili ricadenti in territorio di Serradifalco tra i beni del valore di 15 milioni di euro, che sono stati sequestrati ieri mattina dagli agenti del centro operativo Dia di Palermo a due imprenditori originari di Canicattì, Vincenzo e Diego Ficarra, rispettivamente padre e figlio di 80 anni e 50 anni. Il provvedimento di sequestro è stato disposto dalla sezione "Misure di prevenzione" del Tribunale di Agrigento che ha accolto la richiesta del Procuratore della Repubblica, Ignazio De Francisci.
Sono stati sequestrati, tra l'altro, due auto concessionarie, un'azienda agricola e conti correnti e bancari tra Agrigento, Canicattì e Serradifalco. Vincenzo e Diego Ficarra erano rimasti coinvolti anni fa nell'operazione «Alta mafia» che aveva riguardato anche la provincia di Caltanissetta, con l'incriminazione di numerosi colletti bianchi. Di recente erano stati sequestrati beni appartenenti all'on. Vincenzo Lo Giudice ed alla moglie nissena.
Fonte: La Sicilia

Bene confiscato diventa circolo ARCI

Arciragazzi ha un nuovo circolo ricreativo realizzato in un immobile confiscato alla mafia. L'immobile si trova al secondo piano di una palazzina in piazza San Lorenzo 25 ed è stato confiscato ad Antonino Cinà. La struttura diventerà punto di riferimento per i giovani del "Dammuso del Mediterraneo", un centro che mira a collegare tutte le esperienze di lavoro tra ragazzi e ragazze del Mediterraneo e che è impegnato in iniziative per promuovere la pace. «Questo bene confiscato - ha detto l'assessore Enea - va a supporto di un'associazione che, occupandosi di ragazzi, si impegna a difendere ed esaltare la vita, promuovendo lavoro, cultura e pace, contro la mentalità di morte incarnata dalla mafia».
Fonte: La Sicilia

Membro dei Laudani arrestato

CATANIA - Un giovane di 26 anni, Antonino Fosco, ritenuto gravitante nel clan Laudani, è stato arrestato a Catania da agenti della Squadra Mobile perché accusato di essere uno dei tre malviventi che nel settembre dello scorso anno rapinarono un noto commerciante nel settore dell'abbigliamento. Il giovane è stato ripreso dalle telecamere a circuito chiuso del negozio. Fosco sarebbe uno dei tre uomini che tentarono di bloccare il commerciante alla chiusura del negozio, e non essendo riusciti nell'impresa, attesero la vittima sotto casa per prenderlo a pugni e rapinarlo di 8.000 euro.
17/02/2007
Fonte: La Sicilia

Operazione "Fortezza 2"

Prima l'arresto, poi il colpo inferto alla tasca. Com'è ormai abitudine radicata, le forze dell'ordine coordinate dalle Procure italiane hanno deciso di punire affondo chi si macchia di reati gravi come possono essere quelli per mafia. Ieri mattina, su questo solco, la Guardia di Finanza del comando provinciale di Agrigento, agli ordini del tenente colonnello Vincenzo Raffo ha reso noti i particolari di una confisca di beni di spessore. I beni erano, perché da giorni non lo sono più, quelli del pescivendolo empedoclino di 33 anni Giuseppe Bongiorno, arrestato nel luglio del 2003 nel contesto dell'operazione «Fortezza 2».
Una «storiaccia» di estorsioni fatte da chi era ritenuto foraggiasse la latitanza dei boss mafiosi agrigentini all'epoca latitanti. A essere sottratti dal patrimonio di Bongiorno, oggi sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale sono stati nell'ordine: un appartamento in via Colombo del valore di 150 mila euro, 3 conti correnti bancari con un saldo attivo pari a 38.866,59 euro, 4 fondi comuni d'investimento pari a 49.321,74 euro, un deposito e custodia di azioni del valore di 20.728 euro. Il tutto sistemato in istituti di credito di Porto Empedocle e Canicattì. La Guardia di Finanza aveva proposto anche la confisca di un secondo appartamento, risultato però ottenuto non da attività illecite condotte da Bongiorno.
La confisca resa nota ieri giunge al culmine di un precedente provvedimento di sequestro preventivo disposto nel maggio del 2005 dal nucleo di polizia tributaria. Secondo quanto reso noto ieri dalle fiamme gialle «con il provvedimento in questione il Tribunale di Agrigento ha affermato la qualificata pericolosità sociale di Bongiorno, considerato vicino alla famiglia mafiosa di Santa Elisabetta». A carico del pescivendolo empedoclino gravano due precedenti ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip di Palermo, l'ultima delle quali proprio nel maggio del 2003 per i reati di produzione e traffico di sostanze stupefacenti.
Adesso, come ormai evidente su scala nazionale, allo Stato non basta più ammanettare ed eventualmente condannare chi delinque. Conta soprattutto azzerare quanto guadagnato attraverso sistemi diversi da quelli legali. E in tal senso nei prossimi giorni sono attesi altri colpi bassi per le tasche di chi si è arricchito nel modo peggiore.
Fonte: La Sicilia

Frutti dell'operazione Gotha

Beni per oltre 30 milioni di euro che sarebbero riconducibili al boss Antonino Rotolo, ma intestati a insospettabili tra costruttori, imprenditori e commercianti, sono stati sequestrati dalla polizia. Gli accertamenti patrimoniali, che sono stati coordinati dalla Dda, sono il frutto di indagini all'indomani dell'operazione antimafia 'Gotha' portata a termine nel giugno del 2006 dalla Squadra mobile.
I prestanome del boss sono stati iscritti nel registro degli indagati. Sono state poste sotto sequestro, tra l'altro, tre imprese edili, una gioielleria, appezzamenti di terreno in un'area soggetta ad urbanizzazione, tre ville nel quartiere Uditore, due fabbricati in corso di ristrutturazione in una zona centrale di Palermo, una palazzina nel centro storico ed un manufatto di grandi dimensioni, nel rione Villa Tasca, adibito al gioco del Bingo, nonchè i conti correnti degli indagati e delle imprese interessate ed i beni mobili di queste ultime per un valore complessivo di oltre 30 milioni di euro.
Per il questore Giuseppe Caruso si è trattato di «un colpo duro e forte ai danni dei boss e dei loro patrimoni. Ritengo che sia un colpo molto più forte, paradossalmente, rispetto ad un arresto. Un mafioso avverte con maggiore pesantezza un'aggressione ai beni patrimoniali illecitamente acquisiti piuttosto che una permanenza in carcere».
Il Presidente della Commissione Parlamentare nazionale antimafia, Francesco Forgione, ha detto che «l'operazione della polizia mette in luce la forza di una mafia che proprio con l'operazione Gotha ha dimostrato di essere già entrata in una fase nuova, finanziaria ed imprenditoriale, rispetto a quella che abbiamo conosciuto con i corleonesi. Per il vicepresidente dell'Antimafia, Giuseppe Lumia, «il sequestro dei beni mafiosi si conferma uno strumento fondamentale nella lotta a Cosa nostra».
Fonte: La Sicilia

venerdì, febbraio 16, 2007

Grasso parla del 41 bis

I detenuti sottoposti a regime di carcere duro per reati legati ad attivita' mafiose (41 bis) sono attualmente 521 ma con un decremento costante negli anni. E questo, mentre non sembra interrompersi il contatto tra i boss in carcere e l'esterno, con tanto di direttive e 'consigli' alle famiglie mafiose. A chiedere di rivedere la legge istitutiva del 41 bis e' stato oggi il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso davanti alla Commissione parlamentare antimafia.
''Il 41 bis - ha spiegato Grasso nel corso della sua audizione a San Macuto - e' nato per risolvere alcuni problemi e resta uno strumento essenziale nella lotta alla mafia'', ma la sua efficacia e' stata condizionata da alcune interpretazioni date al provvedimento dai tribunali di sorveglianza e da alcune sentenze della stessa Consulta.
''Oltretutto - ha spiegato il procuratore antimafia - continuano fughe di notizie dalle carceri con i piu' svariati e fantasiosi sistemi''. Da qui la necessita', ha aggiunto Grasso, di trovare alcune soluzioni per modificare e rendere piu' efficace l'attuale normativa ''pensando anche al cambiamentio, in alcuni punti, dell'istituto''.
Tra le proposte avanzate anche quella di una sorta di ''indagine'' costante sui detenuti sottoposti al 41 bis che aiuti a scoprire eventuali contatti con l'esterno. ''Si e' tanto insistito sull'importanza delle misure di isolamento, bisogna ora - ha detto il procuratore antimafia - dimostrare che l'isolamento sia reale ed efficace''.
Lo stesso Grasso ha poi fornito alcuni dati relativi al decrescere del regime del 41 bis diminuito, dal 2003 ad oggi, di 245 unita'.
Fonte: asca.it

lunedì, febbraio 12, 2007

Audizioni della Commissione Parlamentare Antimafia

PALERMO - La Commissione Parlamentare Antimafia avvierà una serie di audizioni, a partire da mercoledì 14 febbraio alle ore 14, sul tema del sequestro, confisca e riutilizzo dei beni mafiosi ascoltando i rappresentanti delle istituzioni preposte alla vigilanza del settore, dell'associazionismo e degli enti locali. Le prime due audizioni saranno con il Prefetto di Palermo, Giosuè Marino, e con quello di Napoli, Alessandro Pansa, le province con il maggior numero di beni confiscati.
Giovedì 15 febbraio, alle 14, sempre sul tema dei beni confiscati, verrà sentito il Presidente dell'associazione Libera, don Luigi Ciotti, insieme con lui ci saranno i responsabili delle cooperative che lavorano utilizzando beni e terreni confiscati. Le audizioni si terranno presso Palazzo S. Macuto.
12/02/2007
Fonte: La Sicilia

Sequestro da 30 mln di euro

PALERMO - Ci sono tre ville, due caseggiati ancora in costruzione, un Bingo e una gioielleria; e poi ancora una palazzina nel centro storico di Palermo e tanti conti correnti: tutti beni sequestrati a Cosa Nostra. Trenta milioni di euro intestati a prestanomi riconducibili al boss Nino Rotolo, uno dei componenti della "triade" che insieme ad Antonino Cinà, ex medico di Provenzano e di Totò Riina, e al costruttore mafioso dell'Uditore Franco Bonura, governava la mafia dopo l'arresto di Provenzano. L'elenco dei beni sequestrati su disposizione della Direzione distrettuale antimafia di Palermo è lungo: i sigilli sono stati apposti a tre imprese edili; una gioielleria; lotti di terreno in area soggetta ad urbanizzazione nel Comune di Palermo; tre ville nel quartiere cittadino di Uditore; due fabbricati in corso di ristrutturazione in zona centrale; una palazzina nel centro storico ed un grande manufatto, nel rione Villa Tasca, adibito al gioco del Bingo, nonchè i conti correnti degli indagati e delle imprese interessate. Sequestrati anche beni per 2 milioni di euro relativi a due imprese riconducibili a Carmelo e Giovanni Cancemi, considerati appartenenti alla famiglia mafiosa di Pagliarelli. Entrambi, in concorso con Antonino Rotolo, si sarebbero aggiudicati con metodi mafiosi, una serie di appalti nel settore dei lavori edili. Un maxisequestro disposto nell'ambito delle risultanze dell'operazione "Ghota" che nel giugno scorso, con l'arresto di 51 persone, fece luce sulla "triade" che affiancava il padrino corleonese Bernardo Provenzano in una sorta di "gestione commissariale" di Cosa Nostra.
Fonte: La Repubblica

sabato, febbraio 10, 2007

Grasso incontra Messineo

PALERMO - Il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, ha incontrato stamani a Palermo il capo della Direzione distrettuale, Francesco Messineo. L'incontro è avvenuto negli uffici del palazzo di giustizia. I due procuratori hanno avuto un lungo colloquio al centro del quale ci sarebbe stata la polemica sollevata nei giorni scorsi da Grasso sulla organizzazione e l'ingresso in Dda di nuovi magistrati. Messineo ieri ha chiesto al Csm, in seguito alle dichiarazione fatte da Grasso durante l'audizione in Commissione antimafia, di essere convocato dal consiglio per illustrare i termini della vicenda, e allo stesso tempo chiede di essere tutelato. Al centro del conflitto vi è dunque la nuova organizzazione dell'ufficio, in particolare della Direzione distrettuale antimafia, in cui ritornano i procuratori aggiunti Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, ai quali vanno, in gran parte, i più importanti dipartimenti su cui punta la nuova procura guidata da Messineo.
10/02/2007
Fonte: La Sicilia

Arrestato membro dei Cappello

CATANIA - Il latitante Cosimo Viglianesi, 53 anni, indicato come esponente della cosca Cappello, ricercato per due omicidi di mafia dall'8 novembre del 2006 in esecuzione di un ordine di arresto del Gip di Catania, è stato arrestato dalla polizia di Stato nel Ragusano. L' uomo si nascondeva in una casa rurale di contrada Sughero Torto di Scoglitti. A trovare il covo del latitante sono stati agenti della squadra mobile della Questura di Catania e personale della Direzione centrale anticrimine della polizia, grazie a servizi di intercettazioni telefoniche ed ambientali. Viglianesi era sfuggito all'operazione 'Crepuscolo' contro 13 persone appartenenti alla cosca Cappello, compreso l'omonimo boss ergastolano Salvatore, responsabili di numerosi omicidi commessi nel corso della guerra di mafia tra cosche contrapposte. Viglianesi, indicato dagli investigatori come elemento di spicco della cosca, in cui milita sin dagli anni Ottanta, è indagato per due omicidi. Inoltre è destinatario di un ordine di carcerazione, emesso dalla Procura generale di Catania, perchè deve scontare tre anni di reclusione di una condanna per associazione mafiosa e rapina aggravata.
10/02/2007
Fonte: La Sicilia

37 anni dopo, caso De Mauro

Trentasette anni dopo la sparizione del giornalista del quotidiano "L'Ora" di Palermo, Mauro De Mauro, la Procura di Palermo ha aperto una nuova inchiesta, a carico di Bernardo Provenzano - la cui posizione era gia' stata archiviata - e di persone allo stato "ignote". Il procedimento costituisce uno stralcio di quello principale, in corso davanti alla Corte d'assise e nel quale e' imputato il capo di Cosa Nostra Toto' Riina. Questa mattina, a Roma, il pm Antonio Ingroia ha interrogato l'ex direttore del Giornale di Sicilia, Roberto Ciuni. Il giornalista ha riferito al magistrato di un incontro da lui avuto con il commercialista Antonino Buttafuoco, che gli avrebbe parlato di alcune informazioni da lui fornite a De Mauro sugli uffici tributari di Palermo. Ciuni all'epoca aveva informato dell'incontro il sostituto procuratore Ugo Saito che si occupo' del delitto De Mauro. L'inchiesta a carico di Buttafuoco fu poi archiviata.
Fonte: La Repubblica

In ricordo di Peppino

Legalità nel nome di Peppino Impastato. Due occasioni per ricordare l’attivista assassinato dalla mafia in Sicilia, nel ’78, di cui storia e impegno sociale sono stati raccontati anche attraverso il film «I cento passi». A Giugliano esce finalmente fuori dall’anonimato la scuola di via Bartolo Longo, che lascia l’impersonale nome di Quinta scuola media per essere intitolata proprio a lui, mentre stasera alle 19, invece, il movimento Peppino Impastato promuove il dibattito «Per la Legalità, salviamo la democrazia, costruiamo il futuro», all’hotel Lento di via Roma a Melito, al quale intervengono don Tonino Palmese, di Libera, Giuseppe De Cristofaro, Lorenzo Diana, il pm Raffaele Cantone, l’assessore provinciale Bernardino Tuccillo. Chiude i lavori il presidente della commissione antimafia, Francesco Forgione. Intanto l’iter per intitolare la scuola di Giugliano, iniziato due anni fa, si è concluso con l’invio di una nota dell’Ufficio regionale scolastico che ufficializza l'intitolazione.
Fonte: Il mattino

Pizzo a strutture turistiche

Cosa Nostra palermitana avrebbe imposto il pizzo anche ad alcune strutture turistiche della zona del Ragusano, meta di molti nisseni. E' quanto emerso nella nuova udienza di ieri mattina in Tribunale (presidente Sebastiano Giacomo Barbagallo, a latere Paola Proto Pisani e Alessandra Giunta) del processo per l'operazione antimafia «Grande mandamento» a carico di quattro presunti «postini» del boss corleonese Bernardo Provenzano. Gli imputati sono Alessandro Farruggio commerciante di Montedoro, Salvatore Martorana, imprenditore agricolo di Vittoria e i fratelli Gioacchino e Roberto Ferro, imprenditori agricoli di Canicattì (assistiti dagli avvocati Giacomo Butera, Angela Porcello, Empedocle Mirabile e Armando Zampardi). Nel corso dell'udienza di ieri mattina è stato interrogato il pentito vittoriese D'Agosta il quale ha parlato di Martorana, indicandolo come una persona influente della zona, dedito alle estorsioni. D'Agosta ha dichiarato che Martorana sarebbe intervenuto chiedendo alle cosche della zona di Vittoria di non intervenire con richieste di pizzo ad alcuni villaggi turistici che erano già «protetti» da soggetti mafiosi di Palermo. D'Agosta ha pure parlato delle esperienze politiche del padre che aveva fondato il Partito dei cacciatori, aggiungendo, inoltre, che Martorana avrebbe ospitato personaggi politici nazionali. Il processo - scaturito da una indagine dei carabinieri del Ros - si avvia alla conclusione.
Fonte: La Sicilia