sabato, aprile 29, 2006

La mafia vuole uccidere Crocetta

GELA (CALTANISSETTA) - "La mafia mi voleva uccidere nel marzo del 2004 perché mi stavo occupando di appalti e infiltrazioni mafiose nell'indotto del petrolchimico dell'Eni, dove chiedevo l'adesione ai protocolli di legalità e il rispetto della legge". E' quanto ha rivelato il sindaco di Gela, Rosario Crocetta, in una conferenza stampa in municipio.I mandanti dell'ipotizzato agguato al sindaco sarebbero da individuare "tra i personaggi mafiosi coinvolti nell'inchiesta illustrata ieri". Glielo avrebbe riferito un imprenditore onesto, escluso dalle gare d'appalto, con il quale Crocetta ha avuto un lungo colloquio. Un'inchiesta è stata avviata dalla polizia.
La conferenza stampa era stata convocata per illustrare le ripercussioni sulla sua giunta in seguito all'operazione "In-Out" di carabinieri e Dda, che ha portato all'arresto di sei persone. Crocetta ha comunicato le dimissioni dalla sua giunta dell'assessore allo Sviluppo economico, Guido Cirignotta (La Margherita), il cui nome era apparso nelle conversazioni telefoniche degli imputati, intercettate dai carabinieri.Nessuna accusa formale è stata formulata nei confronti di Cirignotta, il quale ha deciso di dimettersi "per poter tutelare la sua immagine e il suo prestigio, in ogni sede, liberamente, senza coinvolgere l'amministrazione comunale di Gela". Il sindaco ha apprezzato e condiviso il gesto, ma ha anche aggiunto che se Cirignotta non si fosse dimesso, avrebbe provveduto lui stesso a ritiragli la delega. E ha esortato i componenti del Consiglio comunale, se inquisiti, a seguire l'esempio dell'assessore.
28/04/2006

venerdì, aprile 28, 2006

Accusati i Vitale in Aula

100 commercianti in rivolta

Si dissocia da Cosa Nostra, scarcerato

Mini rivoluzione a Palermo

PALERMO - L'ha fatto sapere a tutti che lui non avrebbe pagato mai. Appena ha capito cosa gli stavano facendo si è incamminato verso il centro della strada e ha cominciato a urlare, poi ha afferrato il suo telefonino e chiamato il 113 e anche il 112, polizia e carabinieri insieme. Non si è mosso di un passo, fino a quando non sono arrivate le pattuglie. E a voce alta, così che gli altri potessero sentirlo, ha raccontato: "Mi hanno chiesto il pizzo ma io non ci sto". È un artigiano che ha la bottega tra il teatro Massimo e piazza Politeama l'ultimo ribelle di Palermo.
Come lui, ormai ce ne sono almeno cento. Stanno uscendo tutti allo scoperto, stanno dicendo a tutti che loro non si piegheranno più. E' una piccola grande rivoluzione quella che sta avvenendo nella capitale della Sicilia, quartiere per quartiere soffocata da quella tassa, il cento per cento dei commercianti che versa per sopravvivere, appena sette le denunce inoltrate negli ultimi cinque anni alla procura della repubblica.
Sono i primi fuochi di una rivolta. I nomi dei cento commercianti palermitani che hanno detto no all'Anonima Estorsioni saranno resi noti il prossimo 2 maggio in un incontro pubblico allo Steri, una volta palazzo dell'Inquisizione e oggi sede del rettorato dell'Università.
Quegli stessi commercianti il 5 maggio si presenteranno in carne ed ossa alla Kalsa per la prima giornata siciliana del "pizzo free", si faranno conoscere dalla città, venderanno i loro prodotti, si libereranno per sempre dalla paura. A metterli tutti insieme sono stati quelli di "Addio pizzo", la prima associazione anti racket di Palermo. "Ma oltre questi primi cento ce ne sono tanti altri che hanno deciso di non subire più il ricatto, hanno solo bisogno di ancora un po' di tempo per trovare il coraggio di mostrarsi", spiega Francesco Galante, uno degli studenti del movimento che sta provando a far riemergere Palermo dalle sue paludi.
L'hanno messa su loro la manifestazione alla Kalsa. E soprattutto sono loro che stanno facendo nascere una speranza dove il pizzo sembrava intoccabile. Dal giugno del 2004 hanno cominciato a esplorare il mondo del racket, quello delle vittime dirette e indirette, commercianti e consumatori. "A Palermo in qualche modo pagano tutti", dice ancora Francesco mentre ricostruisce come "Addio pizzo" ha iniziato la sua ricerca nei gironi infernali delle estorsioni.
Sono partiti dai palermitani, dai cittadini che comprano pane e comprano frutta, che portano le loro auto nei garage, che vanno a cena nei ristoranti. E a loro hanno chiesto di stare dalla parte di quelli che non vogliono inchinarsi alle angherie dei clan. Prima erano solo qualche centinaia, poi sono diventati 3500, adesso sono 7120. Hanno sottoscritto una lista di "sostegno", di solidarietà a quegli altri.
"Schierarsi con i commercianti è fondamentale in una città come Palermo, non li fa sentire soli, chi non paga e denuncia spesso entra in un calvario dove i danni sono superiori ai benefici", raccontano gli studenti dell'anti racket. E così è nato lo slogan: "Contro il pizzo cambia i consumi". Scegliere i prodotti di chi non si piega. Ma senza criminalizzare gli altri, senza fare ma un elenco di "cattivi". Dopo avere raccolto quelle settemila e passa firme è cominciata la caccia ai commercianti più coraggiosi. Per due anni, giorno per giorno e zona per zona. Off limits tutte le borgate, inaccessibili quelle ad est e quelle altre ad ovest. È al centro di Palermo che sta cambiando qualcosa. Nel salotto di via Ruggiero Settimo, nelle stradine che vanno dal teatro Massimo fino all'inizio di via Libertà.
È proprio in quella parte di città che l'artigiano ha chiamato carabinieri e polizia davanti a tutti. Era mattina presto, stava per tirar su la saracinesca della bottega, ha infilato la chiave nel lucchetto e ha capito. La chiave non entrava nella serratura, l'avevano riempita di colla. E' il segnale che lascia sempre il racket: l'attack. La minaccia più silenziosa che c'è.
Quando la chiave non entra basta aspettare, gli esattori si fanno sempre vivi. L'artigiano non ha aspettato. Ma prima di lui ne erano spuntati altri 99 di ribelli. Sempre in quelle strade tra i due grandi teatri di Palermo. Sono uomini e donne tra i 30 e 50 anni, sono laureati o diplomati, hanno negozi di abbigliamento, librerie, gioiellerie, c'è anche qualche ristoratore. Alcuni hanno subito richieste esplicite di pizzo, qualcuno è stato "avvisato", altri si sono messi di traverso con i boss senza ancora avere ricevuto pressioni. Sono loro che si riveleranno alla città nella giornata del "free pizzo" nella piazza della Magione, alla Kalsa.
"Li metteremo in contatto con quei 7120 palermitani della lista di sostegno, così apriamo una nicchia di economia pulita per Palermo, prima o poi questa nicchia diventerà un circuito", annunciano ancora quelli di "Addio pizzo".
È la prima volta di Palermo. Solo un anno fa erano solo una quarantina all'assemblea che gli industriali avevano convocato contro il racket al teatro Biondo, una quarantina su 25 mila imprenditori e quasi 300 mila commercianti siciliani. Non c'era neanche il presidente di Confcommercio Roberto Helg, che è anche il presidente della camera di Commercio. Come vice Helg si è appena scelto Giuseppe Albanese, responsabile delle piccole e medie imprese della provincia e una condanna a un anno e quattro mesi per favoreggiamento nei confronti dei suoi estorsori. Ha negato di averli mai pagati.
Un mutamento lento. E tra tanti brividi. L'ultima scorribanda del racket è di qualche settimana fa. Estorsione dopo estorsione i boss volevano impadronirsi dell'Antica Focacceria San Francesco, uno dei locali storici di Palermo. Lì dentro festeggiò con sfincioni e marsala Ruggiero Settimo nel 1848, quando fu eletto capo del governo nell'anno della proclamazione del primo parlamento siciliano. E per "pane e milza" ci finì pure nel 1860 Peppino Garibaldi, che qualche giorno prima era sbarcato a Marsala con i suoi Mille.

Condannato killer di Alfano

PALERMO - La prima sezione della Corte di cassazione ha confermato la condanna a 21 anni e sei mesi per Antonino Merlino, killer del giornalista Beppe Alfano. Il cronista venne ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto l' 8 gennaio del 1993.Antonino Merlino, 38 anni, fu arrestato in esecuzione di un ordine di carcerazione emesso dai giudici della corte d'assise d'appello di Reggio Calabria il 23 aprile dell'anno scorso dopo quattro giorni dalla condanna a 21 anni e sei mesi di reclusione. Il dibattimento a Reggio Calabria si era svolto su rinvio della Cassazione che aveva annullato la sentenza d'assoluzione decisa dagli stessi giudici. Merlino a Messina era stato condannato in primo e secondo grado a 21 anni e mezzo, poi la Cassazione aveva annullato il verdetto per difetto di motivazione rinviando alla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria. Per l'omicidio Alfano è stato condannato invece con sentenza definitiva il capomafia di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, ritenuto il mandante del delitto. Beppe Alfano, corrispondente del quotidiano 'La Sicilia', fu assassinato a 30 metri da casa dove aveva appena accompagnato la moglie. Il giornalista si allontanò per incontrare alcune persone con cui cominciò a discutere. Poi gli spari: fu centrato al volto e al petto da tre proiettili di pistola calibro 22. Alfano aveva più volte denunciato gli affari delle organizzazioni criminali di Barcellona Pozzo di Gotto. 27/04/2006

giovedì, aprile 27, 2006

Sei arresti per appalti

CALTANISSETTA - I carabinieri del Comando provinciale hanno eseguito sei ordini di custodia cautelare che riguardano presunti affiliati al clan mafioso degli Emmanuello accusati di aver gestito appalti al petrolchimico di Gela. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Giovambattista Tona su richiesta del procuratore aggiunto di Caltanissetta Renato Di Natale e del sostituto della Dda Nicolò Marino.
Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori. Le indagini hanno preso il via dalle ricerche del latitante Alessandro Daniele Emmanuello, inserito nell'elenco dei 30 ricercati più pericolosi d'Italia. Attraverso intercettazioni effettuate in carcere i carabinieri hanno individuato il reggente del clan Emmanuello, e poi l'uomo che curava gli interessi economici dell'organizzazione e i "postini" che dal carcere portavano all'esterno gli ordini dei boss nisseni.
Gli indagati, secondo gli inquirenti, attraverso alcune imprese come la "Co.na.pro" con sede a Roma (ora non più attiva), la "Gela gas srl", la "Sicurt 87" di Gela (non più attiva) e la "N&M srl" di Gela, tutte operanti nell'indotto del petrolchimico di Gela, per l'accusa in seguito alle pressioni esercitate dal clan mafioso, si aggiudicavano, fino a poco tempo fa, gran parte delle commesse della raffineria.
I carabinieri hanno così arrestato Crocifisso Smorta, di 47 anni, indicato come il reggente del clan Emmanuello; Emanuele Sciascia, di 64, accusato di avere curato gli interessi economici dell'organizzazione; Emanuele Nastasi, di 50; Filippo Sciascia, di 59; Loredana Cauchi, di 38 e Nicola Ingargiola, di 44. Quest'ultimo, secondo gli inquirenti, lavorava formalmente alle dipendenze dell'impresa Co.Na.Pro., di cui era vice presidente del consiglio di amministrazione, ma per i militari operava, in realtà, nell'interesse del clan Emmanuello.
Crocifisso Smorta è indicato come un personaggio di spicco dell'organizzazione, uomo di fiducia del boss latitante Daniele Alessandro Emmanuello, per conto del quale, prima del suo arresto, avvenuto nel 1998 durante l'operazione "Reset", ha curato sia l'aspetto militare che economico del clan. Smorta, dopo aver scontato una condanna a cinque anni per associazione mafiosa ed estorsione, da gennaio 2005 è ritornato in libertà e, anche se sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, avrebbe ripreso le redini del gruppo criminale gelese.
Gli investigatori sostengono che Smorta anche durante il periodo di detenzione ha continuato nella sua opera di gestione degli affari del clan, soprattutto con riferimento agli aspetti economici; ha creato un circuito relazionale, che vedeva coinvolti anche Emanuele Sciascia, con il quale divideva la cella, il cognato Emanuele Nastasi e Filippo Sciascia. Con questo sistema, riusciva a ricevere le notizie dall'esterno e, dopo averle discusse con Emanuele Sciascia, le trasmetteva fuori dal carcere attraverso i colloqui settimanali.
I carabinieri hanno ricostruito i messaggi in arrivo e in partenza dal carcere. Smorta, infatti, apprendeva dal cognato Nastasi le novità e quando il compagno di cella Sciascia effettuava il suo colloquio con il fratello Filippo, faceva filtrare all'esterno le determinazioni prese. In questo modo, Crocifisso Smorta ha continuato a reggere le sorti del clan, incrementando il suo potere in seno alla cosca.
Emanuele Sciascia è ritenuto un abile amministratore a disposizione dell'organizzazione, ben inserito nel tessuto economico di Gela, che avrebbe sfruttato le sue conoscenze e quelle del fratello Filippo per riciclare il denaro del gruppo criminale e introdurre così Cosa nostra gelese nella gestione degli appalti del petrolchimico, senza far apparire direttamente uomini dell'organizzazione o ad essa riconducibili.
Sciascia utilizzando suoi parenti e quelli di Smorta, ha fatto in modo che questi arrivassero a ricoprire posti chiave in seno ad alcune aziende attive nell'indotto Agip, riuscendo in questo modo a controllare le ditte oggetto d'infiltrazione. Infine, insieme a Crocifisso Smorta, Sciascia aveva stabilito anche il sistema con cui si doveva stornare parte degli introiti delle imprese da loro controllate, incamerando il 3% dei guadagni netti.
27/04/2006

Quando la mafia deve, uccide

CATANIA - Un uomo di 51 anni, Emanuele Caruso, è stato trovato ucciso in contrada Ficarazzi di Aci Castello, nel catanese. Il corpo è stato scoperto in una strada periferica accanto al suo ciclomotore. Il sicario lo ha assassinato sparandogli alle spalle e centrandolo al collo con una scarica di fucile caricato a pallettoni..
Secondo gli inquirenti Emanuele Caruso avrebbe avuto un incontro con delle persone che conosceva e che al culmine di una violenta discussione lo hanno assassinato. Gli investigatori privilegiano la pista legata al mondo della criminalità organizzata visto le modalità del delitto e la personalità della vittima.Caruso in passato era stato denunciato per spaccio di droga, tentativo di estorsione e per associazione mafiosa perchè ritenuto legato ad esponenti della cosca Santapaola del rione Picanello di Catania. Agli atti non risultano condanne a suo carico.I carabinieri hanno interrogato per tutta la notte i familiari di Caruso per ricostruire i suoi legami e le sue ultime ore di vita.
26/04/2006

mercoledì, aprile 26, 2006

Apparecchiature elettroniche nel covo di Provenzano

PALERMO - Gli investigatori della polizia scientifica hanno trovato nella masseria di Corleone dove si nascondeva il boss Bernardo Provenzano un apparecchio per rilevare la presenza di campi energetici. Gli investigatori devono ancora appurare se il tester è funzionate e se poteva servire anche a segnalare l'eventuale presenza di microspie.Gli agenti della polizia scientifica dell'Ert hanno poi concentrato i loro sforzi attorno al pozzo della masseria, dove hanno effettuato rilievi con una sonda.senza però rilevare, almeno a quanto pare, nulla di significativo."Non abbiamo lasciato niente al caso. Stiamo attenti a tutto" ha detto Renato Biondo, primo dirigente tecnico della polizia di Stato e coordinatore del gruppo Ert
Nella masseria questa mattina non è stata portata la mini ruspa che dovrebbe servire per eventuali scavi attorno agli edifici per scoprire nascondigli perché gli investigatori devono ancora terminare i sondaggi manuali. Nel covo di Provenzano si è recato stamane anche il capo della Squadra Mobile di Palermo Giuseppe Gualtieri.Bernardo Provenzano era informato della presenza di microspie e telecamere piazzate dagli investigatori nelle zone che frequentava durante la latitanza e il boss, ricercato da 43 anni, negli ultimi tempi avrebbe utilizzato anche un attrezzo elettronico per rilevare la presenza di "cimici". Queste dichiarazioni, che richiamano al tester per scoprire campi energetici trovato oggi dalla polizia, erano state fatte dal pentito Nino Giuffrè, molto vicino al boss corleonese, e ripetute l' 8 marzo scorso nel corso dell' udienza del processo delle talpe alla Dda a Milano."Provenzano - disse Giuffrè - era informato "pari pari" della presenza di microspie e telecamere. Lui mi ha spesso avvertito del pericolo di incappare in questi aggeggi elettronici. Lo ripeteva spesso, anche quando ci incontravamo, di stare attenti. Negli ultimi periodi, durante i nostri incontri, era così guardingo che effettuava i controlli delle stanze dell'abitazione in cui ci ritrovavamo, utilizzando un apparecchio che rilevava la presenza di eventuali microfoni".
26/04/2006

Possibili capi di Cosa Nostra

CORLEONE (PALERMO) - Giornata tranquilla per gli investigatori della polizia scientifica dell' Ert oggi nel covo dov'è stato arrestato Bernardo Provenzano in contrada Montagna dei Cavalli. I poliziotti oggi non hanno effettuato ricerche. Il covo è sorvegliato da agenti del commissariato mentre pattuglie di polizia effettuano giri di controllo nei dintorni. Ieri sono stati montati alcuni fari che illuminano anche di notte la zona della masseria soprattutto nella parte posteriore dove gli edifici confinano con un boschetto. Intanto gli inquirenti si interrogano sul possibile successore di Provenzano ai vertici di Cosa Nostra. L'obiettivo è rivolto ai nomi dei due boss latitanti Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo. Domani Messina Denaro compirà 44 anni, un compleanno che potrebbe assumere un significato diverso in una fase in cui "u siccu", come è soprannominato, potrebbe arrivare al vertice della Cupola dopo l'arresto di Bernardo Provenzano. Gli investigatori stanno cercando di decifrare le decine di 'pizzini' trovati nella masseria di Montagna dei cavalli, a Corleone, dove è stato catturato il padrino latitante, e dove potrebbe essere stato nascosto l'archivio del superboss. Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo: il primo, condannato quattro anni fa all'ergastolo per le stragi di Roma, Firenze e Milano, rappresenterebbe l'ala militare dei corleonesi per i suoi trascorsi legami con Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella; il secondo apparterrebbe alla "vecchia guardia", l'ala più 'moderatà di Cosa nostra, quella impersonata da Bernardo Prevenzano. Due profili diversi per due mafiosi di rango la cui ascesa al vertice non può prescindere dal radicamento col territorio e col potere che esercitano dal punto di vista 'militare' e 'politico'. "Matteo Messina Denaro - ribadisce Massimo Russo, magistrato della Dda di Palermo - è stato ed è il leader di Cosa nostra nella provincia di Trapani e in più occasioni ha manifestato le sue capacità di gestione del sodalizio criminale". Se di Salvatore Lo Piccolo, 63 anni, a capo della cosca di San Lorenzo a Palermo non si sa più nulla, o quasi, dal 1983, di Matteo Messina Denaro qualcosa in più emerge dai racconti di alcuni pentiti e dalla indagini di mafia nel trapanese. Dai 'pizzini' trovati dagli investigatori nel covo di Coroleone emerge il legame tra Matteo Messina Denaro e Provenzano; bigliettini in cui Messina Denaro pone al capo della Cupola il problema della carenza di 'manovalanza', rivolgendosi con toni di rispetto e devozione. Una tecnica, quella dei biglietti, utilizzata dallo stesso Matteo Messina Denaro per comunicare con i suoi uomini e per dare ordini, come dimostrano alcune indagini di mafia nel trapanese, tra cui quella che due anni fa portò all'arresto di Salvatore Messina Denaro, 55 anni, fratello del latitante, ed ex impiegato della Banca Sicula, istituto di credito rilevato qualche anno fa dalla Banca Commerciale (Comit), su cui c'è traccia in alcuni documenti della Commissione nazionale Antimafia. La polizia accertò che Salvatore Messina Denaro comunicava, attraverso una fitta rete di gregari, con il fratello tramite i foglietti per scambi di notizie su appalti ed estorsioni. Come Provenzano che durante la latitanza si fece curare e operare a Marsiglia, anche Matteo Messina Denaro si sarebbe recato all'estero nel '94 per motivi di salute. Di lui ci sarebbero tracce nella clinica oculistica, Barraquer in carrer de Muntaner, a Barcellona, dove si sarebbe sottoposto a una visita agli occhi. Il boss fin dalla nascita è affetto da strabismo di venere. Col tempo la malattia avrebbe determinato un forte deficit visivo, da qui la necessità di rivolgersi ai medici. Il boss avrebbe fornito alla recepition del centro oftalmico la sua vera data di nascita, e rivelato la città di origine: Castelevetrano nel Trapanese. Ma avrebbe detto di chiamarsi: Matteo Messina, omettendo, dunque, il secondo cognome, Denaro. Fu il pentito, Vincenzo Sinacori, a dire per primo agli inquirenti che Matteo Messina Denaro soffriva di una malattia agli occhi. Il boss gli aveva rivelato che aveva intenzione di andare in Spagna per farsi visitare. Rispetto a Provenzano, di cui dopo l'arresto comincia a emergere un profilo di 'uomo d'onore' vecchio stampo nascosto in una masseria tra formaggio, pecore e cicoria, Matteo Messina Denaro è descritto come un uomo amante della bella vita, delle donne, di oggetti di marca. Un boss che fa affari con le estorsioni e con gli appalti, legato alla sua terra d'origine Castelvetrano, roccaforte mafiosa del trapanese, indicata come crocevia di grossi business, traffico di droga e operazioni imprenditoriali e finanziarie.
25/04/2006

martedì, aprile 25, 2006

1000 VISITE !!!

1000 VISITE !!!
Questo blog ha raggiunto le 1000 visite in tre mesi!
Un grazie a tutti coloro che ogni tanto visitano il blog e che di conseguenza mi incoraggiano ad andare avanti...GRAZIE !!!
Saverio

Il confessore di Provenzano

PALERMO - Il boss Bernardo Provenzano si sarebbe sposato durante la sua latitanza con Saveria Palazzolo, la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco Paolo, che ieri hanno incontrato il loro congiunto nel carcere di Terni. L'indiscrezione è stata raccolta in ambienti investigativi e rilanciata da diversi organi di stampa. Bernardo Provenzano dunque si sarebbe sposato negli anni '80 con la sua compagna davanti a un sacerdote. Le nozze, tuttavia, non sarebbero state trascritte civilmente per evidenti motivi. Una scelta analoga a quella maturata da Totò Riina, che mentre era latitante sposò Antonietta Bagarella. La "prova" di quelle nozze, celebrate da Padre Agostino Coppola, fu scoperta in un covo dal capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, che trovò le partecipazioni scritte a mano dalla stessa Bagarella.Ai magistrati che gli hanno chiesto nel primo interrogatorio se fosse sposato con la sua compagna, Provenzano aveva risposto "con il cuore sì". Un parroco palermitano, Don Giacomo Ribaudo, aveva sostenuto tempo fa che il boss era in contatto con un sacerdote. Di questo presunto confessore don Ribaudo avrebbe ricevuto notizia nel 1994, "quando - spiega - fui chiamato da Aglieri e da altri boss che avevano iniziato una riflessione dopo l'appello del Papa al pentimento lanciato durante la visita ad Agrigento. Mi dissero che alcuni uomini d'onore erano pronti a consegnarsi, chiedevano allo Stato di potere iniziare una vita nuova, a condizione di non essere obbligati ad accusare i propri compagni"."Due persone in particolare - prosegue il parroco - mi dissero che del gruppo faceva parte Provenzano. Chiesi di incontrarlo, risposero che mi avrebbero fatto avere una risposta. Che arrivò dopo una settimana: "Se si tratta di un incontro di carattere spirituale - specificarono - Provenzano ha già il suo confessore".
25/04/2006

lunedì, aprile 24, 2006

Truffa allo stato per 2 milioni di euro

CATANIA - La guardia di finanza di Riposto ha scoperto una truffa per più di 2 milioni e 600 mila euro ai danni dello stato; denunciati per truffa aggravata i tre responsabili di una società che aveva chiesto ed ottenuto un contributo statale per la realizzazione di un nuovo impianto produttivo, di fatto mai entrato in funzione. Alla società, che ha sede nel territorio etneo, complessivamente sono stati erogati contributi pubblici per 2.671.358 euro ai sensi della legge nr. 488/92. Lo scopo dei finanziamenti è quello di permettere lo sviluppo dell'attività imprenditoriale nelle zone disagiate ma, soprattutto, di favorire l' assunzione di nuove unità lavorative. Le erogazioni pubbliche erano state concesse per consentire la realizzazione di un capannone e del relativo impianto di imbottigliamento di acque minerali e bibite. Le indagini della Guardia di finanza hanno consentito di accertare che la società non aveva mai avviato la produzione di acque minerali e bibite, pur avendo percepito le erogazioni pubbliche. La società aveva realizzato parzialmente la costruzione dello stabilimento produttivo ed aveva acquistato una piccola parte dei macchinari previsti nel progetto d' investimento, che sono stati trovati ancora imballati. I Finanzieri hanno inoltre segnalato all' Agenzia delle Entrate la tassazione dei contributi indebitamente percepiti quali proventi illeciti, ai sensi dell' art. 14 comma 4 della legge 537/93, per un importo complessivo di 1.681.966 euro.
24/04/2006

Provenzano incontra i familiari

PALERMO - Il boss Bernardo Provenzano ha ricevuto oggi in carcere la prima visita dei familiari da quando è stato arrestato. La moglie del capomafia, Saveria Palazzolo e i figli Angelo e Francesco Paolo Provenzano, sono entrati stamani nel carcere di Terni in cui il vecchio padrino corleonese è rinchiuso al 41 bis.
Nei giorni scorsi i pm Marzia Sabella e Michele Prestipino avevano accolto la richiesta di colloquio avanzata dai familiari tramite l'avvocato Franco Marasà, difensore del boss.L'incontro è durato circa un'ora. La visita è cominciata alle 12,30 e si è svolta in una saletta separata rispetto alle altre aule colloqui del carcere di Terni, dove è detenuto il boss dei boss di Cosa Nostra. Provenzano non ha potuto abbracciare la compagna e i figli: il colloquio si è svolto infatti attraverso un vetro divisorio, così come previsto per i detenuti in regime di 41 bis (il cosiddetto 'carcere duro'). Jeans, camicetta scura, giubbetto blu e occhiali da vista, Saveria Palazzolo, 65 anni, ha visto il compagno senza - almeno apparentemente - tradire alcuna emozione. La donna, accompagnata dai figli, si è presentata in mattinata all' ingresso del carcere in taxi. I detenuti in 41 bis hanno diritto ad un solo colloquio al mese con i propri familiari. Provenzano, subito dopo l'arresto, aveva fatto richiesta di incontrare la compagna e i figli.Gli agenti della polizia scientifica dell' Ert hanno ripreso il proprio lavoro nel covo dov'è stato catturato il boss Bernardo Provenzano, nella masseria di contrada Montagna dei Cavalli a Corleone. Questa mattina gli esperti hanno caricato su un furgone due poltroncine e altri piccoli mobili che si trovavano nella casa dove si rifugiava il padrino ed hanno ispezionato con sonde il pozzo fuori dalla masseria. Nella zona, come invece preannunciato, non sono giunte ruspe o escavatori per lavori di sbancamento.Agenti di polizia in tuta mimetica hanno levato arbusti e sterpaglie attorno al covo. Gli esperti dell'Ert hanno ripulito soprattutto l'area adiacente al bagno della casa che è vicina ad alcuni tetti di piccole stalle costruite con legno e lamiera.Intanto una ditta privata, per conto del Comune di Corleone, sta sistemando l'illuminazione lungo la stradella che dalla strada comunale porta anche alla masseria dove si nascondeva il latitante. I poliziotti stanno svuotando la casa per prepararsi ad eventuali scavi all' interno. Su un furgone della polizia di Stato oltre alle poltroncine sono stati caricati un divano di vimini, un armadio, una specchiera, due reti da letto. I poliziotti davanti alla casa hanno squarciato un materasso matrimoniale per vedere se contenesse qualcosa.
24/04/2006

sabato, aprile 22, 2006

13 ergastoli per le stragi Falcone e Borsellino

CATANIA - Tredici condanne all'ergastolo sono state inflitte dai giudici della seconda Corte d'assise d'appello di Catania nel processo a 16 presunti boss accusati di essere i mandanti delle stragi del '92 in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.La Corte ha confermato la condanna all'ergastolo per Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe Montalto, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Nitto Santapaola, Mariano Agate, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e Benedetto Spera. I due collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè e Stefano Ganci sono stati condannati rispettivamente a 20 e 26 anni di reclusione; i giudici hanno invece assolto con la formula "perché il fatto non sussiste" Giuseppe Lucchersi, che doveva rispondere solo di associazione mafiosa.La Corte d'assise d'appello, presieduta da Paolo Vittorio Lucchese, a latere Maria Concetta Spanto, è stata riunita in camera di consiglio per 28 ore. Il processo era iniziato il 15 maggio del 2003; in tre anni si sono tenuta una ottantina di udienze nel corso delle quali sono stati esaminati oltre 1500 faldoni di atti.La Corte ha sostanzialmente accolto le richieste avanzate dal sostituto procuratore generale di Catania, Michelangelo Patanè, che nel corso della requisitoria aveva sollecitato l'ergastolo per i 13 capimafia. L'unica eccezione il Pg l'aveva riservata per i collaboratori di giustizia Nino Giuffrè e Stefano Ganci (20 e 26 anni le richieste) e per Giuseppe Lucchesi (tre anni), accusato solo di associazione mafiosa.Nel procedimento sono stati trattati tutti gli aspetti dei due processi per le stragi del '92 che, dopo l'annullamento con rinvio da parte della Cassazione, sono stati riunificati dalla Corte in un unico fascicolo e rinviati al giudizio della Corte d'Assise di Catania. Secondo l'accusa "vi sarebbe stata un'unica mano, quella di Cosa nostra, nei due attentati di Capaci e via D'Amelio".I boss Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi sono stati ritenuti colpevoli dall'accusa per entrambe le stragi. Per la strage di Capaci la condanna all'ergastolo è stata inflitta a Francesco e Giuseppe Madonia e Giuseppe Montalto. Per l'attentato di via D'Amelio sono stati condannati all'ergastolo Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e Benedetto Spera.Determinanti sono state le audizioni di tre pentiti: il capo mandamento di Caccamo Antonino Giuffrè, e i collaboratori Calogero Pulci, uomo di fiducia di Piddu Madonia, e Ciro Vara. In particolare Giuffrè ha parlato di un summit della Cupola, svoltosi nel dicembre '91, in cui Riina - in attesa dell'esito in Cassazione del maxiprocesso - annunciò la decisione di eseguire le stragi invitando tutti i boss ad assumersi ognuno le proprie "responsabilità".
21/04/2006

La mafia non è finita...Anzi...

VERONA - "La lotta alla Mafia non finisce con questa sentenza, nè con l'arresto di Provenzano. La pericolosità dell'organizzazione continua a sussistere". Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso non ha voluto direttamente rispondere se la sentenza di ieri possa essere considerata una vittoria: "non mi piace parlare di questi temi così importanti, rilevanti, - ha evidenziato - sullo stereotipo della vittoria o della sconfitta, o di una partita di calcio e di quando questa è finita, se abbiamo vinto o pareggiato". "Questi - ha proseguito Grasso - sono momenti importanti che devono costituire uno stimolo a continuare, ad evitare di cadere di nuovo nell'oblio. Per il procuratore antimafia è oggi più che mai necessario per contrastare la criminalità organizzata dare mezzi e strutture, che non devono arrivare solo nella logica dell'emergenza. Questo - ha concluso - deve costituire un inizio per riprendere con la solita vivacità, la solita foga da parte della magistratura e delle forze di polizia le indagini che poi sono quelle che portano alla conoscenza sempre attuale del fenomeno".
22/04/2006

Soldi di Provenzano

CORLEONE (PALERMO) - Un sacchetto di plastica pieno di banconote è stato trovato nel covo in cui è stato arrestato Bernardo Provenzano. Si tratta di migliaia di euro. L'esatta cifra non è stata ancora definita perchè le banconote, che sono arrotolate in grossi cilindri, sono state inviate nei laboratori della scientifica per rilevare eventuali impronte digitali. Il boss, subito dopo l'arresto, è stato già trovato in possesso di diecimila euro. Erano nascosti nel pannolone che Provenzano indossa a causa dell'intervento alla prostata a cui è stato sottoposto nel 2003 a Marsiglia. Le banconote furono trovate dagli agenti della polizia penitenziaria all' ingresso del vecchio capomafia nel carcere di Terni dove si trova rinchiuso sottoposto al regime del 41 bis. Adesso un nuovo tesoro del boss è stato scoperto durante le perquisizioni. Stamani la polizia scientifica ha consegnato ai magistrati l' elenco degli oggetti trovati fino ad ora nella masseria. 22/04/2006

Manifestazione anti-mafia a Palermo

PALERMO - Per i Ds in piazza c'erano circa 2 mila studenti, appena 200 secondo Azione Giovani, il movimento giovanile di An. La manifestazione antimafia è stata organizzata dalla sigla 'Studenti contro la mafia' a undici giorni dall'arresto del boss Bernardo Provenzano. Gli studenti hanno sfilato in corteo da piazza Verdi fino in piazza Indipendenza dove ha sede la Presidenza della Regione. L'iniziativa era stata preceduta dall'affissione, avvenuta in nottata, di un migliaio di manifesti con il ritratto del boss e l'head "Non votarlo mai più". "Era stato presentato come un corteo studentesco trasversale contro la mafia - dice Mauro La Mantia, coordinatore regionale di Azione giovani - invece è stata un'adunata dei movimenti giovanili dei partiti dell'Unione: bandiere di Rifondazione, dei Verdi e gli immancabili vessilli con l'immagine di Che Guevara. Vergognoso l'uso plateale di droghe". Al movimento giovanile di An, che non ha aderito alla manifestazione, replica il responsabile della segreteria organizzativa dei Ds in Sicilia, Tonino Russo: "È stata una grande manifestazione - dice - Dispiace la polemica innescata dai giovani di An. Ricordo che proprio io in passato ho firmato documenti insieme all'allora leader dei giovani di An Bartolo Sammartino, contro la mafia e chiedendo ai partiti di non candidare inquisiti. Oggi probabilmente An si trova nell'imbarazzo e nell'obbligo di dovere sostenere e difendere un candidato, Salvatore Cuffaro, imputato per favoreggiamento a Cosa nostra"."Fa piacere constatare che questi temi siano sentiti da tutti gli studenti, anche da quelli di sinistra. Che i giovani si riuniscano e sfilino in corteo per manifestare il loro pensiero - afferma il presidente della Regione Totò Cuffaro -, è sempre un fatto positivo. Se poi lo fanno contro la mafia e per affermare i valori della legalità è la conferma di un entusiasmo costruttivo volto a sensibilizzare le coscienze dei siciliani".Per Rita Borsellino "il corteo contro la mafia delle associazioni studentesche è un segnale forte per tutti noi. La manifestazione di stamattina - aggiunge - è un invito provocatorio a rimettere l'etica al centro della politica e della selezione della classe dirigente. Ma è anche un modo per ridare centralità all'elettore e alla responsabilità che le sue scelte rivestono per la collettività. Temi sentiti in maniera forte tra tantissimi giovani, anche di destra, e che ci fa ben sperare per il futuro".
22/04/2006

giovedì, aprile 20, 2006

Provenzano non parla

TERNI - Bernardo Provenzano continua a tacere. Come riferito dal suo difensore, l'avvocato Franco Marasà, il boss non ha risposto ai pm di Palermo. Davanti ai magistrati il boss si è limitato a dire di volersi avvalere della facoltà di non rispondere. I pubblici ministeri Marzia Sabelli e Michele Prestipino, nonchè il procuratore aggiunto di Palermo Giuseppe Pignatone, erano giunti in mattinata nel carcere di Terni, dove era previsto l'interrogatorio. I magistrati, dopo un paio di ore, hanno lasciato il carcere senza parlare con i giornalisti che li attendevano. Provenzano attualmente è rinchiuso, in isolamento, in una delle celle riservate ai detenuti sottoposti al cosiddetto carcere duro. Riguardo all'atteggiamento in carcere del boss corleonese, l'avvocato Marasà ha detto "è l'atteggiamento di un detenuto...". "Faccio l'avvocato - ha aggiunto - non lo psicologo". Marasà ha definito infine "solo gossip" le notizie sui figli di Provenzano. "Sono stati presi di mira in passato per legittime questioni tecniche - ha proseguito - perchè era in corso la ricerca di un latitante. Ora che il latitante è stato catturato sono soggetti che hanno diritto al rispetto della loro privacy".
20/04/2006

Ancora la Bibbia

ROMA - "La Bibbia è il libro più bello". Bernardo Provenzano lo ha detto ai vertici del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) in visita al carcere di Terni dove il boss dei boss di cosa nostra è detenuto da una settimana. Il vicecapo del Dap, Emilio Di Somma, il capo della direzione generale detenuti dell'Amministrazione, Sebastiano Ardita, assieme al direttore del carcere di Terni, Francesco Dell'Aira e al comandante di reparto Fabio Gallo, hanno parlato per circa un quarto d'ora con Provenzano. Ardita ha comprato una Bibbia donandola alla biblioteca del carcere affinchè venisse data al boss dei boss. Non si tratta, ovviamente, della vecchia Bibbia di "zu Binu", sottolineata e zeppa di appunti, sequestrata al momento del suo arrivo in carcere e da lui più volte richiesta durante le festività di Pasqua.L'amministrazione penitenziaria, in ogni caso, non ha voluto negare al boss la lettura della Bibbia. Un testo che - ha detto Provenzano - "non solo va letto ma va anche capito". Ardita, a questo punto, gli avrebbe consigliato di cominciare dal nuovo Testamento la cui interpretazione è più semplice. Ai vertici del Dap Provenzano è apparso tranquillo, pronto a rispondere guardando l'interlocutore dritto negli occhi. "Sia fatta la volontà del Signore", è la frase che ha ripetuto frequentemente. Si è detto disponibile a sottoporsi a una serie di check-up medici approfonditi per verificare il suo stato di salute.Il capo dei capi di cosa nostra, latitante per 43 anni, si è informato sulle regole del carcere. "Come funziona qui?", avrebbe chiesto. Gli è stato spiegato che gli sarà consentito un solo colloquio al mese, così come previsto dal '41 bis', il carcere duro disposto ufficialmente da un provvedimento firmato un paio di giorni fa dal Guardasigilli Castelli. Provenzano è da sette giorni in isolamento, è videosorvegliato 24 ore su 24, non guarda la tv. Legge soltanto le pagine delle ordinanze di custodia cautelare che gli sono state notificate in carcere. Avrebbe chiesto di vedere la compagna, Saveria Benedetta Palazzolo, e i figli. Ma l'incontro con i familiari non è stato ancora autorizzato.
20/04/2006

Preso mentre incassa il pizzo

Preso per tentata estorsione

mercoledì, aprile 19, 2006

I politici non c'entrano? Mah...

PALERMO - Fra i biglietti trovati nel covo di Bernardo Provenzano gli inquirenti hanno scoperto e decifrato anche quelli dei capimafia latitanti Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo: i due boss scrivono al capo di cosa nostra e si porgono con grande deferenza. In particolare emerge grande rispetto nei confronti di Provenzano emerge dai pizzini attribuibili a Messina Denaro.Dalle lettere emerge il ruolo di vertice ricoperto fino al giorno dell'arresto da Provenzano e dal fatto che i capimafia delle province siciliane si rivolgono a lui per qualsiasi problema sulle attività criminali di cosa nostra.L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone e dai pm Marzia Sabella e Michele Prestipino, si sta dividendo in diversi fascicoli di indagine che saranno assegnati ai magistrati della Dda che si occupano dei vari gruppi di lavoro delle province siciliane. Sabella e Prestipino hanno già lasciato Palermo per trasferirsi a Terni dove domani è previsto l'interrogatorio in carcere di Provenzano.Nei biglietti scritti dai capimafia latitanti Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo emerge un problema fondamentale per Cosa nostra: il coinvolgimento di nuove persone di fiducia dopo gli arresti eseguiti nei mesi scorsi. Secondo i boss non ci sarebbero più sufficienti uomini a disposizione delle cosche mafiose.I capimafia, in seguito alle pressioni investigative a cui sono state sottoposte le famiglie mafiose siciliane, soffrirebbero, infatti, a causa di una mancanza nel ricambio di uomini.Negli ultimi anni la ricerca di Bernardo Provenzano, coordinata dai pm della Dda di Palermo, hanno portato all'arresto di 450 persone accusate di far parte della rete di favoreggiatori del vecchio padrino corleonese e al sequestro di beni per un valore complessivo di diversi milioni di euro.Secondo il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, nei pizzini di Provenzano non ci dovrebbero essere nomi di politici. "Tanti tremano perchè non sanno se si parla di loro nei pizzini" ha detto Grasso rispondendo alla stampa estera. Quanto in particolare ai politici, "penso che Provenzano - ha aggiunto - non abbia scritto il nome di nessun politico, semmai di qualche intermediario. Per ora siamo nella fase della decifrazione".
19/04/2006

martedì, aprile 18, 2006

Vecchi sistemi ma sempre efficaci

SCOGLITTI (RAGUSA) - Il cadavere di un uomo con il viso affondato nel fango e le mani legate all'indietro, una tecnica utilizzata per uccidere i capretti, è stato scoperto in un podere nelle campagne di Scoglitti, a poca distanza dalla strada per Gela. Sul posto sono ancora in corso i rilievi delle forze dell'ordine; le indagini sono condotte dai carabinieri.
18/04/2006

lunedì, aprile 17, 2006

Ancora su Bernardone...

PALERMO - Sette talpe, dentro i palazzi delle istituzioni, hanno protetto la latitanza di Bernardo Provenzano. E almeno cinque volte, negli ultimi dieci anni, il capo di Cosa nostra è riuscito a sfuggire alla cattura. Ecco l'ultimo capitolo della biografia del padrino arrestato l'11 aprile scorso, che uscirà mercoledì in libreria. "Bernardo Provenzano, il ragioniere di Cosa nostra", scritto dai giornalisti Salvo Palazzolo e Ernesto Oliva, editore Rubbettino. Non è un istant book. Gli autori hanno completato il loro progetto di ricerca iniziato nel 1999 (anche col sito Internet www.bernardoprovenzano.net) e affrontano adesso gli aspetti più misteriosi della latitanza di Provenzano: quelli che riguardano le protezioni eccellenti e i segreti che il padrino conserva in carcere.La biografia del capo di Cosa nostra ripercorre la scalata al potere di un uomo che all'inizio era solo un killer, e alla fine del racconto è il depositario dei misteri che avvolgono i mandanti occulti delle stragi Falcone e Borsellino. Oliva e Palazzolo hanno analizzato tutte le inchieste giudiziarie che lo riguardano. Così è emerso il ritratto di un mafioso che è soprattutto il "ragioniere" e il "professore" della politica piuttosto che il "tratturi" come lo chiamavano un tempo a Corleone. "La lotta alla mafia non potrà dirsi finita sino a quando non verranno scoperti i segreti di Provenzano", dice Salvo Palazzolo. E sfogliando l'ultimo capitolo del libro, emergono tutte le presenze inquietanti del padrino: nei retroscena delle stragi Dalla Chiesa, Chinnici, Falcone e Borsellino; nelle zone d'ombra dei casi Andreotti e Dell'Utri; nei rapporti con la massoneria. "Negli archivi del palazzo di giustizia - spiegano gli autori - abbiamo scoperto un verbale del pentito Rosario Spatola, che accusa Provenzano di avere sciolto la loggia segreta dei Trecento, dopo la morte di Stefano Bontade, capomafia e gran maestro. Ma quale autorità aveva Provenzano per sciogliere una loggia di cui facevano parte anche gli esponenti pi in vista della Palermo del 1980?". E' solo uno dei tanti interrogativi posti dal libro. Nel sito Internet www.bernardoprovenzano.net è possibile consultare molti degli atti giudiziari che sono stati utilizzati dagli autori per la loro ricerca.Il capitolo delle talpe istituzionali che hanno protetto la latitanza di Provenzano è di certo quello più suggestivo. Anche perché impegna adesso anche i magistrati di Palermo. L'ultima volta che il boss è sfuggito alla cattura è stato nella primavera del 2004, a Villabate. L'appuntamento che Provenzano aveva con i suoi favoreggiatori fu all'improvviso rinviato. Il racconto di questa e di altre mancate catture è lo spunto per gli autori per affrontare il tema della nuova Cosa nostra, quella riformata da Provenzano dopo le stragi del 1992.
17/04/2006

Forse una Bibbia...

PALERMO - Bernardo Provenzano potrebbe essersi servito di una Bibbia per criptare i suoi messaggi, quello stesso libro che il boss dei boss continua a chiedere in carcere e che gli è stato sequestrato mercoledì scorso quando è stato trasferito a Terni. E' una delle ipotesi seguita dagli inquirenti che non tralasciano alcun particolare. Nel volume che il capo di Cosa nostra teneva con sé erano segnati diversi versetti e sono state trovate scritte molte frasi e appunti a margine. Ad avvalorare l'ipotesi la circostanza che nel casolare di contrada Montagna dei Cavalli gli inquirenti hanno trovato altre cinque Bibbie che sembrano non essere state mai utilizzate. Un legame forte quello tra Provenzano e la fede. "Che Dio vi benedica" o "Il Signore vi protegga" erano le frasi riccorrenti che scriveva alla fine di ogni messaggio trovato nei pizzini, attraverso i quali impartiva ordini e dava disposizioni.Il giorno di Pasqua Provenzano non ha potuto vedere il cappellano del carcere, né gli è stato consentito di leggere un'altra Bibbia diversa dalla sua. Per ora quindi continua la detenzione in stato di isolamento. Provenzano può incontrare solo il suo avvocato. E, sempre secondo quanto appreso, non è escluso che il prossimo 2 maggio partecipi all'udienza davanti alla corte d'assise di Palermo per il processo per alcuni omicidi legati alla guerra di mafia degli anni Ottanta: la cella del boss si troverebbe infatti accanto alla sala per i collegamenti in videoconferenza.Sul fronte investigativo nel casolare di Corleone gli agenti hanno trovato impronte e tracce biolologiche che potrebbero servire a risalire all'identità di coloro che hanno incontrato Provenzano. I rilievi proseguiranno anche da domani, e per oltre almeno una settimana, dopo una breve interruzione, ieri e oggi, per le festività di Pasqua. Gli investigatori dovranno esaminare i pizzini e le agende trovate nel covo. Dagli appunti è probabile che emergeranno gli affari di Cosa nostra e i nomi dei suoi interlocutori indicati con un numero. Alcuni riferimenti in quella specie di codice cifrato utilizzato dal capo di cosa nostra sarebbero già diventati nomi e cognomi.Intanto non è stato ancora fissato il primo interrogatorio di Provenzano davanti al gip. I magistrati stanno esaminando l'ordine temporale dei vari procedimenti cautelari che lo riguardano. Un vertice si terrà domani presso la procura di Palrmo per fare il punto della situazione.
17/04/2006

venerdì, aprile 14, 2006

Direttive dal carcere

MESSINA - I carabinieri di Messina hanno sgominato un'organizzazione mafiosa che dal carcere dirigeva con l'utilizzo di telefoni cellulari le estorsioni, il traffico di droga e delle armi nella città dello Stretto.Si tratta secondo gli inquirenti di elementi di spicco della criminalità organizzata, rinchiusi nel carcere di Messina. Le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, che ha disposto il fermo di 5 presunti affiliati all'organizzazione mafiosa e ha dato il via a una serie di perquisizioni presso le case circondariali di Messina e Reggio Calabria. 14/04/2006

La folla a Provenzano: "Bastardo"

Come al solito Cuffaro l'arrampicatore...

PALERMO - "I miei fac-simile elettorali non c'erano nel locale attiguo il covo del boss Bernardo Provenzano. Qualcuno si è preso la briga di metterli lì apposta. Mi piacerebbe sapere perchè si è messa in piedi una sceneggiata simile. Spero non si tratti di un'intimidazione squallidissima". Lo ha detto il presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, nel corso di una conferenza stampa a Palermo durante la quale ha mostrato ai giornalisti l'intero filmato di 13 minuti che un operatore di una tv locale ha girato subito dopo la cattura del boss dei boss, Bernardo Provenzano, all'interno del covo. Nel filmato si nota come inizialmente non ci sono fac-simile elettorali, che invece compaiono nella parte finale del filmato. Cuffaro ha anche annunciato di aver presentato una querela contro ignoti e di aver riferito la vicenda il ministro degli interni e al presidente della Camera. "Guardando il filmato trasmesso alla tv - racconta Cuffaro - mi è sembrato strano vedere il mio facsimile insieme a quello di Nuova Sicilia. Se bisogna dare un'indicazione di voto, non è strano portare i volantini di due candidati al Senato di due partiti differenti?". "Tra la foto del Corriere della Sera e le immagini di Tgs - prosegue il governatore siciliano - ho notato un'anomalia: il facsimile cambiava posizione. A questo punto ho chiesto a Tgs il filmato integrale e ho fatto l'amara scoperta. Nei 13 minuti del girato l'operatore passa a setaccio l'intero casolare. Si sofferma puntigliosamente su ogni oggetto. Poi la cinepresa esce, riprende l'esterno. Da quando l'operatore esce dal covo a quando vi fa rientro perchè qualcuno lo richiama passano sei minuti. Una volta dentro l'operatore riprende quei volantini che prima nello stesso posto non c'erano. Nel sapere che quei volantini non c'erano e che qualcuno li ha messi lì apposta e ha chiamato gli operatori per filmarli, ho provato un pò di angoscia. Mi auguro sia stata una ragazzata. In caso contrario, se cioè qualcuno ha messo in piedi questa sceneggiata per intimidirmi alla vigilia delle elezioni regionali, quel qualcuno sappia che non mi ha intimidito e che continuerò a fare il presidente della regione".Alla fine della conferenza stampa un giornalista del Giornale di Sicilia che lavora anche per Tgs ha ammesso di avere spostato i fac simile elettorali dal barattolo in cui si trovavano su un piano per farli riprendere dalla telecamera. Il giornalista è già stato ascoltato dalla Questura. "Quello che è avvenuto in quel locale - aggiunge il giornalista - l' ho detto oggi ai poliziotti che mi hanno interrogato. Nel pomeriggio l' ho anche ribadito al presidente Salvatore Cuffaro. Non ho messo nulla in quei locali. Ho solo evidenziato, come spesso facciamo nel nostro lavoro di cronisti, un particolare che mi sembrava interessante facendo inquadrare alla telecamera i fac simile che erano già lì"."Tale racconto - ha replicato Cuffaro - già di per sè grave e non solo sotto il profilo deontologico, non coincide con le immagini che filmano il cronista nell'atto di compiere il gesto. Ho provveduto ad inoltrare anche questo documento filmato all'attenzione della Polizia di Stato". Intanto tutta la Cdl siciliana parla di "episodio inquietante e dai contorni oscuri" ed esprime piena solidarietà al presidente della regione, secondo loro, vittima di una strumentalizzazione politica.
13/04/2006

mercoledì, aprile 12, 2006

Intanto Cosa nostra non si ferma

MESSINA - Due uomini, Carmelo Giacalone e il fratello Paolo, sono stati centrati da diversi colpi di pistola nei pressi di piazza del Popolo, nel centro di Messina. Carmelo Giacalone è morto; il fratello è ricoverato in gravi condizioni nell'ospedale Piemonte, a Messina. L'agguato è avvenuto intorno alle 13.30. I due fratelli stavano lavorando alla ristrutturazione di un bar di loro proprietà quando due killer su un motorino si sono avvicinati e hanno sparato contro di loro diversi colpi di pistola calibro 7,65. Entrambi i fratelli avevano precedenti penali. Sarebbe stato Paolo Giacalone il vero obiettivo dei sicari, dove è stato ucciso assieme al fratello Carmelo probabilmente per problemi interni al clan Ventura del rione Camaro, riguardanti alcune partite di droga. Lo sostengono gli inquirenti che si stanno occupando del caso e che considerano difatti Paolo Giacalone molto vicino al clan Ventura del rione Camaro. Le indagini però proseguono in tutte le direzioni e sono affidate ai sostituti procuratori della Dda Francesca Ciranna e Fabio Danna che stanno coordinando l'attività delle forze dell'ordine. Secondo gli investigatori la duplice esecuzione sarebbe stata realizzata da un killer professionista che ha ucciso con tre colpi di pistola ciascuno i due fratelli e poi è scappato a bordo di una moto con un complice. Stanno inoltre ancora proseguendo gli interrogatori di amici e parenti delle vittime e sono stati eseguiti perquisizioni e esami stab alla caserma Zuccarello di alcuni sospetti.
12/04/2006

Provenzano in isolamento

ROMA - Bernardo Provenzano è stato trasferito nella notte dal carcere palermitano dell'Ucciardone a quello di Terni. Guardato a vista e videosorvegliato 24 ore su 24, il capo dei capi di Cosa Nostra, arrestato ieri, si troverebbe - secondo quanto si è appreso - in un'area riservata del carcere e sottoposto a un regime di isolamento diurno e notturno. In un'altra area del penitenziario di Terni ci sarebbe anche il figlio di Totò Riina, Giovanni, detenuto in regime di 41 bis (il cosiddetto 'carcere duro').Non è escluso che Provenzano venga in futuro trasferito dal carcere di Terni: le sue condizioni di salute - viene fatto notare da fonti qualificate - sono infatti giudicate non buone. Il viaggio da Palermo al carcere umbro è infatti avvenuto con un medico a bordo. A Terni, al momento, ci sarebbero 28 detenuti in regime di 41 bis, molti dei quali arrivati nei mesi scorsi dal supercarcere di Spoleto.Straordinarie misure di sicurezza sono state predisposte dalla questura di Terni nell'area del carcere di vocabolo Sabbione dove dalla scorsa notte è rinchiuso Provenzano. I servizi sono stati decisi in accordo con la struttura carceraria. La zona di vocabolo Sabbione era già normalmente sorvegliata dalle forze dell'ordine."Bernardo Provenzano non ha dato alcun segnale di voler parlare, ha mostrato un'estrema compostezza". Gilberto Calderozzi, direttore del Servizio centrale operativo (Sco) della Direzione anticrimine centrale (Dac) della Polizia di Stato, ha descritto così l'atteggiamento del boss a 24 ore dalla clamorosa cattura.Calderozzi ha spiegato che le forze dell'ordine sono arrivate all'arresto di Provenzano attraverso un gruppo di lavoro specifico, che si è adattato al tipo di territorio e alla cultura del soggetto. In merito all'eventuale rapporto tra le elezioni e l'arresto del capomafia, il funzionario ha spiegato che "ieri mattina sono intervenuti nuovi elementi che hanno fatto decidere l'intervento".Il direttore dello Sco ha inoltre confermato che esperti stanno svolgendo indagini tecnico-scientifiche nel casolare dove è stato individuato Provenzano e che stanno cercando qualsiasi indicazione per possibili rapporti del capomafia con l'esterno, e per collegare situazioni precedenti.La domanda che ci si pone adesso è quella se la mafia avesse già contemplato la possibilità dell'arresto di Provenzano, e se abbia già idee chiare per il successore. In particolare si parla di Salvatore Lo Piccolo, specie se Cosa nostra vuole continuare la politica di mediazione avviata da Provenzano e dal giovane boss Matteo Messina Denaro. Il dubbio è se l'organizzazione criminale voglia invece tornare alle maniere forti, come ai tempi di Totò Riina, ideatore della strategia stragista che costò la vita ai giudici Falcone e Borsellino.
12/04/2006

Volantini di CUFFARO nel covo di Provenzano !!!

PALERMO - Nella masseria dov'è stato arrestato il boss Bernardo Provenzano gli investigatori, in un barattolo di vetro con penne e altri fogli, hanno trovato dei
fac simile elettorali del candidato al Senato Totò Cuffaro, presidente della Regione, e della lista "Patto per la Sicilia", del sindaco di Corleone, Nicolò Nicolosi, candidato al Senato.Il materiale propagandistico - che è stato ripreso da alcuni fotografi e troupe radiotelevisive - non è stato trovato all'interno del casolare dove dormiva Provenzano ma nel locale utilizzato da Giovanni Marino, il pastore proprietario del casolare arrestato con Provenzano, per la preparazione di formaggi e ricotta. 11/04/2006

Il covo di provenzano

CORLEONE (PALERMO) - Un letto, un armadio, un cucinino: essenziale senza fronzoli, senza accorgimenti tecnici particolari ma solo una stufa contro il freddo: è questo il covo del boss Bernardo Provenzano, dove il latitante ha vissuto negli ultimi tempi e dove oggi è stato arrestato. Gli investigatori stanno perquisendo accuratamente il casolare in località "Montagna dei cavalli". L'edificio è semidiroccato e intorno vi sono campi coltivati a ortaggi. A un centinaio di metri di distanza in linea d'aria sorgono diverse villette, ben rifinite, utilizzate per la villeggiatura estiva.La casa rurale è adiacente a un ovile e a un capanno che funge da deposito di attrezzi e fienile. Accanto c'è un altro locale utilizzato dal pastore Giovanni Marino, arrestato con il padrino corleonese, per produrre formaggi e ricotte. Marino è solo omonimo di un nipote di Luciano Liggio, il boss corleonese che diede l'avvio dell' avanzata dei cosiddetti "viddani" dalla cittadina verso Palermo e che poi, con l'avvento di Totò Riina e Bernardo Provenzano, si è conclusa con l'egemonia dei corleonesi nell' organizzazione criminale Cosa nostra.Nella casetta c'è un bagno con la doccia e un frigorifero. L'abitazione aveva l'allacciamento con l'Enel e così il boss poteva utilizzare la macchina da scrivere elettrica Brother per scrivere messaggi ai familiari e ad altri mafiosi. La casa, tra l'altro, non è circondata da muri, da reti di protezione o filo spinato ed è accessibile da tutti i lati: dalla strada attraverso un cancello o dai campi attorno.Viveva quindi in modo spartano il padrino che riceveva i pacchi con l'abbigliamento e altri generi di necessità inviati dalla famiglia attraverso intermediari. All'interno del casolare gli investigatori hanno trovato diversi oggetti personali del boss, una macchina da scrivere e alcuni "pizzini": probabilmente corrispondenza tra il capo di Cosa nostra e i suoi affiliati. Provenzano aveva sistemato dei teli di plastica alle finestre per evitare che dall'esterno, durante le ore notturne, si notasse la luce accesa. Il casolare risultava infatti disabitato ed era frequentato dal proprietario, il pastore fermato dagli investigatori, solo durante il giorno.Nella porta era stata inoltre realizzata une feritoia attraverso la quale il boss poteva controllare quando avveniva all'esterno. Al casolare si accede, dopo un cancello di ferro, percorrendo una stradella sterrata lunga circa 200 metri. I pm Michele Prestipino e Marzia Sabella, che hanno coordinato l'operazione, hanno detto che il covo di Provenzano era esattamente come l'avevano sempre immaginato. 11/04/2006

Un po' su Provenzano

PALERMO - È stato, per oltre quarant'anni, il capo più misterioso di Cosa nostra. Bernardo Provenzano, classe 1933, corleonese, detto "zu Binu", conosciuto anche come "u tratturi", il trattore, per la sua determinazione, è il superboss che vanta il primato della più lunga latitanza nella storia della mafia. Il suo volto, ignoto persino ai "soldati" dell'esercito corleonese, è stato per decenni quello di un fantasma. Ma dopo la cattura di Totò Riina, nel gennaio del '93, è toccato a lui il compito di prendere in mano le redini di Cosa nostra, decimata dagli arresti, indebolita dalle "cantate" dei pentiti, impoverita dai sequestri di armi e di denaro, e di tentare di rimettere in piedi l'organizzazione allo sbando. Lui solo, del resto, aveva il carisma per richiamare all'ordine il popolo degli uomini d'onore, cercando di ricompattarlo.
Nell'ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso, i giudici di Palermo scrivevano che Provenzano "si è rivelato uno dei personaggi più sfuggenti ed inafferrabili, oltre che uno dei più feroci e sanguinari, di Cosa nostra". La Procura è oggi convinta che si deve a "zu Binnu" la contrattazione di un "patto di non belligeranza" tra le famiglie mafiose di Palermo e i clan corleonesi. La sua scalata criminale comincia negli anni Cinquanta, quando Provenzano, insieme a Totò Riina, ed a Calogero Bagarella (che rimarrà ucciso nella strage di via Lazio del '69) diventa il più fidato luogotenente di Luciano Liggio, allora capo incontrastato della mafia corleonese. L' approdo ai vertici di Cosa nostra avviene alla tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta: dopo aver infiltrato ogni cosca con uomini di estretta osservanza "corleonese", ed avere poi eliminato tutti gli avversari a colpi di kalashnikov, Provenzano e Riina sono ormai i capi assoluti di Cosa nostra.
Il nome di Provenzano compare in decine di processi. Di lui hanno parlato tutti i pentiti di Cosa nostra, a partire dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, dilungandosi sul complesso rapporto di amore-odio che lo ha legato per un quarto di secolo a Totò Riina. Luciano Liggio, che tra i due ha sempre privilegiato Riina, di Provenzano diceva: "Spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina". Interrogato dopo la cattura, Totò Riina ha smentito ogni legame con "Zu Binu": "So che Provenzano è un mio compaesano - ha detto - Ma io non lo conosco". Insomma: nè Liggio nè Riina in dichiarazioni processuali hanno cercato di accreditare la statura mafiosa di Provenzano.
Ma il pentito Totò Cancemi sostiene che Provenzano è il boss che "tiene in mano tutti gli appalti ed i rapporti con i politici". Il pentito Gioacchino Pennino, medico, ex consigliere comunale Dc, ex uomo d'onore di Brancaccio, ha spiegato che Provenzano ha sempre mantenuto un ruolo di assoluto primo piano all'interno di Cosa nostra. E che, se Riina è stato per anni capo militare dell' organizzazione, Provenzano rappresentava invece la "mente" politica, lo stratega in grado di gestire i rapporti con il complesso mondo della politica. Sulla sorte di Provenzano, negli ultimi anni, si sono intrecciate le ipotesi più disparate. Tanto che Balduccio Di Maggio, nel 1993, ipotizzò che "zu Binu" potesse essere morto.
Ipotesi smentita dallo stesso Provenzano che, nell'aprile del '94, inviò una lettera al presidente della Corte d'assise di Palermo, Innocenzo La Mantia, per nominare gli avvocati Salvatore Traina e Giovanni Aricò suoi legali di fiducia, nel processo per l'omicidio di Giannuzzu Lallicata. La lettera, ritenuta autentica, risultava spedita da un tale "Catalano Serafino", residente in via Albanese 18, un edificio a pochi passi dal carcere dell'Ucciardone. Un nome, ovviamente, di fantasia. Nei giorni scorsi l'avvocato Traina, intervistato dal quotidiano "La Repubblica", aveva ipotizzato che Provenzano fosse morte "da diversi anni". Oggi l'arresto.
11/04/2006

martedì, aprile 11, 2006

Arrestato Provenzano

PALERMO - Il boss mafioso Bernardo Provenzano è stato arrestato dalla Polizia di Stato. Maglione, jeans e scarponcini. Così era vestito il capomafia nel momento in cui la polizia l'ha fermato nelle campagne di Corleone. Ad effettuare materialmente l'arresto sono stati gli uomini dello Sco e della squadra mobile di Palermo. Subito dopo il blitz Bernardo Provenzano ha ammesso la propria identità agli agenti dello Sco e della Mobile di Palermo che l'hanno bloccato. Dopo la sua identificazione, il boss è stato trasferito in una località segreta. In una tasca dei jeans aveva numerosi "pizzini", i foglietti con cui negli oltre 40 anni di latitanza ha continuato a comunicare e a impartire ordini ai suoi fedelissimi.Secondo quanto riferisce la polizia, la cattura è avvenuta all'interno di una masseria sita nei pressi di Corleone, dove il padrino, scarno in viso e smagrito, trascorreva la propria latitanza godendo degli appoggi di alcuni luogotenenti e dei parenti più stretti. L'individuazione del rifugio è stata possibile grazie a complesse attività di ricerca condotte da un pool di investigatori della Polizia di Stato che, da anni, dava la caccia al capo indiscusso di Cosa Nostra. Il capomafia non ha fatto alcuna resistenza all' arresto. Secondo gli inquirenti, Provenzano viveva nel casolare abbandonato in cui è stato bloccato. Accanto alla casa c'è un ovile. Nei casolari vicini sono in corso perquisizioni coordinate dai pm della dda Prestipino e Sabella. Diverse persone sarebbero state identificate.Gli investigatori hanno monitorato una serie di pizzini scritti dalla moglie di Provenzano ed a lui inviati per mezzo di una serie di staffettisti, che si alternavano fino a giungere a destinazione. In particolare, sono stati seguiti anche due pacchi che, dopo diverse tappe, sono giunti nella masseria situata nelle campagne di Corleone senza più riprendere il via. A seguito di questi dati, è stata decisa l'irruzione nel cascinale, che ha consentito di trovare e catturare il boss.Bernardo Provenzano era irreperibile dal 9 maggio del 1963, dopo l'ennesimo agguato della faida fra la cosca di Luciano Liggio, di cui faceva parte, e quella di Michele Navarra. Per ordine di Luciano Liggio avrebbero dovuto uccidere Francesco Paolo Streva, esponente del clan Navarra. Quella mattina, Streva riuscì a rispondere al fuoco e scampò alla morte. Fu poi ucciso il 10 settembre. Otto giorni dopo, i carabinieri denunciarono Provenzano: così il 18 settembre 1963 iniziava ufficialmente la latitanza della primula rossa di Corleone. Del boss non restava che una foto segnaletica scattata il 18 settembre 1959.
11/04/2006

lunedì, aprile 10, 2006

Un altro attentato a Gela

GELA (CALTANISSETTA) - Incendiato, la notte scorsa, il portone d'ingresso di un'abitazione in via Farini a Gela. Le fiamme sono state appiccate a due pneumatici e si sono poi propagate, danneggiando anche il prospetto dell'edificio. Sul posto sono intervenuti vigili del fuoco e polizia. Indagini sono in corso.
10/04/2006

Tenenza della Gdf su terreni confiscati

TRAPANI - La nuova caserma della Tenenza della Guardia di Finanza di Castelvetrano, verrà costruita su terreni confiscati alla mafia, in contrada "Giallonghi". Mercoledì prossimo alle 11, alla presenza dei vertici siciliani delle Fiamme Gialle, si terrà la cerimonia per la posa della prima pietra.
10/04/2006

venerdì, aprile 07, 2006

Sgominata banda del pizzo

PALERMO - Operazione antiestorsione dei carabinieri di Palermo che hanno sgominato una banda di estorsori composta da pregiudicati. Sono tutti accusati di avere imposto ad imprese edili di Palermo richieste estorsive che superavano i diecimila euro per ogni cantiere aperto.Per via della pericolosità delle persone indagate il procuratore aggiunto Alfredo Morvillo e i sostituti Domenico Gozzo e Gaetano Paci della Direzione Distrettuale antimafia di Palermo, hanno disposto una ordinanza di fermo che è stata eseguita dai militari dell'Arma.Il provvedimento scaturisce da una indagine del Nucleo operativo che, in seguito al monitoraggio di alcuni cantieri edili della zona di Partanna Mondello, alla periferia della città, avviato nel 2005, ha individuato alcuni cantieri edili sui quali avevano avviato indagini che hanno portato all'identificazione delle quattro persone arrestate.Gli investigatori sono riusciti a filmare e intercettare le conversazioni durante i quali gli esattori del racket chiedevano alle loro vittime il pagamento del pizzo per la "protezione" dei cantieri.
Per ottenere il pagamento della "protezione" dei cantieri gli indagati avrebbero messo a segno anche numerosi attentati, danneggiando mezzi e attrezzature delle imprese. Gran parte delle incursioni, che si svolgevano di notte nei cantieri edili, sono state registrate e filmate dai carabinieri.
07/04/2006

mercoledì, aprile 05, 2006

Riconosce l'estorsore

Preso il figlio del boss

Ex vigile aiutava i Vitale nelle gare d'appalto

PARTINICO (PALERMO) - Avrebbe favorito le ditte vicine alla famiglia mafiosa dei Vitale nell'aggiudicazione di appalti pubblici. Con questa accusa i carabinieri hanno arrestato la notte scorsa Adolfo Anzelmo, 52 anni, ex vigile urbano di Partinico, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.Dalle indagini, coordinate dai sostituti procuratori Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene della Dda di Palermo, è emerso che Anzelmo avrebbe truccato le gare d'appalto aprendo le buste e modificando l'entità delle offerte, in modo tale da far vincere le ditte di volta in volta indicate dalla cosca.L'ex vigile urbano fu arrestato già nel 2003 e poi condannato in primo grado a più di tre anni di carcere per peculato, falso in atto pubblico, contraffazione di certificato. All'epoca l'indagine iniziò dopo la denuncia dell'allora sindaco Giuseppe Giordano, su un ammanco di circa 90 milioni di euro nelle casse comunali. In quell'occasione i militari dell'Arma, durante la perquisizione presso l'abitazione di Anzelmo, avevano trovato e sequestrato diversi timbri intestati al Comune di Partinico e un timbro intestato ad una ditta vicina alla famiglia mafiosa.Questa volta a incastrare l'ex vigile, oltre alle indagini condotte dai carabinieri di Partinico con l'ausilio tecnico del Ris di Messina, sono state le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia Giusy Vitale e Michele Seidita, secondo i quali Anzelmo era l'uomo di riferimento della cosca per quanto riguardava gli appalti pubblici, già da quando era ancora latitante il boss Vito Vitale. L'ex vigile si trova adesso presso la casa circondariale "Ucciardone" di Palermo.
05/04/2006

martedì, aprile 04, 2006

Sarà così?

ROMA - Bernardo Provenzano è "il capo indiscusso" della mafia. Lo rileva la Dia nella Relazione al Parlamento, relativa al secondo semestre del 2005. Provenzano, spiega la Direzione investigativa antimafia, "si sarebbe posto come punto di riferimento e momento di aggregazione tra i mafiosi in carcere e per quelli in libertà. Forte del convincimento che la cosidetta strategia dell'inabissamento sia la più lungimirante, sembra riuscito sinora a trovare un punto di equilibrio tra le esigenze dei boss reclusi nelle carceri sottoposti al 41 bis e quelle dei capimafia emergenti, più che altro interessati alla gestione di attività illecite sul territorio".Un ruolo analogo a quello di Provenzano, prosegue la Relazione, sarebbe ricoperto da Benedetto Santapaola nella Sicilia orientale e da Giuseppe Madonia in quella centrale. La linea strategica di cosa nostra è stata individuata dagli stessi vertici che hanno ritenuto il legame di sangue "l' unico criterio praticabile nella scelta della catena di comando, nella speranza di allontanare eventuali tentazioni di collaborazione con la giustizia". Le estorsioni sono ancora "uno dei momenti essenziali dell'agire mafioso, sia come importante strumento di arricchimento sia come meccanismo di controllo del territorio". Altra fonte di guadagno "è rappresentata dai tentativi di infiltrazione nel sistema di aggiudicazione e di esecuzione degli appalti pubblici. Tenuto conto degli enormi interessi in gioco - osserva la Dia - non si ravvisano probabili mutamenti dell'attuale strategia mafiosa, anche se sono emersi alcuni fattori di potenziale instabilità degli assetti malavitosi". Il riferimento è ad alcuni episodi delittuosi verificatisi nella provincia di Agrigento e all'omicidio di Maurizio Lo Iacono, "la cui morte potrebbe ricondursi alla logica mafiosa della spartizione di quel territorio, che vede contrapporsi, da un lato, la famiglia Vitale e, dall'altro, gli accoliti di Bernardo Provenzano".
04/04/2006

Via al processo De Mauro

PALERMO - Si è aperto questa mattina a Palermo davanti ai giudici della terza sezione della Corte d'assise il processo per l'omicidio del giornalista Mauro De Mauro, scomparso la sera del 16 settembre 1970. Imputato è Totò Riina, che assiste all'udienza in videocollegamento dal carcere di Milano. La Corte d'assise è presieduta da Giancarlo Trizzino.L'omicidio De Mauro è ritenuto dall'accusa un "giallo". Nell'aula si rivivrà il film dell'Italia nera, la stagione dei misteri; sfileranno testimoni eccellenti, fra cui molti giornalisti, il prefetto Mario Mori, il regista Francesco Rosi e il senatore Emanuele Macaluso.I consulenti della Procura parlano della scomparsa di De Mauro come di un buco nero, un giallo che si innesta in un periodo storico e politico in cui vi era "la strategia della tensione", il golpe Borghese, i successivi tentativi di colpi di stato e l'attentato a Enrico Mattei.
04/04/2006

lunedì, aprile 03, 2006

Intimidazione?

SIRACUSA - Un incendio di natura dolosa ha distrutto, la notte scorsa, una Peugeot 106 posteggiata in via Latomia del Casale, a Siracusa. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco. Indagini sono in corso.
03/04/2006

Si indaga...

CALTANISSETTA - Un incendio, di probabile natura dolosa, ha distrutto un fabbricato rurale adibito a magazzino in contrada Burgarella a Caltanissetta. All'interno erano custoditi un telaio di auto A112, una Fiat 500, una vespa Piaggio, un rimorchio porta barca, due ponteggi per sollevamento veicoli usati in officina, banchi di lavoro. Le fiamme sono state domate dai vigili del fuoco. Sull'episodio indaga la polizia.
03/04/2006

domenica, aprile 02, 2006

Sarà vivo o no...

PALERMO - "Ci sentiamo di affermare che Bernardo Provenzano è vivo e vegeto e probabilmente adesso sta facendo gli scongiuri. Continuiamo le indagini proprio perché sappiamo che non stiamo dando la caccia a un fantasma. Abbiamo la prova provata che sia vivo". Il giorno dopo l'intervista apparsa su "La Repubblica", nella quale l'ex legale di Bernardo Provenzano, Salvatore Traina, giura che il latitante in fuga dal 18 settembre 1963 "è morto da anni", i magistrati tornano a dichiarare infondata tale convinzione. "Le sue sono congetture - afferma il pm Maurizio De Lucia -: le nostre indagini, invece, parlano con le carte, che sono quelle depositate al processo 'Grande mandamento'. Il Dna ricostruito con esami in laboratorio sulla base dei reperti prelevati in clinica e sulla cartella dell'uomo sottoposto a un intervento in Francia, è perfettamente compatibile con le comparazioni fatte con i familiari, in particolare con il fratello". Quanto all'avvocato Traina, "ho seri dubbi che assista ancora Provenzano".Del resto, lo stesso procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, recentemente in un'intervista televisiva era stato chiaro: "Recentemente abbiamo avuto tracce ben precise della sua attività e dell'importanza strategica del suo ruolo direttivo all'interno di Cosa nostra. Tracce molto recenti, anche relative al 2006".
01/04/2006

sabato, aprile 01, 2006

Beni confiscati a Meli

AGRIGENTO - Tre appezzamenti di terreno ed un fabbricato rurale, confiscati al presunto mafioso Rosario Meli, di Camastra, sono stati trasferiti al comune di Licata, con decreto dell'agenzia del demanio centrale di Roma. I beni saranno consegnati all'amministrazione comunale il prossimo 5 aprile nel corso di una cerimonia in programma nella Prefettura di Agrigento. I terreni e l'immobile attraverso la costituzione di un'apposita azienda agricola da assegnare in gestione a cooperative sociali, dovranno poi essere destinati allo sfruttamento agricolo. Tale finalità rientra nel progetto pilota "Libera terra Agrigento" proposto dalla prefettura, recentemente finanziato dal ministero dell'Interno nell'ambito del programma operativo nazionale "sicurezza per lo sviluppo del mezzogiorno d' Italia".
31/03/2006