mercoledì, novembre 29, 2006

Confiscate varie società

PALERMO - La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato le società Centralgas, Vigorgas Serbatoi, Italmetano e Gas Sud, appartenenti agli imprenditori Giuseppe Costanzo e Fabio Cascio Ingurgio, ex presidenti rispettivamente di Sicindustria e dell'Assindustria provinciale di Palermo. Secondo i giudici, furono soci di Francesco Paolo Bontate, figlio di Stefano, il boss cosiddetto "Principe di Villagrazia", ucciso nel 1981 all'inizio della guerra di mafia.
Costanzo e Cascio, indagati anche per riciclaggio e truffa sui fondi della legge 488, si erano dimessi dalle cariche in Confindustria dopo il sequestro delle societa' e la loro sospensione dalle funzioni di amministratori, avvenuti un anno fa: adesso vengono indicati come presunti riciclatori del denaro sporco che Bontate junior, in carcere da due anni con l'accusa di traffico di stupefacenti, avrebbe investito nel "gruppo Centralgas". Il provvedimento è stato adottato dal collegio presieduto da Cesare Vincenti, che ha accolto la proposta dei pubblici ministeri Geri Ferrara e Sara Micucci, coordinati dal procuratore aggiunto Roberto Scarpinato. Le indagini sono state svolte dalla sezione misure di prevenzione della polizia di Stato. In 156 pagine i giudici ricostruiscono punto per punto la storia delle quattro compagini sociali, al cui interno si trovavano, negli anni '60 e '70, i boss Bontate e Teresi o loro prestanome. L'elemento unificante tra il passato e il presente è, ad avviso del tribunale, un altro socio ed ex amministratore: l'avvocato Pietro Cascio Ingurgio, padre dell'ex presidente dell'Associazione degli industriali della provincia di Palermo. Il legale venne sottoposto, negli anni '80, a una misura di prevenzione proprio per la sua contiguità con i mafiosi di Villagrazia suoi soci; adesso i giudici, accogliendo la tesi dei pm, rincarano la dose: "Non si puo' non rilevare ancora una volta il ruolo di "garante" svolto da Cascio Ingurgio Pietro, del tutto in linea con i comportamenti dallo stesso tenuti nel passato nei confronti degli esponenti mafiosi di cui risultava essere il fiancheggiatore, con finalita' di ripulitura del denaro di provenienza illecita". Bontate, arrestato nel 2004 per traffico internazionale di stupefacenti, era nel cda e socio di aziende del gruppo: Costanzo disse all'epoca di non sapere di chi si trattasse e che comunque era stato subito allontanato, dopo la cattura. I pm Ferrara e Micucci pero' non si sono affatto convinti e i giudici danno loro ragione, rilevando la "piena coincidenza temporale" dell'assunzione della carica in Centralgas con il coinvolgimento nell'indagine per droga. Il sospetto e' cioe' che il denaro sporco di Bontate (entrato in Vigorgas su proposta di Fabio Cascio) sia confluito nelle attivita' lecite. Il decreto parla pure di "obiettiva commistione di interessi tra l'attivita' illecita di Bontate e l'attivita' gestionale delle societa'", di amministratori che avrebbero agito "in modo assolutamente illecito e irregolare, con disinvolte operazioni di falsificazione della realta' contabile sostanziale e soprattutto in violazione della normativa bancaria antiriciclaggio. I due imprenditori, fra l'altro, avrebbero sfruttato la propria immagine istituzionale nell'ambito delle organizzazioni degli industriali, per ottenere credito dalle banche e dall'Irfis: il loro sarebbe stato "un ruolo di immagine, mentre invero la gestione reale dell'azienda sembra essere stata in mano altrui". E non solo: "Nel circolo produttivo aziendale entrarono ingenti quantita' di denaro di non accertata e non accertabile provenienza lecita". Sarebbero poi stati commessi falsi contabili e nei bilanci, evasioni fiscali, operazioni in nero. Tutte attivita' dirette "alla strumentalizzazione dell'attivita' di impresa a fini di riciclaggio". Le aziende si avviano adesso verso la liquidazione. A rischio i posti di lavoro.
29/11/2006
Fonte: La Sicilia

Blitz antidroga a Catania

CATANIA – Blitz antidroga la notte scorsa nel quartiere Picanello a Catania: la polizia ha arrestato 29 persone – una sola risulta irreperibile - su ordine del gip del tribunale di Catania che ha accolto la richiesta del sostituto procuratore della Repubblica Pasquale Pacifico. Sgominata un'organizzazione che per anni avrebbe gestito il traffico di droga importando dal nord Italia sostanze stupefacenti tra cocaina e marijuana che poi cedevano a pusher locali che ne curavano la vendita al dettaglio.
L'indagine della polizia è stata avviata nel mese di giugno di due anni fa relativamente ad un traffico di sostanze stupefacenti di notevoli proporzioni gestito dagli indagati. Lo spunto per l' inchiesta è stato l' arresto, nell'aeroporto Fontanarossa, della dominicana Marcelo Belkis Arias, di 39 anni, che giunta a Catania dalla Spagna, è stata trovata in possesso di 3 ovuli contenenti, complessivamente, 45 grammi di cocaina. Le conseguenti intercettazioni telefoniche attivate dalla Dda della Procura di Catania sull'utenza della donna hanno permesso di ricostruire le dinamiche interne alla gestione del traffico di stupefacenti: l'organizzazione composta da individui organici alla cosca mafiosa Santapaola, ed in particolare del gruppo che operava nel rione Picanello avveniva principalmente in una sala giochi gestita da uno degli arrestati, Carmelo Catalano, di 45 anni. Dalla sala giochi l'uomo 'coordinava' l'attività di spaccio al 'dettaglio' in vari quartieri di Catania e nei paesi vicini e allo stesso tempo teneva rapporti con esponenti di spicco della cosca Santapaola A dare una svolta definitiva all'inchiesta è stato il sequestro, in locali in uso a Catalano, di 400 grammi di cocaina e di un 'libro mastro' dell'organizzazione, sul quale erano annotati i crediti da questa vantati per le diverse forniture di stupefacenti. Gli investigatori hanno anche accertato dei casi di usura. Nel corso dell'operazione la polizia ha trovato e sequestrato cinque chilogrammi di marijuana in casa di Marco Guarnaccia, di 22 anni. Gli arrestati sono Antonino Alecci, di 44 anni, Davide Benincasa, di 27, Alfio Calì, di 52, Carmelo Catalano, di 55, Antonio Eugenio Cirolli, di 39, Alessandro Cunsolo, di 23, Domenico Cunsolo, di 28, Antonino Curcuruto, di 66, Giuseppe Gaetano Di Blasi, 28, Vito Gangemi, di 29, Marco Guarnaccia, di 22, Luca Mirenda, di 27, Rosario Mirenda, di 28, Carmelo Parisi, di 31, Salvatore Pettinato, di 52, Placido Russo, di 32, Fabio Santangelo, di 34, Biagio Sapuppo, di 23, Giuseppe Sapuppo, di 44, Santo Sapuppo, di 40, Tommaso Carmelo Sciuto, di 30, Giovanni Antonino Tosto, di 28, e Sebastiano Tropea, di 55. Il provvedimento è stato notificato in carcere ad Agatino Manara, di 40 anni, e ad Aurelio Barbagallo, di 44. Il Gip ha concesso gli arresti domiciliari a Silvana Belgiorno, di 43 anni, Agata Coco, di 49, e a Eleonora Maria Rita Cordaro, di 30.
29/11/2006
Fonte: La Sicilia

martedì, novembre 28, 2006

Brava persona Di Vincenzo....

CALTANISSETTA - Beni per un valore stimato di 270 milioni di euro sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza di Caltanissetta. Il provvedimento cautelativo, emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, colpisce il patrimonio personale e aziendale di Pietro Di Vincenzo, il noto imprenditore, già presidente di Confindustria Caltanissetta, arrestato tempo fa a Roma nell'operazione "Cobra". In particolare, il sequestro riguarda otto holding facenti capo all'imprenditore e le loro partecipazioni in altre 40 società, operanti soprattutto nel settore dell'edilizia e della costruzione di opere pubbliche, ma anche nella gestione di impianti per il trattamento delle acque e lo smaltimento dei rifiuti. Sequestrati anche 10 immobili, 7 polizze assicurative e disponibilità finanziarie su conti correnti bancari in diversi istituti di credito. Pietro Di Vincenzo, 59 anni, l'anno scorso è stato condannato dal gup di Roma in un giudizio con rito abbreviato a un anno e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, per presunti collegamenti con la cosca della famiglia Rinzivillo di Gela, che operava anche nella capitale con intromissioni in appalti pubblici e cantieri edili. L'ex presidente regionale del gruppo costruttori di Sicindustria ed ex presidente dell'associazione provinciale degli industriali di Caltanissetta è sorvegliato speciale con obbligo di dimora a Caltanissetta. La Corte d'Appello, cui lui aveva fatto ricorso contro quest'ultimo provvedimento, aveva invece confermato il giudizio di "pericolosità sociale" nei suoi confronti perchè Di Vincenzo avrebbe agevolato cosche di "Cosa Nostra" pagando "pizzo" e non denunciando estorsioni compiute ai suoi cantieri. Di Vincenzo è nel mirino degli inquirenti da oltre 15 anni dopo le dichiarazioni del pentito Leonardo Messina. L'imprenditore è stato anche vittima di attentati contro mezzi pesanti delle sue ditte ed è stato attaccato più volte dal sindaco di Gela Rosario Crocetta per la sua presunta vicinanza alle cosche. L'imprenditore era stato arrestato anche nel giugno del '93 nell'ambito di un filone d'indagine del pool Mani pulite della Procura di Milano. Era stato l'allora pm Antonio Di Pietro ad interrogarlo, contestandogli di avere ricevuto una tangente dalla Cogefar Impresit per un appalto della Usl di Vittoria relativo a lavori di ampliamento dell'ospedale. Di Vincenzo aveva collaborato ed era stato successivamente prosciolto, mentre il processo per la cosidetta Tangentopoli siciliana, nel quale aveva ammesso di avere versato contributi ad esponenti politici, si è concluso con l'assoluzione di quasi tutti gli imputati.
28/11/2006
Fonte: La Sicilia

Santapaola incapace di intendere e di volere

CATANIA - Un altro procedimento penale nei confronti di Antonino Santapaola, fratello del boss ergastolano Benedetto, è stato sospeso: anche la prima sezione penale del Tribunale di Catania ha infatti ritenuto imputato non in grado di intendere e volere. La decisione è stata presa dopo che una perizia di parte ha confermato che Antonino Santapaola è affetto da schizofrenia paranoidea e che pertanto non è in grado di partecipare coscientemente al dibattimento. Il Tribunale ha contestualmente confermato la nomina dell'avvocato. Giuseppe Lipera, difensore di Antonino Santapaola, a curatore speciale dell' imputato. Analoghe richieste sono pendenti davanti a due Giudici per l'udienza preliminare, Angelo Costanzo e Carlo Cannella, davanti ai quali sono pendenti procedimenti penali nei confronti di Antonino Santapaola.
28/11/2006
Fonte: La Sicilia

Bravo Cuffaro...Sempre meglio...

Gli elettori di Giusy li cercava papà. Da direttore sanitario dell´Ausl 1 di Agrigento era un gioco da ragazzi mettere in piedi un bacino di voti di tutto rispetto: bastava promettere e ogni tanto assicurare un posto di lavoro a qualcuno, e parenti e amici votavano tutti per lei, per la bella ragazza bionda che nel giro di qualche anno sarebbe approdata all´Assemblea regionale diventando la pupilla del governatore Salvatore Cuffaro. Raccomandazioni a raffica e concorsi sanitari truccati. Paradossalmente è stato proprio uno strano incendio nella villetta sul mare di Licata della famiglia Savarino a dare il via all´inchiesta che vede indagati Giusy Savarino, 32 anni, deputato regionale dell´Udc, e suo padre Armando, direttore sanitario dell´Ausl 1, dimessosi dall´incarico appena sei giorni fa. Voto di scambio l´ipotesi di reato a carico della Savarino; abuso d´ufficio, falso e violazione del segreto d´ufficio a carico di Armando Savarino. Per lui i sostituti procuratori Luca Sciarretta e Luca Fuzio avevano chiesto l´interdizione dal pubblico ufficio, ma il gip Luigi Patronaggio non ha accolto la richiesta. Agli arresti domiciliari è finito Michele Pellegrino, direttore amministrativo dell´ospedale di Sciacca e dirigente amministrativo dell´Ausl 1 di Agrigento, anche lui dell´Udc, partito per il quale è consigliere comunale a Ribera. Indagati anche Calogero Gattuso, consigliere provinciale di Agrigento dell´Udc e segretario della Savarino, e Francesco Miccichè, presidente della commissione esaminatrice di uno dei concorsi sanitari che sarebbero stati truccati per favorire i raccomandati dei Savarino. Sotto la lente d´ingrandimento dei carabinieri del reparto operativo di Agrigento sono finiti, in particolare, tre concorsi banditi dalla Ausl 1: il primo per undici posti di collaboratore amministrativo, presieduto da Michele Pellegrino; il secondo a sette posti di autista di ambulanza, presieduto da Francesco Miccichè; il terzo di mobilità volontaria per la copertura di venti posti di infermiere. A presiedere quest´ultimo concorso era lo stesso Savarino. Intercettazioni telefoniche, documentazione acquisita negli uffici dell´Ausl e persino qualche filmato tra le prove messe insieme. Il meccanismo era collaudato: liste di raccomandati da piazzare e candidati da aiutare al momento giusto. Bastava alterare i voti al momento della correzione degli elaborati o comunicare agli esaminandi, con congruo anticipo, le domande che i commissari compiacenti gli avrebbero posto alla prova orale. L´esito era assicurato: nel concorso bandito dall´Ausl di Agrigento nel ´98 per undici posti di collaboratore amministrativo, ad esempio, quattro dei vincitori - secondo l´ipotesi investigativa - sarebbero balzati in testa alla graduatoria proprio grazie alla manipolazione delle prove d´esame. Ad accendere i riflettori sulla famiglia Savarino l´incendio, chiaramente di origine dolosa, che nel 2004 danneggiò gravemente la loro villa estiva a Licata. Nell´indagine furono disposte intercettazioni telefoniche che aprirono agli inquirenti alcuni squarci interessanti. Dalle conversazioni tra Giusy Savarino, amici e collaboratori veniva fuori l´ipotesi che l´incendio fosse da mettere in relazione con alcuni forti contrasti politici con un altro deputato agrigentino dell´Udc, quel Vincenzo Lo Giudice poi finito in manette nell´inchiesta "Alta mafia". Poi alcune dichiarate cautele della Savarino nell´uso dei telefoni, e soprattutto alcune imprudenze dei suoi collaboratori, hanno rivelato agli investigatori ben altre vicende. Ma lei insiste: «Ho piena fiducia nell´operato dei magistrati. Con la stessa fiducia, sono certa che gli inquirenti sapranno individuare esecutori e mandanti di quell´attentato». Suo padre Armando aggiunge: «Sono nato e cresciuto in una caserma di carabinieri. Mio padre era comandante di una stazione. Non posso che avere la massima fiducia nelle istituzioni».
AGRIGENTO - Al mercato del voto di scambio l´assunzione di un infermiere, un operaio, un metronotte vale più della nomina di un primario ospedaliero. I primi, mediamente, portano almeno 50 voti ciascuno. Per ottenere lo stesso numero di voti ci vorrebbero cinque primari messi insieme. Un conto fatto a tavolino, alla vigilia delle elezioni del 2001 e del 2006, nel comitato elettorale di Giuseppa "Giusy" Savarino, poi eletta nella lista dell´Udc e considerata fedelissima del presidente Salvatore Cuffaro. Un conto che ha dato i suoi frutti e i risultati sperati. Ma che ha portato anche guai alla giovane deputata regionale e al padre Armando, vero regista della macchina elettorale messa in moto per fare eleggere la figlia a Palazzo d´Orleans. «Dall´inchiesta è emerso - scrivono i magistrati nell´ordinanza di custodia cautelare - che i raccomandati che venivano assunti dovevano dare in cambio il loro voto e quello dei loro parenti in favore di Giusy Savarino, candidata all´Ars nel 2001 e nel 2006». E questi fatti dimostrano, scrivono ancora i magistrati, «la stretta connessione tra la gestione amministrativa della struttura sanitaria e la politica in senso stretto». A conferma degli imbrogli che sarebbero stati compiuti da Armando e Giusy Savarino, nell´ordinanza sono riportati alcuni episodi registrati, e in alcuni casi anche filmati, relativi alle assunzioni e ai concorsi truccati negli ospedali. Il 25 maggio dello scorso anno Calogero Gattuso, suo segretario personale, parla con Giusy Savarino che gli dice: «Vai da mio padre a ritirare la lista dei raccomandati, non usare il telefono perché non si sa mai... è la lista da portare poi all´assessorato alla Sanità». Gattuso però si dimentica del "consiglio" e per telefono chiede ad Armando Savarino i nomi dei raccomandati al concorso negli ospedali di Agrigento ma anche in quello al San Raffaele di Cefalù, dove l´onorevole Savarino riesce a piazzare sei persone della sua lista. Ma non c´erano solo i posti negli ospedali: anche nella Multiservizi Giusy Savarino aveva da sistemare tanti "clienti" a lei sicuramente molto cari, al punto da entrare in contrasto con il fratello del governatore Cuffaro, che aveva invece altri raccomandati per la Multiservizi. Il contrasto esplode quando il segretario della Savarino va a Palermo, in piazza Politeama, per consegnare la lista dei raccomandati (chi la riceve si chiama Roberto Bruno). In quell´occasione Gattuso riferisce ad Armando Savarino che per quei posti stanno sorgendo problemi «per l´intromissione di un soggetto di Raffadali molto potente (che i carabinieri identificano in uno dei fratelli del presidente Cuffaro, ndr) che avrebbe preteso per i propri favoriti tutte le nomine disponibili». Armando Savarino ne parla con la figlia, che va su tutte le furie e minaccia persino di rivolgersi alla commissione regionale Antimafia, della quale fa parte. «Ho fatto un bordello - dice la Savarino al suo segretario personale Gattuso - ho fatto sospendere tutte le cose, ho minacciato pure interrogazioni parlamentari e controispezioni... ho fatto proprio la stronza...». Altro serbatoio di voto di scambio Giusy Savarino, secondo gli inquirenti, lo aveva nella società "Metronotte Sicilia spa". «Dalle intercettazioni è emerso chiaramente - scrivono i magistrati nell´ordinanza - che la società (Metronotte spa, ndr) assume i propri dipendenti sulla base di raccomandazioni di personaggi che le abbiano garantito il servizio di guardiania in varie aziende». E, a conferma di quest´altro pozzo dal quale attingere voti, c´è una conversazione registrata tra Armando Savarino e un suo galoppino: «Basile (uno dei soci della Metronotte Sicilia, ndr) non dà i posti per politica ma solo agli enti dove lui vince la gara». L´inchiesta è tutt´altro che conclusa. In questi due anni di indagini i carabinieri di Agrigento hanno raccolto una gran mole di documenti che potrebbero riservare altri colpi di scena.
Fonte: La Repubblica

Parla Fratello dell'UDC...

Ha ammesso di aver chiesto voti ai mafiosi, di aver dato posti di lavoro a uomini di Cosa nostra e di aver favorito le imprese delle cosche, si è preso la sua condanna a un anno e mezzo di carcere (pena sospesa) ed è tornato ad Alcamo ad organizzare il suo movimento "I moderati" con i quali, da mesi, è già tornato alla grande sulla scena politica trapanese. Onofrio Fratello è il primo uomo politico siciliano ad aver ammesso i suoi rapporti con la mafia, ma l´ammissione di responsabilità, oltre a costituire un importante precedente giudiziario, non ha affatto comportato l´abbandono della attività. Anzi, così come le microspie degli investigatori avevano captato in una fase avanzata dell´inchiesta, forse c´è proprio la scelta di rimanere sulla scena politica alla base della decisione di ammettere buona parte degli addebiti mossigli dalla Procura di Palermo e di chiamare in causa anche altri personaggi del Trapanese. Il patteggiamento di Norino Fratello, ormai ex deputato regionale dell´Udc, già concordato all´inizio dell´estate con i pm della Dda Roberto Piscitello e Massimo Russo, è stato sancito ieri dal giudice per l´udienza preliminare Antonella Consiglio che ha condannato l´uomo politico a diciotto mesi di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Un anno invece la condanna per un altro noto esponente politico trapanese, l´ex consigliere comunale di Marsala, Vincenzo Laudicina, che ha ottenuto le circostanze attenuanti dal gup grazie alle spontanee dichiarazioni rese ai pm titolari dell´inchiesta su mafia e politica nel Trapanese. Dichiarazioni che i magistrati hanno utilizzato anche nell´inchiesta a carico di un altro ex deputato regionale dell´Udc, David Costa (che attende per il 18 dicembre la sentenza del processo che lo vede imputato di concorso esterno in associazione mafiosa) e dell´ex senatore socialista Pietro Pizzo, accusato di associazione mafiosa e voto di scambio. E proprio a David Costa e Norino Fratello la famiglia mafiosa di Marsala guidata dal boss Natale Bonafede avrebbe assicurato sostegno elettorale alle Regionali e alle Amministrative di Marsala del 2001. Prima le indagini e poi le ammissioni di Fratello hanno costituito riscontro decisivo alle dichiarazioni dell´ex vigile urbano, diventato collaboratore di giustizia, Mariano Concetto. Nel capo di imputazione per Norino Fratello, le cui contestazioni l´uomo politico ha ammesso patteggiando la pena, i magistrati della Dda hanno scritto che Fratello ha mantenuto «il costante contatto con i vertici della cosca mafiosa di Marsala, nella persona del reggente Natale Bonafede, nonché con altri esponenti di spicco di Cosa nostra». Il deputato regionale, secondo gli investigatori, attraverso l´imprenditore Vincenzo Zerilli, accusato anche lui di mafia, perché aveva rapporti diretti con il capomafia Bonafede che nel 2001 era latitante, avrebbe promesso «di adoperarsi presso organismi amministrativi al fine di conseguire le agevolazioni bancarie e i finanziamenti regionali previsti da Agenda 2000, impegnandosi in favore degli affiliati alla famiglia mafiosa di Marsala al fine di assicurare posti di lavoro in favore di loro parenti e favorire soggetti appositamente individuati nell´aggiudicazione di appalti pubblici». Lo scopo di Fratello, sostengono gli inquirenti, era di convogliare una quantità di preferenze elettorali per sostenere la propria candidatura nella lista del Ccd alle elezioni per il rinnovo dell´Assemblea regionale del 2001.
Fonte: La Repubblica

Napolitano ricorda Falcone e Borsellino

NAPOLI - "L'impegno di tutti noi è tenere viva la memoria di quei due straordinari magistrati e della loro lotta che ha dato risultati e che deve rivivere nell'impegno dei giovani". Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricordato la figura dei giudici Falcone e Borsellino, durante la firma di un protocollo d'intesa e della carta della legalità della scuola oggi a Napoli. Il capo dello Stato ha portato una testimonianza personale: "Era il maggio del 1996, ero uscito da qualche ora dal Quirinale, dove avevo giurato come ministro dell'Interno e dovetti correre a Palermo per l'anniversario della strage di Capaci. L'impegno di tutti noi - ha sottolineato - è tenere viva la memoria". Rivolgendosi al gruppo di giovani studenti napoletani che ha assistito alla firma, ha ribadito che "l'augurio è che in questa lotta anche a Napoli riesca a prevalere".
27/11/2006
Fonte: La Sicilia

lunedì, novembre 27, 2006

L'antimafia che parte dal basso

Parte I

A megghia parola è chidda ca nun si dici

La Mafia è un problema di giù

La Camorra è un problema di giù

La ‘nrdrangheta ce l’hanno i Calabresi

I preti non dovrebbero occuparsi di queste cose

Cosa c’entra Pavia con una settimana antimafia?

Le parole non servono, contano i fatti

La politica è la politica, la Mafia è la Mafia

I mafiosi sono degli ignoranti

Ormai la Mafia non uccide più, sta sparendo


Parte II

La miglior parola è quella che si ascolta

La Mafia è un fenomeno criminale italiano e internazionale

La Camorra è un fenomeno italiano e internazionale

I preti hanno il dovere di occuparsi di queste cose

Pavia è un punto nevralgico del Nord Italia per parlare di Mafia

L’informazione dei cittadini li porta ad una concreta azione di contrasto

La politica è collusa con la Mafia, con la Camorra e con la ‘Ndrangheta

I Mafiosi sono persone capaci di intercettare le nuove tendenze economiche e sfruttarle per la loro azione criminale

Quando la Mafia non ricorre alla violenza si può affermare ch’essa agisca indisturbata sul territorio



Prima i luoghi comuni, poi i dati di fatto.
Quest’anno tutti coloro che si occupano con passione e senso civico di Antimafie si sono incontrati a Roma, in occasione di Contromafie, gli Stati generali dell’antimafia, organizzata da Libera, l’associazione di nomi e numeri contro le mafie, fondata da Don Luigi Ciotti.
C’eravamo anche noi, del Coordinamento per il diritto allo studio - Udu di Pavia.
Contromafie è una delle più grandi innovazioni di questi anni e si è svolta lungo l’arco di tempo di tre giorni, durante i quali sono stati organizzati dei gruppi di lavoro, sedici per la precisione, con approfondimenti che andavano dalla tratta degli esseri umani, ai traffici illeciti transnazionali, dall’informazione all’economia illegale. Il livello dei gruppi di lavoro è stato qualitativamente altissimo, vista la presenza di avvocati, magistrati, politici e giornalisti, oltre a semplici cittadini.
Alla fine dei lavori del giorno di sabato, Libera ha messo in programma anche una Notte Bianca che si è svolta presso La Casa del Cinema, con documentari come La mattanza, O’sistema e La vedova della lupara. Più di dieci ore di preziosissimi documenti e intermezzi teatrali.
È la prima volta nella storia di questo paese che tante persone attive nel panorama nazionale dell’antimafia o sensibili ad un tema tanto importante, hanno avuto la possibilità di sedersi ad un tavolo, guardarsi negli occhi e fare il punto della situazione e si sono elaborate delle proposte concrete, come la creazione di un Testo Unico della legislazione Antimafia, l’istituzione di un’agenzia nazionale per la gestione dei beni sottratti alle mafie e ancora la revisione del reato di voto di scambio e della normativa sui comuni sciolti per mafia. Tutte queste proposte hanno dato forma al Manifesto degli Stati generali dell’Antimafia, che trovate da subito sul sito www.libera.it.
È la prima volta che più di 500 associazioni provenienti da realtà di ogni tipo sono guidate dalla stessa passione per la giustizia e per la legalità ed è la prima volta che si ha la sensazione di essere davvero in tanti. Qualcuno ha anche detto: “Chissà come sarebbe stato felice uno di quei giudici ammazzati a vedere tutto questo”.
Menti a lavoro, ognuno con la propria esperienza, senza parole vane, ma con dati alla mano, proposte concrete e qualche giovane che prende appunti.
La tre giorni si è conclusa con una tavola rotonda con Rita Borsellino, Alessandro Laterza, Raffaele Lauro, Marco Minniti, Nichi Vendola, Paolo Nerozzi e anche Francesco Forgione, contestato a tratti per il voto contrario alla legge sull’esclusione dei politici indagati dalla Commissione Parlamentare Antimafia.
Tutto si conclude con la simbolica distribuzione, da parte di Giancarlo Caselli, di sacchetti contenenti chicchi del grano coltivato nei terreni confiscati alla Mafia.
Domenica 19 Novembre. Le sedici del pomeriggio. A Roma c’è un gradevole sole d’autunno e nell’aria una novità: la legalità è sempre più forte.

Alessandra Fuccillo

domenica, novembre 26, 2006

Arrestato Di Gati

AGRIGENTO - Il boss mafioso, Maurizio Di Gati, è stato arrestato dai carabinieri in una abitazione del villaggio Mosè, a pochi chilometri da Agrigento. Il ricercato è ritenuto il capomafia della zona, ed è accusato di numerosi omicidi.La notizia è stata confermata dal procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che si è congratulato con le forze dell'ordine per la cattura. "È un successo - afferma Grasso - che contribuisce a colpire ancora di più le cosche mafiose e a indebolire Cosa Nostra".Insieme a Di Gati, 40 anni, è stato arrestato, Carmelo Veneziano Broccia, il proprietario della casa in cui il boss si nascondeva. Il capomafia non ha opposto resistenza. Secondo indiscrezioni a portare i carabinieri alla cattura del boss sarebbero state le rivelazioni di due pentiti, uno dei quali, come Di Gati, è originario di Racalmuto. Il capomafia è stato per anni reggente provinciale di Cosa nostra ad Agrigento. Per volere del boss Bernardo Provenzano il suo posto è stato preso dal boss Giuseppe Falzone, latitante da anni.Per Francesco Forgione, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia "l'arresto dopo 7 anni di latitanza di Maurizio Di Gati è un successo non solo per i carabinieri e la Dda di Palermo, a cui vanno i complimenti di tutta la Commissione Antimafia, ma di tutte le istituzioni che devono lavorare con continuità nella stessa direzione per contrastare la mafia". "Questa operazione è anche la prova di come i boss non abbandonino mai il loro territorio - aggiunge - per mantenere intatto il loro potere e la loro forza intimidatrice. Bisogna insistere per catturare i nuovi capi che controllano il territorio di Agrigento e scoprire ogni eventuale collusione che favorisce queste latitanze". Anche Giuseppe Lumia, vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, si è congratulato con la Dda di Palermo ed i carabinieri per la cattura del boss. "La cattura di Di Gati è un ulteriore sprone a costruire un sistema di lotta alla mafia sempre più avanzato. La sua cattura conferma che esiste una professionalità elevata tra le forze dell'ordine e la magistratura che va sostenuta con mezzi e normative adeguate. Nel territorio di Agrigento - osserva - bisogna continuare a cercare le trame delle complicità ed individuare le ricchezze della mafia".
Chi è Maurizio Di Gati.
Nato a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, nell'agrigentino Maurizio Di Gati, 40 anni, arrestato all'alba dai carabinieri, era ricercato dal 1999. Fedelissimo dell'ex capomafia, ora pentito, Nino Giuffrè, per anni è stato reggente provinciale della mafia agrigentina. A deciderne la sostituzione è stato il numero uno di Cosa nostra, Bernardo Provenzano che ha affidò il comando delle cosche a Giuseppe Falzone, ancora ricercato dalle forze dell'ordine. Di Gati è stato condannato in primo grado al processo Akragas per associazione mafiosa e per una serie di omicidi. In secondo grado ha retto solo l'imputazione di mafia, che gli è costata una condanna a 6 anni; gli ergastoli per i delitti sono stati annullati. La sentenza è definitiva. Di associazione mafiosa ed estorsione il boss deve rispondere in altri due dibattimenti in corso: uno è ancora pendente in primo grado, l'altro è in appello. Nel 1991, nella strage di Racalmuto, primo scontro nella lunga guerra combattuta tra mafia e Stidda, i killer stiddari assassinarono Diego Di Gati, fratello maggiore di Maurizio. Iniziò da allora la scalata al potere del capomafia. I festeggiamenti per l'investitura a reggente delle cosche agrigentine, però, il boss dovette interromperli bruscamente. Il 14 luglio del 2002 il summit, organizzato in una masseria di Santa Margherita Belice, in cui i capi delle famiglie stavano consegnando lo scettro a Di Gati, venne interrotto dalla polizia. Gli agenti arrestarono quindici persone, tra cui un medico analista, consigliere provinciale di Forza Italia. Ma - hanno raccontato i pentiti successivamente - Di Gati riuscì a fuggire prima della cattura. A sponsorizzarlo era stato Nino Giuffrè che, incurante dei voleri di Provenzano, che al suo posto voleva Falzone, ne aveva caldeggiato la candidatura. Quando Di Gati seppe che il capo di Cosa nostra non aveva visto di buon grado la sua nomina ebbe paura e chiese un incontro con il rivale. I pentiti dicono che allora fu lui a decidere di mettersi da parte facendo posto all'uomo designato dal padrino di Corleone.
26/11/2006
Fonte: La Sicilia

sabato, novembre 25, 2006

Il pizzo dal carcere

PALERMO - L'ordine di raccogliere il pizzo alle vittime di turno, dall'edicolante al meccanico, dal negoziante all'imprenditore, arrivava direttamente dal carcere. E' uno dei retroscena emersi dall'operazione antimafia condotta dalla guardia di finanza di Palermo, che all'alba di oggi ha portato all'arresto di due persone, Giusto Lo Bocchiaro, 32 anni e Adolfo Burgarello, 29 anni. A dare le indicazioni per la raccolta delle estorsioni è il padre di Giusto Lo Bocchiaro, uno dei due uomini finiti in carcere questa mattina con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.Secondo quanto emerso dalle intercettazioni ambientali raccolte dagli investigatori dal carcere, Giuseppe Lo Bocchiaro, in carcere perché ritenuto affiliato alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù di Palermo, avrebbe dato al figlio Giusto indicazioni specifiche in particolare sulla gestione delle scommesse clandestine e sulle estorsioni."Su specifica richiesta del padre, e alludendo chiaramente all'autorizzazione concessa per la raccolta del pizzo - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare - Giusto Lo Bocchiaro riferisce al padre che è stato 'Zù Petrino' a dire di raccogliere i soldi". E i negozi che secondo Lo Bocchiaro padre si dovevano "mettere in regola" erano "un mare", cioè numerosi. Sarebbe stato lo stesso Giusto, adesso finito in carcere, a recarsi personalmente in un negozio "per chiederne", scrive il gip, "la cosiddetta messa ini regola". Nella conversazione, Giuseppe Lo Bocchiaro, non sapendo di essere intercettato e utilizzando comunque un linguaggio criptico, chiede al figlio di stilare una vera e propria lista di negozi.Nel corso delle indagini, la polizia giudiziaria della Finanza ha identificato anche gli esercizi commerciali vittime delle estorsioni. In particolare, si tratta del negozio di ricambi di moto Castaldi di via Oreto, dell'impresa individuale Barione di via Bergamo, sempre a Palermo, e dell'impresa individuale Ballotta di via Bergamo.Nelle conversazioni intercettate in carcere Giuseppe Lo Bocchiaro parla con il figlio di soldi che sono stati divisi tra lui e altre persone. E ancora, è il 23 dicembre del 2004, quando Giusto Lo Bocchiaro riferisce al padre "di avere ricevuto il permesso da terzi - scrive il gip nell'ordinanza - per prendere dei soldi da destinare ai suoi bisogni e a quelli della madre".
25/11/2006
Fonte: La Sicilia

Confronto Aiello - Borzachelli

PALERMO - E' durato circa mezz'ora il confronto in aula fra l'imprenditore della sanità privata Michele Aiello, accusato di associazione mafiosa, e il maresciallo e deputato regionale, Antonio Borzacchelli, sotto processo per concussione e rivelazione in concorso di segreto d'ufficio.
I due sono stati fatti sedere l'uno accanto all'altro davanti ai giudici della seconda sezione del tribunale che stanno processando Borzacchelli. Durante il confronto sono stati affrontati i punti che riguardano in particolare le somme di denaro che Aiello avrebbe versato al maresciallo in cambio di informazioni riservate o di favori "burocratici" presso gli uffici regionali della Sanità o l'Assemblea regionale siciliana.
Rispondendo alle domande dei propri difensori, Borzacchelli ha detto che nel periodo di Natale del 2001, Aiello gli mandò una confezione di bottiglie di champagne. "Ma in realtà dentro non c'erano le bottiglie - ha detto -, bensì 50 milioni di vecchie lire. Aiello mi disse: 'Io sono fatto così'".
L'imputato durante l'interrogatorio ha ribadito che tra lui e l'imprenditore c'era una società di fatto: "Io mi occupavo della parte burocratica e amministrativa della gestione del centro diagnostico Santa Teresa e lui si era affidato a me". "A me toccava il 5%. - ha continuato -. Eravamo talmente amici io e Michele che non c'era bisogno di fare una scrittura privata: In lui avevo una fiducia cieca".
Aiello durante il confronto si è rivolto a Borzacchelli dandogli del lei, mentre l'ex maresciallo l'ha chiamato "caro, Michele". L'imprenditore ha confermato quanto aveva detto in precedenza ai giudici in riferimento ad alcune fughe di notizie attraverso le quali avrebbe appreso nel dicembre 2002 da Borzacchelli che il pentito Nino Giuffrè stava facendo dichiarazioni su di lui agli investigatori.
Borzacchelli ha replicato dicendo: "Confermo di avere parlato nell'ottobre del 2002 a Michele di Giuffrè, ma è stato solo dopo che erano usciti i primi articoli di stampa che parlavano della sua collaborazione. In quella circostanza, sapendo che Aiello aveva pagato sette milioni di pizzo, gli consigliai di andare a parlare con i carabinieri di Termini Imerese, competenti per territorio, ma lui si rifiutò. Commentammo insomma solo un articolo di stampa, io non parlai di indagini segrete".
Aiello ha contrattaccato replicando di avere appreso dall'ex maresciallo di avere il telefono sotto controllo. "Non ho mai detto ad Aiello che i telefoni della società erano intercettati", ha risposto l'imputato.
Messi uno di fronte all'altro, l'imprenditore ha ricordato al sottufficiale i particolari su inchieste da lui appresi. "Mi disse - ha spiegato ai giudici - 'Vedi che c'è accanimento su di te'". Ma ancora una volta Borzacchelli ha smentito. L'imprenditore ha ricordato anche altre rivelazioni di notizie che sarebbero state fatte da Borzacchelli: "Nell'estate del 2003 - ha detto Aiello - mi disse in un primo momento che le indagini si stavano chiudendo positivamente per me, poi invece, subito dopo, ha detto che c'era un vero e proprio accanimento nei miei confronti". "Mai parlato di inchieste", gli ha fatto eco il sottufficiale.
Aiello ha negato inoltre di essere stato socio di Borzacchelli nel centro diagnostico di Bagheria. "Lo escludo categoricamente - ha affermato -. Il signor Borzacchelli non è ben informato. Mi sembra assurdo che io potessi dargli il 5 per cento delle mie società senza averne prima parlato con gli altri soci, tra cui mia moglie e mia sorella. Non c'era alcun accordo".
24/11/2006
Fonte: La Sicilia

Condannati ex Presidenti della Regione

PALERMO - I giudici della corte di appello di Palermo hanno condannato gli ex presidenti della Regione siciliana Giuseppe Provenzano e Giuseppe Drago a tre anni di reclusione per peculato. Erano accusati di aver incassato, senza rendicontarli, fondi riservati che erano a loro disposizione. I giudici hanno ridotto rispetto alla sentenza di primo grado, di tre mesi la pena, ma non hanno applicato l'indulto. Il processo riguardava il periodo in cui Provenzano e Drago sono stati alla guida del governo regionale e si sono appropriati di 200 milioni di vecchie lire. I due politici hanno sempre sostenuto che le somme sono state date in beneficenza.
24/11/2006
Fonte: La Sicilia

giovedì, novembre 23, 2006

Riparte il processo a Ciancimino jr

Palermo, 22 nov. - (Adnkronos) - Riprende oggi davanti al giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Palermo Giuseppe Sgadari l'udienza del procedimento che vede imputato Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino. Imputati anche la madre di Massimo Ciancimino, Epifania Scardino e gli avvocati Gianni Lapis e Giorgio Ghiron. Previste le repliche dei pm Roberta Buzzolani e Michele Prestipino alle eccezioni difensive.
Fonte: Adn Kronos

E Cuffaro contribuiva.....

Palermo, 21 nov. - (Adnkronos) - Le strade interpoderali erano una vera e propria miniera d'oro per l'imprenditore Michele Aiello. In poco meno di un ventennio, l'imputato chiave del processo alle 'talpe' della Procura di Palermo, accusato di associazione mafiosa, ha realizzato 289 strade in tutta la Sicilia, ottenendo un utile di circa undici miliardi di vecchie lire. Soldi che, si scopre oggi, a quanto emerge dal processo, potrebbero non essere stati neppure dichiarati al fisco. A parlare in aula dei redditi milionari e della probabile evasione fiscale di Aiello, e' un teste citato dalla stessa difesa dell'ex magnate della Sanita', accusato di essere prestanome del boss Bernardo Provenzano. Una deposizione fiume in cui il dottore commercialista Salvatore Errante Parrino, che dopo l'arresto di Aiello e' stato chiamato dallo stesso imputato a fare i conti in tasca alle sue societa', ha ripercorso l'attivita' imprenditoriale di Aiello a partire dalla fine degli anni Settanta fino al suo arresto. E' lo stesso commercialista a spiegare, durante la sua testimonianza, all'avvocato Sergio Monaco, legale di Aiello, il funzionamento dei finanziamenti delle strade interpoderali. ''Per ogni strada - ha spiegato - la Regione Siciliana finanziava mediamente 400 milioni di vecchie lire. Alla fine, detraendo i costi, restava un utile medio di circa il 10 per cento, cioe' di 40 milioni di vecchie lire, ma che poteva aumentare anche fino a cento milioni. Aiello ha realizzato 289 strade interpoderali...''.
Fonte: Adn Kronos

Fermato presunto boss

CALTANISSETTA - I carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale di Caltanissetta hanno sottoposto a fermo di indiziato di delitto Francesco Ghianda, di 46 anni, ritenuto il reggente del clan mafioso di Mazzarino, paesino della provincia di Caltanissetta. Il provvedimento è stato disposto dai pm della Dda, Nicolò Marino, Rocco Liguori e Alessandro Picchi, coordinati dal procuratore aggiunto Renato Di Natale.Gli investigatori sono arrivati ad individuare Ghianda come il reggente della cosca mafiosa attraverso intercettazioni e alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Ghianda è ritenuto al vertice del clan "Siciliano" di Mazzarino, che rappresenta un'articolazione periferica di Cosa nostra, in sostituzione del capo storico, Salvatore Siciliano, condannato all'ergastolo e detenuto.Francesco Ghianda è fratello di Liborio Ghianda, il netturbino assassinato a Gela il 4 ottobre 2005, in un agguato mafioso, un mese e mezzo prima che venissero uccisi Luca Giordano e Salvatore La Leggia, due incensurati uccisi a colpi di pistola a Mazzarino.
23/11/2006
Fonte: La Sicilia

Confermate le condanne dei "generali" di Provenzano

La prima sezione della Corte di Cassazione ha confermato le condanne nei confronti di Pino Lipari, dei figli e del genero, ritenuti colpevoli di associazione mafiosa, come fiancheggiatori di Bernardo Provenzano. Condannato pure, fra gli altri, il cognato del superboss, Paolo Palazzolo, di Cinisi. La sentenza di primo grado era stata emessa l’8 giugno dell’anno scorso. Pino Lipari, l’ex geometra dell’Anas che era il braccio destro di Provenzano nel campo degli appalti e degli affari, non tornerà comunque in carcere: è stato infatti già liberato per avere scontato l’intera pena che gli era stata inflitta. Discorso diverso per i figli, Arturo, architetto, e Cinzia Lipari, avvocato, che avevano trascorso alcuni mesi in stato di custodia cautelare, ma anche per Giuseppe Lampiasi, marito dell’altra figlia di Lipari, Rossana. La sentenza nel dettaglio, posizione per posizione: Vito Alfano ha avuto 4 anni, Carmelo Amato 5, Andrea Impastato e Giuseppe Lampiasi 4 anni ciascuno, Arturo e Cinzia Lipari 5 ciascuno, Filippo Lombardo 1 anno e 4 mesi, Paolo Palazzolo 8 anni (in continuazione con precedenti condanne), Salvatore Tosto 4 anni. Lipari padre ha avuto invece 11 anni e 2 mesi, ma con il meccanismo della continuazione.
Fonte: Kataweb

11 energie per spiegare la mafia

«Cani di bancata» sono i randagi che si nutrono degli avanzi dei banconi del mercato, in senso lato i parassiti, per Emma Dante i mafiosi. La regista e autrice palermitana li ha eletti a simbolo di un microcosmo mostruoso governato da una feroce madre-cagna (il Mammasantissima) che educa i suoi «cuccioli» a conquistare l'Italia non più con la violenza spicciola, ma con la politica, l'economia e il mescolarsi alla gente comune. Una tavola, 11 sedie e poco altro bastano a raccontare questa amara parabola su Cosa Nostra grazie soprattutto all'affiatamento e all'energia degli 11 protagonisti, inquadrati con intelligenza registica in una partitura fisica di grande efficacia, che ben bilancia qualche scivolone didascalico del testo. INFORMAZIONI «Cani di bancata», Crt-Teatro dell'Arte, fino al 26 novembre. Ore 20.45, fest. 16, v.le Alemagna 6, tel. 02.89.01.16.44, euro 18-9.
Fonte: Corriere della sera

Omicidio La Torre

Il sostituto procuratore generale di Palermo Daniela Giglio ha chiesto la conferma delle condanne all’ergastolo nei confronti di Giuseppe Lucchese e Nino Madonia, imputati dell’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, uccisi a Palermo il 30 aprile del 1982, da un commando di killer di Cosa Nostra. La richiesta è stata avanzata alla prima sezione della Corte d’assise d’appello. I due superkiller erano stati condannati il 28 giugno del 2004, dopo le accuse dei pentiti che li avevano indicati tra i componenti il commando che uccise il segretario del Pci e il suo collaboratore. Nell’udienza di oggi hanno parlato anche gli avvocati di parte civile per i familiari, per i Ds e per la Provincia di Palermo, gli avvocati Fabio Lanfranca, Fausto Amato, Ettore Barcellona, Monica Genovese, Amelia Polizzi e Cetty Pillitteri.
Fonte: Kataweb

Proprio dell' UDC...che caso.....

TRAPANI - Il gup Antonella Consiglio ha condannato i politici trapanesi Onofrio Fratello e Vincenzo Laudicina, entrambi ex Udc, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il primo ha avuto inflitta una pena di un anno e sei mesi, il secondo un anno di reclusione. I due hanno scelto il patteggiamento. Fratello è accusato di avere effettuato accordi con i boss mafiosi trapanesi per la ricerca di voti durante le campagne elettorali e per le amministrative di Marsala del 2001. A Laudicina il giudice ha concesso circostanze attenuanti per avere ammesso alcuni episodi. L'accusa è stata sostenuta dai pm della Dda Massimo Russo e Roberto Piscitello.
23/11/2006
Fonte: La Sicilia

Due arresti a Gela

Palermo, 21 nov. (Apcom) - Due presunti esponenti di Cosa nostra a Gela (Caltanissetta), Emanuele Terlati, 29 anni, e Salvatore Azzarelli, 31 anni, sono stati arrestati dalla squadra mobile di Caltanissetta con l'accusa di tentata estorsione aggravata. Terlati detto 'Nele Pracchia' e Azzarelli inteso 'U Maccarruni' secondo il collaboratore di giustizia Salvatore avrebbero compito di estorcere denaro ad una associazione temporanea di imprese che operava a Gela. Nel corso delle indagini, che lo scorso anno hanno portato in manette anche un esponente della stidda', è emerso che la stessa Ati era stata fatta oggetto di una azione estorsiva da parte quella organizzazione.
Terlati e Azzarelli negli ultimi mesi del 2004 si erano presentati nel cantiere dell'ATI in questione e avevano testualmente chiesto al direttore tecnico 'come erano messi'. Il tenore della domanda e le modalità della stessa, nonché l'atteggiamento tenuto dai due soggetti, non lasciavano dubbi circa l'oggetto della stessa.Pertanto, il titolare dell'impresa, metaforicamente, aveva fatto presente ai suoi interlocutori che già stava pagando "un santo", e che non era sua intenzione pagarne due. Azzarelli e Terlati, avendo capito immediatamente, ed avendo appreso che il "santo" cui l'imprenditore stava pagando il pizzo era "Enrico" (Enrico Maganuco esponente della Stidda, arrestato lo scorso anno ndr.), dopo aver verificato la notizia dell'avvenuto pagamento, avevano quindi assicurato all'imprenditore medesimo che "tutto era a posto", dal momento che era già intervenuto "Enrico" ; quindi erano andati via senza far più ritorno. Le indagini evidenziavano come l'estorsione di Maganuco in danno dell'ATI avesse generato malumori all'interno delle cosche mafiose gelesi, in quanto lo stesso non l'aveva registrata nel libro mastro delle estorsioni,tentando, forse, di tenerne per sé il ricavato o comunque a favore della sola stidda. Ciò aveva irritato cosa nostra e dopo la "visita" di Azzarelli e Terlati l'estorsione in danno dell'ATI venne debitamente registrata, così da dividerne i proventi in favore di ambedue le consorterie di cosa nostra e stidda.
Fonte: virgilio.it

Articolo di Saviano

Danilo Dolci nel 1956 a Partinico stava ristrutturando una strada dissestata come forma di protesta. Una sorta di sciopero attivo, una rivolta rovesciata. Se a Sud si doveva marcire nella disoccupazione, Dolci proponeva di attivarsi, iniziare a fare, rendere accessibile ciò che non lo era. Iniziare a farlo ristrutturando strade, quelle che avrebbe dovuto mettere a posto il comune. Lo faceva lui assieme ai suoi disoccupati. La polizia arrivò sul luogo e arrestò tutti. Si racconta che un poliziotto gli si avvicinò dicendogli: "Signor Dolci, ma perché non torna a casa a scrivere i suoi libri invece di farsi arrestare?". Come dire, torni alla sua più innocua attività e tutti vivremo più tranquilli. Dopo aver perquisito molti disoccupati-lavoratori, i poliziotti videro che tanti avevano nelle tasche e a casa gli scritti di Dolci. Lo stesso poliziotto, dopo averlo arrestato, lo avvicinò ancora in manette dicendogli: "Signor Dolci le troveremo un lavoro duro, così finalmente smetterà di scrivere questi libri che ci creano solo guai!". Quel poliziotto aveva in una manciata di ore cambiato idea perché aveva esperito il peso specifico della parola.
La cosa che genera scandalo è che uno scrittore, il mestiere considerato più innocuo e incapace di poter avere alcun tipo di forza sulla realtà, possa d'improvviso divenire responsabile di una luce che prima era sbiadita e sbilenca, di uno sguardo infame che spiffera ciò che si vuole celato, che urla quello che è sussurrato, che traduce in sintassi e insuffla vita a quello che prima era disperso in frasi frammentarie di cronaca e sentenze giudiziarie. La vita o la si vive o la si scrive, diceva Pirandello, eppure ci sono momenti in cui la vita, la si scrive per mutarla. Ciò che mi è capitato in questi giorni ha generato apprensione e scandalo, ma in realtà non per quello che è accaduto - dalle mie parti ciò che mi è accaduto capita a moltissime persone, quotidianamente e per molto meno - ma perché è accaduto a uno scrittore. Per uno scrittore il modo per innestarsi nel reale è raccontarlo. È uno scrittore che può congetturare, immaginare ciò che non vede. La sua immaginazione e la sua congettura però non seguono l'arbitrio della licenza poetica, ma sono strumenti necessari per avvicinarsi ancora più al vero in ciò che osserva: oltre ai nomi, ai documenti, alle sentenze, alle intercettazioni, ai fatti rispettati e ripresi. Quando racconti un processo, quando raccogli la cronaca nera, quando ascolti le intercettazioni comprendi che l'unico modo per capire è raccontare tutto questo come parte di un corpo che nasconde i suoi organi. E d'improvviso quello che nel perimetro di certe zone conoscevano tutti, passandosi le storie di bocca in bocca, impastandole di particolarità soggettive e leggende, quello che finiva negli articoli di cronaca, quello che sembrava essere territorio di addetti ai lavori, operatori sociali invisibili ed esperti sociologi dell'antimafia, diviene il racconto di un intero paese, l'epica fascinosa e terribile di un capitalismo vincente che vede nel cemento, nei trasporti, nel tessile, nei subappalti, nei rifiuti, nella distribuzione e in quant'altro possa creare respiro al profitto, il proprio sterminato territorio di conquista.
Pierluigi Vigna, quando era procuratore nazionale Antimafia, dichiarò che era di 100 miliardi di euro il profitto annuale dei maggiori gruppi criminali italiani. Una cifra che lo stesso procuratore segnalò essere riscontrata per difetto. Nessuno tremò per questa cifra. Nessuno trema se la Germania segnala che negli ultimi anni 90 milioni di euro sono stati investiti dalla 'ndrangheta nel settore turistico e immobiliare. Nessuno trema nel pensare che la più grande azienda italiana è formata dalla camorra, dalla 'ndrangheta, da Cosa Nostra e dalla Sacra Corona Unita. E anche se qualcuno inizia a tremare, sembra che riesca a farlo solo per qualche giorno, per qualche settimana, fino a quando i fatti inanellati in cronaca di emergenza non vengono soppiantati da emergenze nuove. D'improvviso mi sono fermato in questi giorni, fermato da una sorta di ansia, e anche una sorta di svuotamento, quando vedevo un'attenzione a una terra, costante, che desideravo ci fosse stata da sempre, prima che galleggiassero in superficie gli elementi del disastro. E giravo intorno a una domanda rivolta a una potenza impersonale che ha gli occhi dei media, la testa della politica e le sembianze di me stesso: Ma dov'eravate? Dov'eravate quando si ammazzavano due persone al giorno. Dov'eravate quando si concludeva il processo Spartacus presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) - 21 ergastoli e oltre 500 anni di reclusione, più di sette anni di dibattimento passati in silenzio sulla stampa nazionale. Dov'eravate quando i magistrati, come Raffaele Cantone, portavano avanti indagini che dimostravano chiaramente che erano l'Emilia Romagna e Roma i centri degli affari del clan dei Casalesi, dov'eravate quando Tano Grasso attraversava in lungo e in largo la Campania, cercando di raccogliere forze, persone, associazioni in una battaglia alle vecchie e nuove forme di racket e controllo del territorio. Dov'eravate quando giornalisti della mia terra venivano sistematicamente minacciati, come Rosaria Capacchione che entrò nel mirino dei clan a causa dei suoi articoli - secondo il pentito Luigi Diana - venne condannata dal boss Vincenzo De Falco, fratello del mandante dell'omicidio di don Peppino Diana, ma il boss fu eliminato prima di realizzare il suo piano, quando Enzo Palmesano riceveva proiettili nella cassetta della posta per il suo impegno di cronista contro i clan mafiosi presenti nell'Agro-caleno. Dov'eravate quando qui crepavano innocenti, come Attilio Romanò, colpevole di essere dipendente di un negozio che i clan hanno creduto essere ascrivibile a un parente lontano di un camorrista, quando nel 2002 spararono in faccia a un sindacalista, Federico Del Prete, e la notizia neanche giunse sulla stampa nazionale. Per anni, quando si scriveva di queste cose al di fuori del lecito territorio della cronaca, la voce era la stessa, si veniva presi per matti, malati, figli di un passato lontano. Mi sembrava di sentire le parole dell''Huckleberry Finn' di Mark Twain, quando d'improvviso, dopo uno scoppio in una stiva, qualcuno chiede: "Che cosa è successo?" e rispondono: "Niente, è morto un negro". Niente. E l'acido razzismo è simile al niente che veniva battuto come dispaccio dal Sud. Dispacci di guerre senza storia, di vicende di margine, un niente da seppellire sotto le mostre di quadri, i vernissage museali, un niente che è molto simile e non soltanto speculare al 'succede di tutto' che viene pronunciato nei giorni d'emergenza. Niente, perché riguarda feccia. Non è successo niente. Ma non è vero.
Penso spesso a come devono essersi sentiti molti magistrati campani quando, chiudendo il più importante processo di mafia degli ultimi anni, il processo Spartacus, superando difficoltà logistiche e cavilli politico-giudiziari, hanno visto la loro sentenza ignorata per larga parte. Penso spesso al giudice Lello Maggi, a quando si è trovato a scrivere la sentenza, e nelle prime pagine fa cenno alla figura di uno scrittore che sarebbe stato in grado di raccontare quel che lui stava per analizzare con gli strumenti e i parametri della disciplina giuridica, raccontare quel potere che non riguardava soltanto gli spazi di un territorio di provincia, e non soltanto il sangue delle centinaia di ammazzati, ma riguardava molto di più. E Raffaele Marino, uno dei magistrati in prima linea nella lotta alla camorra napoletana, quando gli chiesi se lui non ritenesse in fondo innocua una narrazione basata sui fatti che lui stesso contribuiva ad accertare, mi rispose: "La scrittura letteraria non è innocua per niente, ha rotto una delle croste che relegavano questi meccanismi e questi poteri a una mortale dialettica tra magistrato, camorrista, tribunali e cronaca nera. La città, l'intero paese credeva di esserne escluso, credeva che tutto fosse relegato a una trascurabile parte del territorio. Ora ha lasciato quest'esilio e ha coinvolto tutti. Nessuno può più sentirsi escluso".
In tutti questi anni, mentre persino la guerra di Secondigliano non riusciva ad avere la stessa visibilità dei fatti riportati in questi giorni, a Napoli e intorno a Napoli continuava a formarsi e trasformarsi un modo nuovo per raccontare quel che stava accadendo. Come se fosse divenuto un imperativo necessario iniziare a raccontare quel che stava sotto gli occhi. Così Maurizio Braucci, scrittore in grado di farsi accompagnatore di ragazzi di quartiere, capace di tenerli lontani dal Sistema non strappandoli dalla loro vita, ma dandogli strumenti per scegliere di andare avanti senza la sola certezza di giocarsi la morte come vantaggio sugli altri per fare affari, capace come nessun altro di tradurre in narrazione la conoscenza di una vita spesa nel cuore della città. E poi le foto di Mario Spada, foto senza curiosità esotica che puntano l'obiettivo sulla ferocia, ma senza farne scandalo, quasi con familiarità. E i video di Pietro Marcello che raccontano la silenziosa emigrazione notturna dal Sud verso il Nord dei treni espresso, le nuove rapaci borghesie corrotte raccontate nella deformazione pantagruelica di Giuseppe Montesano, lo sguardo sui ragazzini di Diego De Silva che sembrava annunciare quello che sarebbe di lì a poco diventata una realtà molto più estesa e feroce, le donne di Valeria Parella strappate alla patina d'ogni folklore, le città distratte e soffocanti di Antonio Pascale, i deliri della terra dei terremoti e della Pozzuoli infernale di Davide Morganti, i primi libri che mettevano mani nel fango di Peppe Lanzetta. I gruppi rap, gli A67 e i Co' Sang', che nascono non più nei centri sociali, ma nelle periferie di camorra, che danno voce a una rabbia che non è più soltanto contro qualcosa, ma dentro, che parlano per e contro quelli cui vivono accanto, a cui appartengono, che sono come loro. Tutti loro hanno trovato modi nuovi e non concilianti per raccontare il proprio tempo e agire in esso. Sguardi diversi, linguaggi differenti che deformano il reale per scarnificarne le verità e lo inchiodano con freddezza e lo urlano con rabbia, ma tutti nati e vincolati da un territorio che così raccontato non è più soltanto Napoli, ma qualcosa che ha a che fare con le dinamiche di ogni metropoli occidentale dove si vanno foggiando nuove e rapaci piccole borghesie, incoscienti di essere piccole, ma ben coscienti di come si fa ad affermarsi e di quali mezzi usare. Ed è in questa Napoli visibile sempre solo nel singolo libro, disco o film che riesce ad avere successo oltre i confini locali, mai però come movimento esteso e costante, come humus che stava generando una cultura capace di mostrare e anticipare meglio di ogni altra fonte più oggettiva quel che stava e che doveva ancora accadere, che mi sono formato. Da tutto questo le mie parole scritte sono state create e non vorrei che continuasse a essere ignorato, così come non vorrei che si parlasse oggi di camorra per continuare a ignorare la rete ampissima in cui tutte le organizzazioni criminali avvolgono e coinvolgono tutto il paese e l'Europa intera. Della cultura e dell'immaginario nato nel ultimo decennio a Napoli e dintorni, nato insieme e accanto alla trasformazione turbocapitalista dei clan campani, nei resoconti e commenti dei media nazionali e internazionali delle passate settimane non v'era quasi traccia. È stato strano ascoltare alcune parole che il mio libro aveva contribuito a divulgare - il termine 'Sistema' usato dai clan per definire la camorra è l'esempio perfetto - e percepirle come un abito nuovo calato addosso a un corpo vecchio e decrepito. Un immaginario completamente sbagliato. Quel che sta avvenendo a Napoli viene fissato da uno sguardo che non si spinge oltre al cerchio della città, non contempla quasi mai nemmeno i comuni della provincia con i suoi clan potentissimi da decenni, ma cerca di risolvere il tutto allacciando il filo della storia, come se l'oggi fosse l'ultimo frutto impazzito della vittoria del popolo sanfedista sull'aristocrazia giacobina di Eleonora Fonseca Pimentel e Domenico Cirillo. Il trionfo drogato della suburra, un delirio da disperati. Prima che me ne andassi dai Quartieri Spagnoli, vedevo che i clan del centro storico meno potenti si stavano riorganizzando. E il primo passaggio è stato quello di ritornare sul territorio, negozi, magazzini, salumerie, le nuove leve dei clan stanno invece pensando a come tornare ad apparire mediaticamente i più temibili, divenire nuovamente quelli appartenenti al quartiere che più fa paura: "Dobbiamo far vedere a quelli di Scampia che noi siamo i peggio". Il medesimo stile che sta facendo comprare a moltissimi ragazzi dell'area nord di Napoli lo scooter T-max perché usato dalle paranze di fuoco dei Di Lauro per la parte maggiore degli agguati, una sorta di cavallo meccanico dell'apocalisse. Ma la loro ferocia è la medesima di chiunque possa considerarla uno strumento per crescere economicamente, iniziare un percorso nel mercato. L'ossessione del divenire commercianti e imprenditori, e di considerare lecita ogni forma per raggiungere una meta, l'ossessione che, rendendoli rivali, accomuna non solo i quartieri storici del centro alle periferie e ai paesi del hinterland, ma apparenta Napoli a Mosca o a Rio de Janeiro e mette in relazione le bande che rubano ed estorcono con l'uso di una violenza spropositata, strafatta, adrenalinica con le gang che dilagano per il Centro e Nordamerica, in Africa, in ogni altra parte del mondo.
È questo, qui e altrove, che rende la ferocia un arnese del successo. È questo ciò che viene occultato quando si usano ancora parole come 'plebe', 'lazzari' o 'subculture'. Si parla di subculture, ma la musica dei neomelodici viene ascoltata in tutto il Mezzogiorno, anzi in tutta Italia, e alcune delle loro canzoni, tra cui quelle scritte da Lovigino Giuliano, il boss di Forcella, entrano nella hit parade, rimbalzano nei villaggi turistici, finiscono in tv come se fossero esistite da sempre e per tutti. Plebe è parola che tiene a distanza, che esprime il rifiuto di annusare, di fissare da vicino qual è la forza, la logica, ma anche le contraddizioni, le vulnerabilità, le violente trasformazioni che subiscono coloro che si trovano così definiti, parola che la letteratura per istinto vitale rigetta come chi non vuole farsi curare la febbre coi salassi. Plebe perché sembra impossibile che le gang che fanno rapine siano altro che una forza oscura che contamina la città con la paura e la ferocia, perché sembra impossibile che la contaminazione non conosca limiti di classe, perché sembra molto più rassicurante individuare una direzione unica del contagio in corso. Ma quando i boss scrivono libri, discettano di psicoanalisi, investono in opere d'arte, quando fanno crescere nuove leve istruite alle università, quando si dimostrano capaci di gestioni e investimenti sofisticati, di strategie economiche lanciate su scala mondiale, come è possibile non vedere che sono altro di quel che è sempre stato, non accorgersi che la loro vittoria in queste e simili terre ha un peso e una forza d'attrazione quasi irresistibile? Nulla è statico, delimitato, univoco, nel mondo e nel tempo stravolto in cui si trova Napoli. Nulla comincia dove comincia, nulla finisce dove finisce. I rifiuti, le montagne di rifiuti, la monnezza napoletana divenuta simbolo del disastro, ficcata dentro a colori forti e odori nauseabondi in ogni articolo scritto da Roma a Londra, Parigi e Berlino, l'assurdo dei rifiuti campani spediti d'emergenza al Nord, persino in Germania, mentre le aziende di Veneto, Lombardia e persino Toscana come dimostrano le inchieste della Procura di Santa Maria Capua Vetere, hanno sversato da oltre trent'anni in Campania e più allargatamente nel Mezzogiorno i loro veleni, quando le organizzazioni ambientaliste, le iniziative locali hanno gridato invano che stava avvenendo una contaminazione catastrofica che avrebbe contagiato tutto: terre, coltivazioni, bestie e uomini destinati a crepare di cancro come di una nuova peste moderna. Quando si attraversa la campagna casertana piuttosto che quella calabrese, in molte zone senti gli odori marci, i sapori rancidi o corrosivi. E tutto questo brucia. Ti brucia dentro, rovente. L'immagine dei rifiuti tossici intombati e bruciati nelle campagne campane e calabresi è l'esatto rovescio dell'immagine dei rifiuti ammonticchiati e bruciati nei cassonetti napoletani, l'immagine che dice che il problema della criminalità e del degrado puzza fino al cielo e scava sotto terra ed è di tutti: di tutto il paese, di tutta la politica che lo governa. E ora non possono non far nulla.
Ogni regione che ha ospitato aziende che hanno avvelenato facendo appalti con i clan dovrebbe prendere parte alla bonifica del territorio. E la politica campana dovrebbe confrontarsi con i suoi errori madornali, gli sprechi e gli affari sui rifiuti. Eppure ciò che la camorra dimostra è che il paradigma politico-mafioso è ribaltato. Si credeva che la politica fosse il volano per la crescita dei clan. Ora i clan hanno egemonizzato la possibilità di decidere gli affari e, a partire dagli affari, tutto ciò che ne consegue. Così accade che i clan riescono a tenere la politica in pugno senza, come in passato, legarsi direttamente a un politico o cercare alleanze stabili con una parte politica, e invece scelgano di volta in volta come conviene. E non vale più soltanto il meccanismo politica-appalto-impresa criminale, ma sempre più quello contrario: impresa criminale-appalto-politica. L'impresa criminale è così potente e presente in ogni ambito che vince appalti e condiziona qualità e prezzi e divenendo vincente, determina la politica: usandola e non essendone usata. E sempre più il territorio criminale è un territorio così labile che ha l'immagine dell'intermittenza. Ormai la politica si rapporta sempre meno ai bisogni e ai desideri delle persone. Si passa da una dichiarazione all'altra, da una decisione spettacolare all'altra. I politici spesso non conoscono più il territorio, non ascoltano, non sanno cosa sta accadendo, ma ne danno interpretazione. La politica quando inizia a spartire posti, quando in cambio di favori e lavoro riceve voti, quando appalti e sanità divengono miniere in cui racimolare consenso e ricchezza, già si predispone alle logiche da clan, e in queste logiche, i clan vivono si alimentano e trionfano.
Così può accadere nel Mezzogiorno che le regioni con i gruppi criminali più potenti d'Europa possono senza problema alcuno vedere vincitori l'intera compagine dell'arco parlamentare. Si è creduto per troppo tempo che dopo tangentopoli la stagione dei clan egemoni in ogni parte della vita economica e sociale del paese fosse circoscritta e relegabile ad alcuni territori geografici e politici, ma i clan entrano vincenti nel mercato, entrano nel cemento, nei trasporti, nel tessile, nelle forniture, mercati, carni, benzina, entrano nella finanza e nell'economia globale, porte a cui nessuna politica si rifiuta di obbedire. Nessuna parte politica può sentirsi al riparo, nessuna parte politica può sentirsi innocente per ciò che accade. Tutto è da rifare. Ad oggi sembra esserci ancora nell'aria il sapore amaro delle parole di Antonino Caponnetto, quelle pronunciate dopo la morte di Paolo Borsellino: "È tutto finito". Ma per la scrittura non è mai tutto finito, la scrittura si alimenta della possibilità di equiparare veleno e zucchero, assaggiare come stanno le cose al di là di ogni categoria, al di là del buono e del malamente, con l'unica certezza che la rabbia espressa vale più di qualsiasi cosa e più del silenzio. Si racconta, come una leggenda, ciò che disse don Peppino Diana, il prete ucciso dalla camorra nel 1994, una volta mentre celebrava un funerale e le stesse parole furono poi di don Tonino Bello. Don Peppino era stanco di celebrare funerali in una terra che aveva il primato per morti ammazzati e morti bianche sul lavoro. Iniziò così la sua provocazione: "A me non importa sapere chi è Dio". Non è difficile immaginare il brusio delle navate di una chiesa di paese che sente pronunciare tali parole roventi: "Mi importa sapere da che parte sta". Avere una parte, essere in grado di capire ancora che natura ha un paese, in che condizioni si trova, come avvicinarlo con uno sguardo che voglia vedere, vedere per capire, per comprendere e per raccontare. Prima che sia troppo tardi, prima che tutto torni ad essere considerato normale e fisiologico, prima che non ci si accorga più di niente.
Roberto Saviano
Fonte: L'Espresso

mercoledì, novembre 22, 2006

Che novità......

PALERMO - Che Bernardo Provenzano in qualche modo lo stimasse e che lo considerasse uno dei suoi più valenti collaboratori è ormai un dato di fatto. "Lei dice che sono migliore di lei? No, non sono migliore, io mi rivedo in lei e credo nella nostra causa. Sono cresciuto in questo e così sarò fino alla morte", rispondeva il capomafia di Trapani, Matteo Messina Denaro, al padrino in uno dei pizzini trovati nel covo di Corleone. Adesso, l'ultimo rapporto della direzione investigativa antimafia sull'azione di Cosa nostra nel trapanese, conferma la leadership di colui che viene considerato uno dei successori del capo dei capi catturato l'11 aprile."Nonostante la pesante azione repressiva dello Stato che di fatto ha disarticolato gli organigrammi interni delle cosche locali - si legge nel dossier - l'organizzazione continua a mantenere un penetrante controllo del territorio e a riscuotere consensi tra l'opinione pubblica". Matteo Messina Denaro, in particolare, gode di una vasta rete di protezione, affermano gli esperti della Dia, composta da soggetti mafiosi, ma anche da "insospettabili" che operano in un contesto dove agire a favore della criminalità organizzata "viene avvertito come un comportamento dovuto".Forti i segnali di infiltrazione mafiosa nella pubblica amministrazione nella provincia, che resta divisa in quattro mandamenti: Trapani, Alcamo, Mazara e Castelvetrano, dove "si prediligono situazioni di non conflittualità e di convivenza con le istituzioni".
22/11/2006
Fonte: La Sicilia

Parla Sonia Alfano

“A pensarci bene, quel tesserino da professionista alla memoria di mio padre avremmo dovuto rifiutarlo. Mio padre faceva il giornalista ma non era un giornalista. Perché da vivo i giornalisti lo avevano lasciato solo. Perché il quotidiano per il quale scriveva, la Sicilia di Catania, lo censurava. Non pubblicava le notizie più inquietanti. Il livello di amarezza che ha dovuto subire mio padre prima di morire lo abbiamo scoperto solo da poco. Da quando ci hanno restituito i computer, gli hard disk con tutto quel che scriveva mio padre. Ci sono articoli mai pubblicati”. Il grido di dolore di Sonia Alfano al gruppo di lavoro per l’informazione di Contromafie è certo il più alto. Il più doloroso. Almeno per noi giornalisti. Per noi siciliani, un atto d’accusa che c’interpella personalmente. Beppe Alfano non aveva quel tesserino mentre indagava sulla latitanza dorata del boss dei boss catanese Nitto Santapaola e sui loschi affari di mafie e politica nel Barcellonese. Un quotidiano locale, sprezzante, scrisse in prima pagina “Ucciso il professor Alfano”. C’è poco da prendere le distanze da certi editori e dagli autori di certi titoli. Di fronte alla verità negata dei giornalisti uccisi dalle mafie tutti abbiamo qualcosa di cui vergognarci. Nessuno è senza colpa. Qui - tra le volte dell’università internazionale “Angelicum” che i padri domenicani hanno dedicato a san Tommaso d’Aquino, dove riecheggia il motto di san Domenico “Veritas” – dove si celebrano gli Stati Generali dell’Antimafia, gli unici innocenti sono loro, i parenti delle vittime. C’è il padre dell’agente Nino Agostino ucciso insieme alla moglie incinta. Papà Vincenzo non taglia la barba da quel 5 agosto dell’89 e sbotta: “Se lo Stato non risponde, per sapere chi ha ucciso mio figlio e mia nuora dovrò rivolgermi all’Antistato?”. Punto interrogativo trascurato in quasi tutte le ricostruzioni. Ma poco importa. Rabbia, dolore, provocazione ci sono tutte. Le colpe, in questo come in tanti altri casi, sono di chi mette a tacere, non di chi chiede giustizia e verità. Passi perduti nel chiostro domenicano alla ricerca di una veritas non pietosa ma piena e soddisfacente. Incontri Daniela Marcone, figlia del direttore dell’ Ufficio del Registro di Foggia, ucciso undici anni fa perché aveva iniziato verifiche e controlli sulle proprietà immobiliari. Verifiche che avrebbero portato a conoscere con esattezza, ad esempio, a chi appartengono effettivamente quei campi sui quali piegano la schiena immigrati irregolari e clandestini, bianchi e neri, uomini e donne, ridotti in schiavitù. Dove spariscono a decine quelli che vorrebbero serbare almeno la dignità. Per la giustizia il direttore Marcone è stato ucciso da un suo sottoposto che dopo aver trascorso qualche anno in carcere è tornato libero in attesa di giudizio. Ma a ben altro giudizio è stato poi destinato giacché è morto in un incidente stradale. Gli investigatori del Gico della Finanza, task-force antimafia delle fiamme gialle, hanno scritto a chiare lettere che Marcone è stato ucciso per essere rimasto solo nel suo desiderio di imporre un’etica dell’amministrazione pubblica in una pubblica amministrazione dove sono in molti a chiudere uno o tutte e due gli occhi pur di far carriera in santa pace. Luca Tescaroli, pm antimafia a Roma dopo aver tentato di scoprire a Caltanissetta i mandanti politici delle stragi di Capaci e via D’Amelio, viene qui all’Angelicum per puntare il dito contro quelli che definisce gli “uomini-cerniera” che stringono l’alleanza tra le zone grigie di società, economia e politica con le cosche mafiose. “Sono politici, banchieri, professionisti il cui scopo è quello di mascherare operazioni di riciclaggio; il loro contributo all’associazione mafiosa è fondamentale. Un esempio per tutti, Michele Sindona. Purtroppo questi concorrenti esterni non sono equiparati ai mafiosi nelle attribuzioni delle pene”. Tempi duri per gli innocenti riuniti all’Angelicum. Dario Montana è il fratello di Beppe, commissario di polizia ucciso dalla mafia mentre era sulle tracce di Bernardo Provenzano. Qui all’Angelicum ha ricevuto la telefonata del suo avvocato. La prefettura lo ha appena avvertito – singolare tempestività – che il risarcimento è bloccato perché gli uffici del governo non hanno riscontrato nel dispositivo di sentenza l’attribuzione formale dell’associazione mafiosa. Dario è un dirigente della Regione Sicilia, il fratello è medico: quest’ulteriore ritardo non inciderà sulla loro vita privata. “Penso invece – mi sussurra Dario con un velo di pudore per quelle istituzioni dello Stato per le quali il fratello ha immolato la giovane vita – ai sopravvissuti dei ragazzi delle scorte. Giovani, 28, 29 anni, che lasciano mogli giovanissime, figli piccolissimi… come faranno?”. Non sempre i processi portano a galla la verità. Nel nostro paese resta impunito oltre l’ottanta per cento dei reati denunciati. In Giappone solo il dieci per cento. E così gli innocenti, le Sonia, le Daniela, i Dario, vedono uccisi due, tre, quattro volte i loro cari colpiti dalle mafie. E c’è chi non prova alcuna vergogna nell’utilizzare le difficoltà della giustizia come strumento di lotta politica. Nell’ultima puntata di Anno Zero, condotto da Michele Santoro, proprio alla vigilia di Contromafie, il governatore della Sicilia, Totò “vasa vasa” Cuffaro, si è rivolto senza alcun rispetto ai familiari degli imprenditori Giuseppe e Paolo Borsellino, padre e figlio, uccisi da Cosa Nostra per aver tentato di spezzare il controllo monopolistico delle cave e del calcestruzzo: “Secondo i dati della Prefettura, Borsellino non è vittima di mafia”. Il pubblico di Anno Zero si è indignato a tal punto da tributare un applauso ai parenti di quell’uomo onesto ucciso dalla mafia e del padre giustiziato per impedirgli di testimoniare la verità. Due morti annunciate e dimenticate. Ignorate dalle istituzioni, sminuite da un presidente della regione inquisito per favoreggiamento agli affari delle cosche mafiose. Il presidente Cuffaro, ovviamente, non ha detto che anche grazie a quei due omicidi “pedagogici” Cosa Nostra mantiene il monopolio su cave e costruzioni. Totò “vasa vasa” coltiva altri interessi. Di indignazione e verità laica parla il presidente emerito del tribunale dei Minori di Catania, Giovambattista Scidà. Parla delle responsabilità di chi persegue non i denunciati ma i denuncianti. Parla di un patto scellerato i cui frutti giungevano – e giungono ancora oggi - ogni giorno nelle aule di giustizia minorile nelle quali per decenni Scidà ha dovuto amministrare la legge senza mai dimenticare pietà, compassione e amore di verità. Amore che per questo vecchio coraggioso è un’autentica passione laica, civica, civile. Una passione raramente condivisa. E laddove non alligna questa passione s’infiltra la mafiosità. Una mafia che non s’accontenta di coppole storte, mitra e lupare. E’ una mafia sommersa, spesso indistinguibile, indefinibile e per questo ancora più potente. A chiedere Veritas e l’abolizione della rilevanza penale nella diffamazione c’è Carlo Ruta. Uno storico, non un giornalista, di Ragusa che ha scritto di mafia e qui niente di grave. Poi ha preso a parlare di responsabilità di magistrati e banchieri, lì è iniziata la sua drammatica avventura giudiziaria con condanne detentive e risarcimenti. “Il fatto è che oggi qui parliamo di mafie che si chiamano Cosa Nostra, ‘ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita. Ma c’è una mafia che non si chiama. Una mafia senza nome che è la più potente tra tutte e non tollera chi scava per portare alla luce la verità”. Sonia Alfano torna a chiedere lo scioglimento del comune di Barcellona. Chiede di spezzare le cerniere e castigare gli uomini cerniera. Implora i giornalisti “Fate il vostro dovere. Raccontate la verità, tutta la verità. Mio padre è morto anche per voi. Se non manterrete i riflettori accesi su quel che accade ancora oggi nei territori occupati dalla mafia renderete inutile il suo sacrificio. Pensate che dentro ognuno di voi c’è un pezzetto del suo sacrificio. Siatene degni”.
Fonte: articolo21.com

Arrestati due boss

PALERMO - Il gip di Palermo, Fabio Licata, ha ordinato l'arresto di due imprenditori accusati di gestire il racket delle estorsioni e gli appalti nella zona di Partinico. Il provvedimento cautelare è stato richiesto dai pm della Dda, Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene.
I nomi dei due indagati arrestati venivano indicati nei "pizzini" che il boss latitante Salvatore Lo Piccolo aveva inviato a Bernardo Provenzano, poco prima che venisse arrestato. Nei messaggi di Lo Piccolo, che in seguito alle decine di arresti effettuati degli ultimi mesi è rimasto il boss incontrastato a Palermo, emerge chiaramente il ruolo dei due arrestati, che avrebbero avuto contatti diretti con i vertici di Cosa nostra.
I "pizzini" di Lo Piccolo sono stati sequestrati nella masseria di Contrada dei Cavalli in cui si rifugiava Provenzano. Attraverso queste indicazioni fornite indirettamente dal boss latitante, e grazie anche alle dichiarazioni della collaboratrice di giustizia Giusi Vitale, gli inquirenti hanno ricostruito il quadro della famiglia mafiosa di Partinico.
Il provvedimento di custodia cautelare riguarda Gaetano Lunetto, detto "zu Tanino", di 62 anni, indicato come il reggente della famiglia di Partinico, imprenditore del settore edile, e Paolo Lo Iacono, "u zoppu", di 47, fratello di Maurizio Lo Iacono, ucciso nell'ottobre del 2005 in un agguato mafioso avvenuto a Partinico. Entrambi sono considerati esponenti di spicco della famiglia dei Vitale.
I pm De Lucia e Del Bene hanno ipotizzato nei confronti dei due arrestati le accuse di associazione mafiosa finalizzata anche ai reati contro il patrimonio e alle estorsioni. Gli investigatori hanno effettuato stamani perquisizioni e sono state sequestrati elementi utili all'indagine.
Gaetano Lunetto nei mesi scorsi era già stato indicato dalla collaboratrice di giustizia Giusi Vitale come una persona che avrebbe avuto un ruolo importante all'interno della cosca mafiosa capeggiata dai fratelli Vito e Leonardo Vitale.
21/11/2006
Fonte: La Sicilia

martedì, novembre 21, 2006

Chi ha ucciso l'antimafia?

Chi ha ucciso la commissione Antimafia? La politica, non c'è dubbio. Doveva essere la punta di diamante del Parlamento nella lotta alla mafia, un Parlamento prudente, equilibrato, chi lo discute, però serio, credibile. E invece eccola qui, arnese senza prestigio, materia di mercanteggiamenti, addirittura più controproducente che altro. Giudizio eccessivo? Non mi pare. Perché qui la questione - sia chiaro - non è solo quella dell'indecenza simbolica, dell'affronto implicito nella presenza di pregiudicati per reati contro la pubblica amministrazione. Dove? In una commissione che ha la funzione di rappresentare la pubblica amministrazione nella sua battaglia per la legalità. E non riguarda nemmeno solo il mistero di una stragrande maggioranza di parlamentari che ha rifiutato di fare propria la proposta bipartisan Licandro-Napoli di escludere chi è ragionevolmente ritenuto vicino ad ambienti «complici». Proposta che non aveva proprio nulla di «giudiziario» ma moltissimo di «politico» (se no che diavolo è il famoso controllo politico diverso da quello giudiziario? qualcuno lo può spiegare?). Il problema è che, come è già accaduto con la commissione Stragi, l'uso che si è fatto dell'Antimafia ne ha decretato la morte. Si può continuare con l'accanimento terapeutico, ma il malato è morto. Punto e a capo. Proprio poche settimane fa, richiesto di intervenire nel dibattito se insistere con le cure o staccare la spina, avevo proposto di dare al parlamento l'ultima chance. Perché sono il primo a sapere quale può essere l'importanza di una buona commissione Antimafia in un paese martoriato da organizzazioni criminali di ogni genere e specie. Vogliamo mettere? Una istituzione rispettata che ha gli stessi poteri della magistratura, parlamentari formati dalla lotta politica contro il crimine o dagli studi più seri sull'argomento, l'attenzione perfino spasmodica dei media, i viaggi nelle zone più difficili per portarvi conforto a chi rischia e minaccia di sanzioni ai felloni. Certo, tutto questo può essere una commissione Antimafia. Ma questo la politica ha deciso che non sia più, rivendicando il diritto (incontestato, purtroppo) di metterci dentro chi si vuole da parte di ciascuno. Offendendo il buon senso del cittadino medio: il quale vorrebbe -pensa te che bizzarria- che la lotta alla mafia la facessero non si dice gli antimafiosi per biografia, ma almeno quelli che hanno dato prova nella vita di avere il senso delle leggi e delle istituzioni. O no? Largo invece ai pregiudicati, da Cirino Pomicino ad Alfredo Vito, nominati formalmente a quel ruolo addirittura dai presidenti delle Camere (in questo caso non essendovi infatti una nomina automatica da parte dei gruppi parlamentari di appartenenza). Insomma. L'ultima chance c'è stata. L'ultima chance è stata buttata. Non si sa se con più miopia o più cinismo. La questione vera, dicevo, è tutt'altro che simbolica. Ma è quella, praticissima, che viene subito dopo le scelte fatte; ossia quella dei meccanismi che inevitabilmente produrrà questa prova del nove, questa dimostrazione che i partiti non hanno alcuna volontà di porre la commissione al di sopra dei sospetti. Di darle credibilità, affidabilità. Succederà questo. Succederà che un magistrato, un commissario di polizia, un ufficiale dei carabinieri, quando sarà chiamato a deporre davanti alla Commissione si chiederà che uso sarà mai fatto delle informazioni che è chiamato a dare. Resterà tutto qui in questa stanza?, si chiederà. Basterà l'accorgimento di fare secretare i passaggi più delicati? O piuttosto quello che sto dicendo sarà trasmesso a chi non lo deve sapere? Mica per complicità intenzionale, si capisce. Ma perché può spuntare un amico a chiedere piccole confidenze, un amico politico del posto, che poi a sua volta parlerà, farà sapere. O ci sarà una confidenza fatta in un ambiente frequentato da qualche infiltrato «loro». Manderò in fumo le mie indagini, il nostro lavoro?, si chiederà ancora la fonte informativa. O addirittura correrò dei rischi personali aggiuntivi spiegando in anticipo che cosa penso, in che direzione sto indagando? Proviamo a metterci nei panni del servitore dello Stato in trincea, che già opera in ambienti in cui anche i muri hanno le orecchie. Perché dovrebbe dire tutto quello che fa a decine di sconosciuti che sa, già in partenza, che non sono passati attraverso alcun filtro morale e politico? Che «non si è voluto», anzi, che ci passassero? Ricordo una volta che, nella scorsa legislatura, partecipai a una audizione che riguardava la presenza della mafia in Emilia-Romagna. A una precisa domanda su una banca, il giovane ufficiale della Guardia di Finanza interpellato rispose «questo è segreto istruttorio». Probabilmente non sapeva, appunto, che la commissione ha gli stessi poteri della magistratura. E francamente, sulle prime, mi sentii urtato, quasi offeso da quella risposta. Poi provai a rifletterci. Conoscesse o no i poteri della commissione, non è che per caso quell'ufficiale avesse cercato di tutelare il suo lavoro? Confesso sinceramente che se qualcuno dovesse comportarsi così di fronte all'ennesima cattiva prova della politica, io avrei difficoltà a criticarlo. E non per scarso senso delle istituzioni, ma proprio per difendere meglio il lavoro delle istituzioni, quelle che stanno in prima fila. Ma se così è, se l'inchiesta non si può fare, che senso ha tenere in vita una commissione che già in partenza sarà priva di quell'idem sentire che solo garantisce affidabilità a organismi del genere? Non si tratta qui di trasformare in anatemi i nomi, visto che è anche possibile che Cirino Pomicino non sia poi il peggior fico del bigoncio. E nemmeno si tratta di entrare nel merito della novità (pur notevole) dei fondi limitati su cui la Commissione potrà contare questa volta. Qui si tratta di capire che non c'è più la premessa necessaria, minima e indispensabile, dell'inchiesta parlamentare. E che questa premessa viene meno non solo di fronte all'investigatore ma anche di fronte all'associazione antiracket o all'assessore che voglia fare una denuncia ufficiale. O non lo ricordiamo più Piersanti Mattarella che, da presidente della Regione Sicilia, fa le sue denunce in consiglio dei ministri con i boss che ne vengono a sapere il contenuto mezz'ora dopo? Morale: al di là delle discettazioni bizantine (i sospetti, le prerogative dei parlamentari ecc.), la commissione non c'è più. La scorsa legislatura le ha dato una mazzata mortale, la nuova legislatura le ha dato il colpo di grazia. È un grande apologo, conveniamone, della irriformabilità della politica. La quale può fare leggi migliori (questo governo le farà, a partire dalla confisca dei beni), ma mai riesce a garantire in proprio un elevato grado di credibilità dei suoi esponenti. Le soluzioni? Due proposte. La prima è istituzionale. Si faccia finalmente, sia alla Camera sia al Senato, una commissione permanente Interni, in cui discutere e affrontare i temi della sicurezza, ben oltre i limiti tipici delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali. E lì si lavori seriamente, senza avere i poteri d'inchiesta ma con la ricchezza di informazioni che la normale attività parlamentare può comunque offrire. La seconda proposta è civile. La commissione antimafia sia fatta fuori dal parlamento da studiosi, giornalisti, esponenti di associazioni, anche esponenti politici (da Orazio Licandro ad Angela Napoli, per capirsi) che in modo sistematico -e su base volontaria- lavorino al monitoraggio del materiale esistente e su quella scorta forniscano un rapporto annuale al paese, facendo riferimento a un comune grappolo di valori e di riferimenti. Con stile istituzionale, senza nulla concedere ai sussulti di indignazione, ma anche senza nulla concedere ai «grandi elettori», alle pressioni a omettere, all'interesse a proteggere questa o quella parte politica. Un rapporto prestigioso, esattamente come avviene con i rapporti sullo stato dell'economia e dei conti pubblici o sulla qualità della vita nelle città. Il resto è finito, purtroppo. Facciamocene una ragione e andiamo avanti. Potrebbe anche nascerne qualcosa di buono. www.nandodallachiesa.it
Fonte: L'unità

Contestazioni a Forgione

Il neopresidente della Commissione antimafia, Francesco Forgione, intervenuto a «Contromafie» nella sua prima uscita pubblica è stato contestato da alcuni giovani che partecipavano all'assemblea conclusiva degli stati generali organizzati a Roma da «Libera». «Che ci fanno in Commissione Alfredo Vito e Cirino Pomicino...?» hanno gridato dalla platea, «perché lo avete permesso votando contro l'esclusione di condannati dall'Antimafia». Qualcuno ha osato di più arrivando a tacciare Forgione di essere un «demagogo», o peggio «colluso». Nell'Auditorium dell'Angelicum si è quindi scatenata la bagarre tra i contestatori polemici con la composizione della Commissione antimafia e chi, invece, sottolineava la piena legittimità delle nomine. L'ex presidente dell'Antimafia Beppe Lumia (Ds), ha messo in dubbio la «legittimità delle nomine gli onorevoli Vito e Pomicino», dicendosi convinto che «occorre intervenire sulla composizione per trovare una soluzione». Francesco Forgione non ha voluto replicare alle accuse rivoltegli, ed ha sottolineato che così come tutti gli altri membri, «anche i colleghi contestati hanno lo stesso mio diritto di partecipare agli organi parlamentari, il loro mandato parlamentare non ha vincoli». In difesa del presidente dell'Antimafia è intervenuto il viceministro all'Interno, Marco Minniti, che ha ricordato le intimidazioni subite da Forgione per il suo impegno contro la mafia in Sicilia: «Non spetta a me parlare di commissioni parlamentari, ma vorrei ricordare che l'Antimafia come tutte le altre, Parlamento compreso, sono espressione del Paese, non si può pensare a composizioni ideali perfette: quello che importa davvero quindi non è da chi sono formate, ma quanto questi soggetti possono influire sul lavoro della Commissione. Lo dimostra il lavoro prezioso svolto dalle precedenti come quella presieduta da Beppe Lumia, che hanno portato a risultati straordinari». A sedare le polemiche don Luigi Ciotti, che ha sottolineato come «certe polemiche servono solo alla mafia, chi voleva fare proposte poteva intervenire nei giorni scorsi ai nostri gruppi di lavoro». È toccato al fondatore di Libera chiudere i lavori, lanciando un appello deciso alle istituzioni e al governo: «Il tempo è ormai scaduto non ci saranno più sconti per nessuno, è ormai necessario portare avanti azioni concrete da realizzare insieme. Occorre dare risposte al popolo dell'antimafia: lo Stato dimostri la concretezza del suo impegno a partire dall'istituzione di una agenzia per la gestione dei beni confiscati alla mafia, dal testo unico sulla legislazione antimafia, l'istituzione di una giornata nazionale dedicata alla lotta alle mafie il 21 marzo». Queste ed altre - tra cui l'affidamento di una co-presidenza della Commissione nazionale antimafia alla società civile impegnata nelle battaglie civili e culturali contro le mafie - le proposte discusse e formalizzate ieri nel documento finale che sarà consegnato oggi alla Camera.
Fonte: La Sicilia