martedì, ottobre 31, 2006

I pm disperati... Giustamente...

CATANIA - Mancano le vetture, il carburante e anche gli autisti. Restano così a piedi gli 11 magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catania che, "per protesta contro questa situazione e per problemi di sicurezza" da tempo non firmano lo "schema di accordo di protezione" inviato dal ministero dell'Interno, e oggi hanno rimesso il loro mandato nelle mani del Procuratore della Repubblica, Mario Busacca.
Le officine meccaniche si rifiutano di riparare i guasti, perchè i titolari vantano crediti per oltre 35 mila euro, la stessa cosa accade con la benzina, che i magistrati pagano di tasca loro per andare a lavorare. Il distretto giudiziario di Catania comprende anche le Procure di Siracusa, Ragusa, Modica e Caltagirone.
"Preso atto delle continue e perduranti gravissime disfunzioni riscontrate - scrivono gli 11 pm della Dda di Catania in un documento inviato al procuratore capo e al ministero della Giustizia - la carenza di personale tecnico e le condizioni fatiscenti ed obsolete delle autovetture blindate utilizzate non consentono di adeguatamente salvaguardare la nostra incolumità, nè, tanto meno, di garantire un corretto svolgimento dei compiti istituzionali"
I magistrati antimafia di Catania osservano nella missiva che "a tale deficitaria condizione si è da ultimo aggiunta una avvilente indisponibilità di risorse finanziarie che non consentono, ormai da mesi, di approvvigionare le vetture di carburante, nemmeno per garantire la nostra presenza in udienza". Tanto che lo comprano loro a titolo personale. "Alla luce di tale insostenibile situazione - spiegano i pm della Dda etnea, non abbiamo sottoscritto lo schema di accordo per la protezione ancora una volta trasmesso dal ministro dell'Interno il 18 agosto scorso".
"I componenti della Direzione distrettuale antimafia - concludono gli 11 sostituti procuratori - ritengono di non dover ulteriormente subire la mortificazione di non potere adempiere di fatto ai propri compiti istituzionali come legge prescrive e coscienza impone, rassegnando, pertanto, il nostro mandato".
Il documento è firmato dai sostituti Francesco Puleio, Ignazio Fonzo, Fabio Scavone, Giovannella Scaminaci, Agata Santonocito, Francesco Testa, Iole Boscarino, Alessandro Centonze, Federico Falzone, Pasquale Pacifico, Andrea Ursino.
"Una cosa del genere non è tollerabile in un territorio in cui la mafia è ancora viva". Così il procuratore della Repubblica di Catania, Mario Busacca, commenta la vicenda. "Comprendo le motivazioni dei miei magistrati antimafia - aggiunge il procuratore Busacca - ma accettare le loro dimissioni sarebbe una sconfitta dello Stato e per questo non le potrò accettare. Certo dovrò limitare l'invio dei nostri pm antimafia fuori da Catania per problemi di bilancio ma soprattutto di sicurezza".
Il procuratore di Catania ricorda di "avere da tempo segnalato al ministero della Giustizia la grave situazione in cui lavoriamo per carenze finanziarie". "E adesso - conclude - invierò anche questa lettera dei miei 11 pm della Dda al ministro della Giustizia. Vedremo...".
30/10/2006
Fonte: La Sicilia

lunedì, ottobre 30, 2006

Pentito fa il nome di Cesa

«Da fonti giornalistiche apprendo che un settimanale (oggi, ndr) potrebbe pubblicare una notizia inerente la vicenda di un pentito di mafia che avrebbe fatto – non si capisce in che contesto – tra i nomi dei più illustri e più in vista di esponenti politici italiani, anche il mio». Lo afferma il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, annunciando al contempo una denuncia per calunnia.
«Ribadisco – prosegue – la mia totale estraneità ai fatti non conoscendo in alcun modo il pentito in questione e denuncio una campagna di accanimento ai danni della mia persona – e mio tramite – del partito per finalità a me ignote ma che possono essere, vista la mia totale estraneità a qualunque episodio illecito, solo ed esclusivamente di natura politica. Da tempo ho dato mandato al mio legale di presentare denuncia per calunnia, a tutela della verità e della salvaguardia della mia immagine e di quella dell'Udc».
Il settimanale scrive che il tesoriere del segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, Giovanni Randazzo, «avrebbe organizzato un giro di fatture gonfiate nei confronti di un'agenzia dell'Onu per finanziare Cesa e il suo partito, l'Udc». A rivelarlo ai pm romani, che secondo il settimanale avrebbero iscritto Randazzo e Cesa nel registro degli indagati per finanziamento illecito al partito, sarebbe stato un «coetaneo palermitano» del tesoriere, Francesco Campanella, "superpentito" di mafia.
Fonte: La gazzetta del Sud

Al Ministero si parla di Gela

Roma, 27 ott. (Apcom) - Il Ministro dell'Interno, Giuliano Amato, con il Sottosegretario Ettore Rosato, ha incontrato ieri al Viminale una delegazione della F.A.I. (Federazione Antiracket Italiana), guidata dal Presidente Tano Grasso, e il sindaco di Gela, Rosario Crocetta. La riunione è servita per fare il punto sulla situazione del racket e della criminalità mafiosa a Gela.
Il Presidente Grasso ha spiegato che "in città si riscontra un clima nuovo, con decine di imprenditori che denunciano i taglieggiatori e il superamento della vecchia omertà". Tutto questo, però, ha sostenuto ancora Grasso, "ha fatto sì che la mafia assumesse un atteggiamento di sfida, alzando il livello delle minacce contro chi si schiera in favore della legalità". Il Ministro Amato ha garantito il pieno sostegno dello Stato, e del Ministero dell'Interno in particolare, all'azione dell'Associazione guidata da Grasso e a tutti gli imprenditori e commercianti che si stanno ribellando alla mafia.
"La vostra battaglia - ha detto - è anche la mia battaglia". Proprio per testimoniare questa vicinanza, il Ministro ha assicurato una sua prossima visita a Gela per incontrare gli imprenditori impegnati contro il racket e tutti coloro che in città si oppongono alla diffusione della criminalità organizzata.
Fonte: virgilio.it

Ricordando Di Rudinì

L'archivio della memoria orale conserva più verità di quanto non si supponga: i fatti tramandati di generazione in generazione acquistano col tempo un sapore di leggenda e si caricano di fantasie popolari e del peso delle tradizioni, ma non perdono l'autenticità. E il volume di Gaspare Di Mercurio «La settimana dell'anarchia del 1866 a Palermo. Antonio Rudinì primo sindaco contro la mafia», edito da Ila Palma, oltre a contenere gli esiti di accurate ricerche bibliografiche e documenti d'ufficio, riporta storie raccontate da anziani, mai state scritte.
Rivive in queste pagine di Gaspare Di Mercurio la figura di Rudinì, che prese posizione contro la mafia, la quale, sfruttando il malcontento delle popolazioni siciliane dopo il compimento dell'Unità d'Italia, tesseva le sue trame, ammantate di rivendicazionismo politico. La fiducia riposta negli uomini che avevano guidato la campagna meridionale e collaborato ai governi di Vittorio Emanuele II, si era affievolita, man mano che la Sicilia diventava terra di conquista della burocrazia piemontese e dei grandi elettori locali, che con la livrea del perbenismo erano riusciti ad impadronirsi delle leve del potere.
Un capitolo estremamente interessante è quello dei «mandanti impuniti». Scrive Di Mercurio: «Era assurdo pensare che l'arcivescovo di Palermo, i monsignori, i padri guardiani di alcuni conventi, le badesse di monasteri, buona parte del clero e quella larga frangia dell'aristocrazia rimasta legata ai Borboni sarebbero dovuti salire sul banco degli imputati, ed essere condannati come mandanti e responsabili dei luttuosi episodi della settimana dell'anarchia».
Il sindaco Antonio di Rudinì con molto coraggio denunciò: «Nella lotta tra il delinquente ed il governo, il siciliano onesto rimaneva indifferente, chiudeva gli occhi, ma simpatizzava per il delinquente». Rudinì al giovane Leopoldo Notarbartolo ebbe a dire dopo la scandalosa sentenza di assoluzione dell'on. Raffaele Palizzolo: «Se sei certo che Palizzolo sia il mandante dei sicari di tuo padre, non resta che farti giustizia da te». Era il tardivo risveglio di quell'animus siciliano?
Fonte: La Sicilia

Sequestro da parte del Gico della Guardia di Finanza

PALERMO - Il Gico della Guardia di Finanza di Palermo, eseguendo un decreto d'urgenza emesso dalla dda del capoluogo siciliano, ha sequestrato 450 mila euro a Paolo Sgroi, palermitano, presidente del consiglio di amministrazione della SISA Sicilia, sede siciliana dell'azienda alimentare che ha filiali in tutto il territorio nazionale. Sgroi è indagato per riciclaggio.
Secondo i magistrati avrebbe investito il denaro di boss come Bernardo Provenzano e Vito Roberto Palazzolo, latitante in Sudafrica, recentemente condannato per mafia. Sull'indagine la Guardia di Finanza mantiene uno stretto riserbo. Il sospetto che gli investigatori stessero indagando sui suoi rapporti con capimafia del calibro di Provenzano e Salvatore Lo Piccolo, boss ricercato da oltre 20 anni, Sgroi l'ha avuto leggendo i giornali.
La pubblicazione di un 'pizzino' in cui i padrini parlavano degli interessi delle cosche sulla grande distribuzione l'ha messo in allarme. Così l'imprenditore ha deciso di correre al riparo, ha infilato in un sacchetto 450mila euro in contanti, è salito su un aereo ed è volato a Milano dove ha consegnato il denaro a un cittadino polacco che avrebbe dovuto mettere la somma al sicuro. Sgroi, però, non sapeva di essere intercettato. A Milano ha trovato ad attenderlo la Finanza che gli ha sequestrato i soldi.
Sul decreto emesso dalla procura dovrà ora pronunciarsi, in sede di convalida, il gip Silvana Saguto. Ma l'inchiesta condotta dal pm della dda Nico Gozzo non riguarda solo il riciclaggio. C'è il sospetto che l'imprenditore abbia potuto contare sull'aiuto di funzionari compiacenti all'aeroporto di Palermo che avrebbero chiuso un occhio consentendogli di viaggiare indisturbato col denaro. Dei rapporti tra Sgroi e i boss ha parlato anche il pentito Nino Giuffrè che ha raccontato di interessi comuni tra l'imprenditore palermitano e Palazzolo. Infine in un'intercettazione telefonica, depositata al processo al boss latitante in Sudafrica, emergerebbe l'interesse di Provenzano sulla Sisa.
27/10/2006
Fonte: La Sicilia

venerdì, ottobre 27, 2006

Berlusconi non testimonierà

PALERMO - L'ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non verrà sentito al processo d'appello al senatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa, in corso a Palermo. Lo hanno deciso i giudici della seconda sezione della corte d'appello di Palermo, presieduta da Claudio Dall'Acqua, respingendo l'istanza presentata dai legali del politico.
Berlusconi nel processo di primo grado, citato dalla procura, si era avvalso della facoltà di non rispondere e successivamente la difesa del senatore aveva rinunciato al suo esame ritenendolo "manifestamente superfluo", circostanza che ha indotto la corte a respingere la richiesta di risentirlo nel dibattimento in corso.
I giudici hanno respinto anche l'istanza di esame di Dell'Utri, avanzata sempre dai suoi legali, ritenendo che "in questa fase l'imputato abbia solo la facoltà di rendere eventuali dichiarazioni spontanee".
27/10/2006
Fonte: La Sicilia

Arrestati per tentata estorsione

CACCAMO (PALERMO) - Quattro persone sono state arrestate nel corso della notte per aver tentato un'estorsione ai danni della Banca di Credito Cooperativo "San Giorgio" di Caccamo, nel palermitano. L'operazione è l'esito di un'indagine dei carabinieri di Termini Imerese e dalla squadra Mobile di Palermo, ed è stata condotta tra Caccamo, Ficarazzi e Bagheria.
Gli arrestati per la tentata estorsione sono Giacomo Rini, 69 anni, il figlio Francesco, di 31, entrambi titolari di una rivendita di materiale edile di Caccamo; Bartolomeo Licciardi, 46 anni, di Ficarazzi (PA), e Tommaso Lo Verso, 28 anni di Bagheria.
I quattro sono accusati in concorso di aver tentato, tra l'ottobre 2005 ed il gennaio 2006, una estorsione ai danni del direttore della banca di Caccamo, cercando di indurlo a scontare i debiti di Giacomo Rini. Il direttore era stato fatto bersaglio di messaggi di morte e gli è stata anche recapitata la testa mozzata di una pecora, con in bocca delle cartucce calibro 38.
27/10/2006
Fonte: La Sicilia

Condanne per Brusca e Madonia

PALERMO - Il gup Mario Conte ha condannato, con rito abbreviato, il pentito Giovanni Brusca e il boss Salvatore Madonia per l'omicidio del vigile del fuoco Gaetano Genova, eliminato con la lupara bianca a marzo del 1990. Il collaboratore di giustizia è stato condannato a 14 anni e 4 mesi, mentre il capomafia a 30 anni.
Genova venne ucciso perchè ritenuto dai mafiosi amico del collaboratore del Sisde Emanuele Piazza, anche lui assassinato nel 1990. Entrambi, secondo i boss, erano a caccia di latitanti. I resti del cadavere di Genova sono stati ritrovati nel 1998 grazie alle indicazioni di alcuni pentiti che hanno mostrato il luogo in cui il vigile venne seppellito.
26/10/2006
Fonte: La Sicilia

La Corte d'Assise infligge 30 ergastoli

PALERMO - I giudici della corte d'Assise d'appello hanno inflitto 30 ergastoli per una serie di omicidi di mafia compiuti a Palermo e provincia tra il 1981 e il 1991. L'ultimo delitto riguarda quello dell'imprenditore Libero Grassi, commesso il 29 agosto 1991. Fra i 33 imputati figura anche Bernardo Provenzano. Questo processo è il primo giunto a sentenza dopo l'arresto del vecchio padrino corleonese che oggi ha assistito in video collegamento alla lettura del dispositivo, che rispetto agli altri imputati, è rimasto seduto. Il dibattimento riguardava una sessantina di omicidi. I giudici hanno accolto le richieste del pg, Vittorio Teresi, il quale ha richiesto alla Corte alcune parziali riforme rispetto alla sentenza di primo grado in cui erano stati inflitti trenta ergastoli.
I giudici hanno dichiarato non doversi procedere per il collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, perchè il reato è stato estinto per prescrizione per effetto delle attenuanti di cui godono i pentiti. Per il delitto di Ernesto Battaglia, così come aveva chiesto il pg, i giudici hanno assolto la commissione mafiosa, compresi Provenzano e Riina, che sono stati condannati per altre posizioni. Per il delitto di Antonino Mineo è stato assolto solo Salvatore Montalto. Per il triplice omicidio commesso a Bagheria in cui vennero uccisi i familiari del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, per una vendetta trasversale, è stato assolto Francesco Madonia.
Il processo ha ricostruito dieci anni di delitti: dalla morte del boss Stefano Bontade, il Principe di Villagrazia, ucciso il 23 aprile 1981, che segnò l'inizio della guerra di mafia, all'eliminazione di Salvatore Inzerillo, boss di Passo di Rigano, un altro dei capi di quelle che di lì a poco sarebbero divenute le cosche perdenti. Tra gli altri episodi di sangue vi sono gli omicidi di Vincenzo Puccio e Mario Prestifilippo. Tra i boss che in primo grado sono stati condannati all' ergastolo figurano Riina, Provenzano, Pietro Aglieri, Raffaele Ganci, Leonardo Greco e Nicolò Eucaliptus, questi ultimi due capimafia di Bagheria e ritenuti favoreggiatori di Provenzano, che oggi hanno assistito in aula, nella stessa cella, alla lettura del dispositivo di sentenza.
25/10/2006
Fonte: La Sicilia

Appalti pubblici in Sicilia

L'edilizia egli appalti pubblici in Sicilia sono "schiacciati dal quasi-monopolio delle cosche". La strozzatura si esercita "attraverso imprese mafiose, imprese colluse. E mediante il condizionamento sulle altre imprese". A sostenerlo è la Fondazione Rocco Chinnici, che ha messo assieme magistrati, imprenditori e accademici per la prima "analisi scientifica dell'impatto quali-quantitativo sull'economia" dell'attività dei boss. Ne è nata, col sostegno della Compagnia di San Paolo, una task force che s'insedierà domani a Palermo per coordinare le elaborazioni di un comitato tecnico-scientifico e di gruppi di studio composti da professori e magistrati.
Anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, faranno parte dell'equipe che lavorerà per stabilire "quanto costa la mafia alla Sicilia". Oltre a Grasso e Messineo sono nel comitato tecnico-scientifico: Caterina Chinnici, procuratore presso il Tribunale per i minori di Caltanissetta e vicepresidente della fondazione intitolata al padre; Innocenzo Cipolletta, per il Centro di ricerca sui mercati finanziari della Luiss di Roma; Ettore Artioli, vicepresidente di Confindustria; Cosimo Sasso, direttore della Dia; Fabio Roia, sostituto procuratore a Milano e presidente di commissione del Csm; Alberto Tazzetti, presidente dell'Unione degli industriali di Torino; i docenti universitari Mario Centorrino, Vincenzo Militello ed Ernesto Savona.
Lo scopo, spiega Giovanni Chinnici, figlio del magistrato ucciso a Palermo nella strage del 29 luglio 1983, è "fare luce sui costi diretti e su quelli indiretti delle diverse forme criminose". Secondo Antonio La Spina, sociologo nell'università di Palermo e ricercatore senior dell'indagine, "incidono direttamente il pizzo, le tangenti, le assunzioni imposte, e indirettamente le distorsioni della concorrenza e le compressioni del business che ne derivano".
Del gruppo di coordinamento faranno parte anche il procuratore aggiunto di Palermo Guido Lo Forte, il giudice del Tribunale palermitano Antonio Balsamo e Massimo Plescia, imprenditore di Confindustria. La ricerca durerà un anno e in seguito potrà essere estesa oltre i confini della Sicilia.
Fonte: Affari italiani

Intervista a Simonetta Amenta

Bologna - Al margine della manifestazione biennale “Gli stati generali del documentario italiano”, abbiamo incontrato la palermitana Simonetta Amenta che dirige la Eurofilm, casa di produzione cinematografica con sede a Roma. Simonetta ha prodotto “Il diario di una siciliana ribelle” - che racconta la storia di Rita Atria - e “Il fantasma di Corleone”, quest’ultimo uscito nel marzo di quest’anno, poco prima che Bernardo Provenzano fosse catturato. Il regista di entrambi i documentari è il fratello di Simonetta, Marco. In queste giornate degli “Stati generali” è emerso chiaramente che in Italia non ci sono soldi per i documentari: mentre in Francia una tv commerciale arriva a trasmettere documentari per il 26% del proprio palinsesto, sulla RAI si arriva al 4%. Cerchiamo di capire come si realizzi un documentario nella difficile terra di Sicilia e contro quali ostacoli ci si scontri parlando di mafia. D: Simonetta, quanti soldi ha speso la Eurofilm, la tua casa di produzione, per “Il fantasma di Corleone”? R: Zero. Il compito della Eurofilm è stato quello di reperire i soldi. Poi c’è stato un anno di lavoro tra produzione, scrittura, interviste e contatti. D: Avete ricevuto fondi da parte delle istituzioni siciliane? R: La Film Commission di Palermo ci ha dato 3000 €. Il documentario è costato circa 300.000 €, la maggior parte dei finanziamenti sono venuti da broadcaster di Francia, Germania e dall’Unione Europea. D: “Il fantasma di Corleone” ha avuto successo? R: È stato trasmesso nelle tv di Francia, Germania, Belgio e altri paesi europei. All’estero la storia suscita molto interesse. D: E in Italia? R: È stato proiettato a Roma, Palermo e poche altre città, solo in sale d’essai. Sembra che la RAI adesso abbia intenzione di comprarlo. D: Com’è stato girare in Sicilia un documentario che parla di mafia? Avete cercato di fare “di nascosto”? R: Dal momento che metti in moto la cinepresa tutti sanno quello che stai facendo, è impossibile nascondersi. Il fatto di essere siciliani e di saper parlare con la gente, ci ha facilitati in qualche modo. D: Nel documentario tuo fratello dice di esser scappato dalla Sicilia dopo le morti di Falcone e Borsellino. Anche tu hai fatto la stessa scelta? R: Ho studiato a Roma e sono rimasta lì perché in Italia il cinema si fa a Roma. Ad ogni modo, quando sei lontano la terra ti manca e allora trovi tutte le ragioni per tornarci. D: Perché questo documentario su Provenzano? R: Per anni di Provenzano non se n’è parlato, sembrava fosse veramente un fantasma. D: Dopo la cattura di Provenzano pensi ci sarà una guerra di mafia? R: Non penso proprio, Cosa Nostra si è gia riorganizzata eleggendo nuovi capi al suo interno. D: Qual è il significato de “Il fantasma di Corleone”? R: È un’accusa allo Stato. D: Che accoglienza ha ricevuto “Il fantasma di Corleone” in Sicilia? R: Ci sono stati commenti positivi. Forse ha dato fastidio alla classe dirigente siciliana.
Fonte: Isola possibile

Fava a teatro

Messina, 25 ott. (Apcom) - Ha un titolo importante il testo scritto da Claudio Fava e messo in scena questa sera al Teatro Messina con grande rigore dal regista Ninni Bruschetta. "L'istruttoria" rimanda infatti - e direttamente - alla celebre opera di Peter Weiss: l'ambito di indagine è ovviamente diverso, ma l'afflato civile, l'alto senso di impegno politico ed umano, l'emozione di avere a che fare con una materia bruciante sono molto simili. Claudio Fava ha voluto raccontare, con la freddezza e assurdità degli atti processuali, la morte del padre: il giornalista Giuseppe Fava ucciso dalla mafia.
Ne è scaturito un testo che si muove attraverso le testimonianze di mafiosi, investigatori, testimoni, è il racconto - in presa diretta, quasi in prima persona - di chi ha subito quella disgrazia: la famiglia, il figlio, l'autore. Ed è bello che Ninni Bruschetta, con la sua compagnia Nutrimenti Terrestri, abbia voluto continuare quel percorso nel teatro impegnato, coraggioso, fatto di arte e dignità, di forma e contenuto, già avviato da tempo: Bruschetta non ha mai smesso di investigare il lato oscuro del potere, affrontando direttamente - con la presenza viva dei suoi attori - i mille risvolti delle verità taciute, della disinformazione sistematica, dell'ambizione e della collusione, della gestione di poteri e del risvolto quotidiano, sociale di quel potere.
Il regista ha sviluppato un percorso nel teatro in cui si scopre come quel "fenomeno" che è la mafia, nei suoi cento anni di vita, abbia condizionato la vita civile ed economica del paese, controllando le scelte e le decisioni politiche, corrompendo i mediocri e uccidendo chi osa sfidare o combatterla. In un momento in cui un velo di pubblica omertà copre e nega i delitti della mafia, della camorra e di altre più o meno oscure associazioni a delinquere, il teatro - con il suo porre faccia a, faccia attori e spettatori - riscopre un compito importante, che è quello di ricordare, di raccontare, di testimoniare.
"L'Istruttoria" è portato in scena in modo molto semplice, ma efficace. Con la suggestiva musica dal vivo dei Dounia, l'attivissima collaborazione di Laura Giacobbe, una piccola struttura scenica di Mariella Bellantone e due bravi interpreti che hanno il compito di dar voce e corpo ai tanti protagonisti di quella vicenda criminale, l'ottimo e trasformistico Claudio Gioè, già apprezzato in film di rilievo come Cento Passi o La meglio gioventù, e la magnetica e dolente Donatella Finocchiaro, già splendida interprete di Angela di Roberta Torre.
La storia racconta di un giornalista coraggioso e umile: Giuseppe Fava, che - in una Catania creduta, sino ad allora, lontana dai tentacoli mafiosi - viene crivellato di colpi da due killer. Il processo è un susseguirsi di personaggi squallidi e curiosi, violenti e grotteschi: il paradosso di questo spettacolo è che riesce anche a far ridere delle contraddizioni, delle millanterie, delle fumosità, delle reticenze, delle complicità. Si ride, perché tutto sembra assurdo: e invece quella è la realtà, quello il mondo, quella Catania, la Sicilia, l'Italia.
Fonte: virgilio.it

giovedì, ottobre 26, 2006

Il dolce e l'amaro

ROMA — Saro Scordia (Luigi Lo Cascio) è orgoglioso. Lui non fa più file. Per rispetto, tutti lo fanno passare avanti. Qualche hanno dopo, lo stesso Scordia, è ancora orgoglioso, ma di aspettare il proprio turno. In questo paradosso la trama de Il dolce e l’amaro, film di Andrea Porporati con protagonisti, oltre Lo Cascio, la palermitana Donatella Finocchiaro, Fabrizio Gifuni, Renato Carpentieri, Tony Gambino, Gaetano Bruno e Ornella Giusto. Per capire cosa è accaduto bisogna seguire i 25 anni di vita (dagli anni 70 a metà degli anni 90) di questo ragazzo cresciuto tra i vicoli del quartiere palermitano della Kalsa e iniziato alla mafia perchè, secondo Gaetano Butera (Tony Gambino), è un ‘picciotto’ promettente. Ma Saro, dopo essere entrato nella mafia a un certo punto vorrà tornare indietro. Diventare un uomo normale. Motivo? La consapevolezza di fare una cosa sbagliata, ma soprattutto l’amore per Ada (Finocchiaro) una maestrina che, pur amandolo, non vuole condividere con lui la sua vita da criminale. «Non è un film sulla mafia, ma sui contorni di questa istituzione criminale — ci tiene a dire Porporati sceneggiatore di successo (La Piovra 7 e 9, Lamerica), scrittore e regista de La luce negli occhi (2001) —. Ad esempio: cosa succede prima e dopo l’iniziazione all’omicidio di un giovane mafioso? Ho cercato di far vedere come non sia facile uccidere e, ancora, che dopo l’ubriacatura del potere si possa anche considerare l’idea di tornare indietro». Fabrizio Gifuni — nel film che domani chiuderà le riprese per uscire a gennaio distribuito da Medusa — è invece Stefano Massirenti: «un ragazzo che cresce nello stesso quartiere di Saro e che condivide con lui l’amore per Ada. Ma, alla fine, prenderà la strada opposta rispetto al suo coetaneo: diventerà giudice».
Fonte: la provincia di Cremona

mercoledì, ottobre 25, 2006

Nuovo Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia

Sarà Francesco Forgione, deputato di Rifondazione Comunista, il prossimo presidente della Commissione parlamentare antimafia. Ne dà notizia stamane il quotidiano L'Unità, secondo il quale la vicepresidenza spettare a parlamentari di Pdci, Udeur, Rosa nel Pugno.
Fonte: Avvisopubblico.it

Dopo il figlio, conferma anche per il padre.

MILANO - Per Salvatore Riina sarà mantenuto il regime previsto dall'articolo 41 bis e che vieta incontri con i familiari, ore d'aria e altri benefici concessi ai detenuti. In questo senso si è espresso il Tribunale di Sorveglianza di Milano che nei giorni scorsi nel carcere di Opera (Milano) aveva sentito il boss mafioso, dopo aver esaminato l'istanza presentata dagli avvocati Luca Cianferoni e Riccardo Donzelli. Il collegio giudicante, presieduto da Mariagrazia Moi, ha accolto il parere del sostituto procuratore generale Gustavo Cioppa ed ha prorogato le restrizioni di un altro anno. "Viste le motivazioni del provvedimento - ha dichiarato l'avvocato Cianferoni - riproporremo la richiesta perchè c'è la necessità di approfondire le spiegazioni soprattutto in ordine alle condizioni di salute del nostro assistito".
25/10/2006
Fonte: La Sicilia

martedì, ottobre 24, 2006

Conferma del carcere duro per Riina jr

ROMA - Ha continuato a comandare anche dietro le sbarre, come hanno dimostrato le intercettazioni ambientali dei colloqui con i parenti e come hanno indicato pentiti attendibili: per questo Giovanni Riina, figlio del boss dei corleonesi Totò Riina, dovrà rimanere nel regime di isolamento del 41 bis mentre sconta la condanna all'ergastolo per omicidio aggravato e altri reati. Lo sottolinea la Cassazione nella sentenza 35715, depositata oggi, che spiega le motivazioni per le quali i supremi giudici - nella camera di consiglio svoltasi il dieci ottobre - hanno deciso di dichiarare inammissibile il ricorso di Giovanni jr contro il decreto del dicembre 2005 che gli aveva prorogato il 'carcere duro'. In particolare la Suprema corte ha mostrato di condividere quanto già affermato dal Tribunale di sorveglianza di Perugia - lo scorso marzo - sulla pericolosità del detenuto Riina jr che, anche durante la detenzione fra il 2000 e il 2002, ha "saputo mantenere una posizione di comando nell'ambito della consorteria criminale di Corleone". Giovanni Riina avrebbe dato prova di una "non comune capacità di direzione di affari illeciti e di attività delittuose" e di "una determinazione di assoluto spicco ed una ferma volontà di svolgere un compito di direzione anche in ordine alla destinazione pro quota dei profitti di attività illecita, disponendo all'uopo di una ampia rete di persone e riuscendo anche dal carcere a svolgere il proprio ruolo decisionale".
24/10/2006
Fonte: La Sicilia

Delitto Gaglianò

GENOVA - La Corte d'Assise ha inflitto cinque ergastoli, una condanna a 10 anni, e ha assolto quattro imputati per insufficienza di prove per il delitto di Luciano Gaglianò, rimasto insoluto per quindici anni. Condannati all'ergastolo sono: Davide Emmanuello, Francesco La Cognata, Salvatore e Gaetano Fiandaca e Paolo Vitello, tutti originari della Sicilia. Per Salvatore Fiandaca si tratta del terzo ergastolo che deve scontare. I giudici hanno condannato inoltre i cinque imputati all'isolamento diurno per quattro mesi, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, all'interdizione legale, alla decadenza della potestà genitoriale, alle spese processuali e a quelle di mantenimento in carcere. Dovrà scontare invece dieci anni il pentito Angelo Celona, già condannato a due ergastoli per omicidi commessi in Sicilia. Sono stati invece assolti Nunzio, Daniele e Alessandro Emmanuello e Vincenzo Di Caro. Gaglianò venne ucciso con sei colpi di pistola il 13 novembre del 1991, mentre era a bordo della sua auto. Ad aprire il fuoco contro di lui furono in due: un proiettile lo raggiunse alla schiena, altri cinque alla testa. Secondo la ricostruzione degli inquirenti Gaglianò non aveva pagato una partita di cocaina da mezzo chilo alla "decina" capeggiata dai Fiandaca-Emmanuello e legata al clan di Madonia.
23/10/2006
Fonte: La Sicilia

lunedì, ottobre 23, 2006

Totò fa ancora discutere...

ROMA - I familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili si rivolgono al Tribunale di Sorveglianza di Milano, presieduto da Maria Grazia Moi, affinchè le richieste di Salvatore Riina sulla revoca del 41 bis siano respinte. "Inutile - spiega in una nota Giovanna Maggiani Chelli dell'associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili - sarebbe oggi riproporre all'opinione pubblica, tutto ciò che i nostri parenti hanno passato e passano a causa di Salvatore Riina e dei suoi degni compari. Il regime di carcere duro, per chi si è macchiato di una strage mafiosa terroristica con finalità eversive, provocando morti e feriti, è un tipo di carcerazione severo ma necessario". "Tutto ciò di cui ha bisogno Salvatore Riina in questo momento, è un medico specialista che possa curarlo per i disturbi di cuore di cui il mafioso si lamenta e per questo il carcere dell'Opera è ampiamente attrezzato, molto di più di altri ospedali dove i nostri parenti devono recarsi per ciò che Riina ha prodotto loro. Del resto per quel che ci riguarda - conclude la nota - tutti i diritti reclamati dal boss di Cosa Nostra, sono finiti là dove sono avvenuti i massacri dei nostri parenti e là dove sono iniziati i calvari di coloro che sono usciti dalla strage di Firenze del 27 Maggio 1993 con gravissimi problemi".
22/10/2006
Fonte: la Sicilia

Sempre più mafia al nord

Un’asse Sicilia-Vicenza. Da una parte bande criminali, dall’altra appoggi logistici per indicare vittime da rapinare, luoghi e modalità. È quanto stanno cercando di approfondire i carabinieri che l’altra mattina hanno consegnato sei nuovi ordini di custodia agli indagati dell’operazione “Atlantide” con la quale, due settimane fa, hanno sventato un agguato ad un orafo di Trissino che sarebbe valso un quintale d’oro. I carabinieri del Ros hanno consegnato ai sei arrestati una nuova ordinanza di custodia in carcere con l’accusa di aver costituito un’associazione a delinquere finalizzata al sequestro di persona a scopo di estorsione. L'altrieri, il tribunale del Riesame di Venezia aveva respinto la richiesta di scarcerazione avanzata dai legali del commando, il gruppo di fuoco bloccato all’alba del 7 ottobre a Montecchio Maggiore. I giudici avevano ritenuto che gli indizi fossero pesanti, che la banda potesse tornare a colpire e che fosse pericolosa, in quanto legata a clan mafiosi. I quattro siciliani che avevano cercato di rapire per compiere una maxirapina i fratelli Sebastiano e Nicola Bovo di Trissino, pertanto, non si muovono dalla cella. Assistiti dagli avv. Sonia Negro e Michele Vettore, Salvatore Greco, 44 anni, Nicola Liardo di 32, Rosario Riccioli di 33 e Luciano Iannuzzi, 38, erano stati catturati con l’accusa di ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale nei confronti dei carabinieri dei Ros di Padova e del reparto operativo di Vicenza. Ora si trovano sul groppone le nuove contestazioni, che riguardano anche Carmelo Barbieri, 47 anni, e Giuseppe Palermo, 39, arrestati subito dopo: per l’accusa, i mandanti dell’agguato, sventato dopo mesi di pedinamenti e intercettazioni dei carabinieri. Secondo la procura antimafia siciliana, che ora ha trasmesso gli atti ai colleghi di Venezia, Barbieri (soprannominato il professore), era uno dei pezzi grossi di Cosa nostra a Gela (rappresentante della mafia a Caltanissetta per conto dello storico capo Piddu Madonia), mentre Palermo, di professione gioielliere, aveva avuto un ruolo chiave prima per arrivare ai Bovo (responsabili della ditta del padre, la “Bovo Luigi” di via del Lavoro a Trissino), poi per metterli in contatto conosciuti nell’ambiente con un mediatore dell’Est che aveva cercato di attirare in trappola i vicentini, quindi per coordinare le operazioni criminali. La mattina nella quale i carabinieri, con il colonnello Zubani in testa, li ammanettarono con un blitz che spaventò i montecchiani, la gang doveva bloccare - simulando un posto di controllo con due auto rubate e le palette simili a quelle dell’Arma - i fratelli Bovo (presidiati da tempo, a loro insaputa fino all’ultimo, dai militari) che in Bmw stavano portando 25 chili d’oro nei paesi dell’Est. Quindi li avrebbero rapiti, costringendo i famigliari ad aprire il caveau per portare via il resto. Un colpo che avrebbe fatto fallire gli imprenditori trissinesi. «L’indagine - spiega uno degli investigatori - rappresenta un preoccupante segnale dell’interesse di Cosa nostra per i sequestri di persona a scopo di estorsione, che per le “regole” mafiose non possono essere compiuti in Sicilia per non attirare troppo le forze dell’ordine. Ora approfondiremo i possibili collegamenti fra la Sicilia e Vicenza, dove nel ’92 venne arrestato lo stesso Madonia». All’appello manca ancora il mediatore dell’Est. Ma quali sono gli altri appoggi, a più livelli, della mafia nella provincia berica?
Fonte: Giornale di Vicenza

sabato, ottobre 21, 2006

Arrestato boss Greco per estorsione

TRAPANI - La squadra mobile di Trapani ha notificato due ordinanze di custodia cautelare in carcere per i reati di incendio doloso ed estorsione al boss Lorenzo Greco di 74 anni e al pregiudicato Felice Vallone di 38 anni, entrambi originari di Alcamo, nel trapanese. I provvedimenti sono stati emessi dal gip di Palermo. Le misure sono state notificate in carcere: entrambi sono detenuti perchè indagati per estorsione aggravata nei confronti di un imprenditore alcamese. Secondo gli investigatori, sarebbero i mandanti di un attentato incendiario, a scopo estorsivo, messo a segno il 26 novembre 2005 ai danni della ditta "Conglomerati Bresciano" Srl di Bisacquino. Greco e Vallone avrebbero preteso dal titolare della società la cessione della proprietà di due appezzamenti di terreno da intestare poi a prestanome. Lorenzo Greco, condannato per mafia a 5 anni ed 8 mesi di reclusione dalla corte di Appello di Palermo, all'inizio degli anni Novanta, a capo di un gruppo di fuoco, ha tentato di sfidare le cosche corleonesi, nel tentativo di assumere il controllo del territorio di Alcamo, saldamente in mano a Vincenzo Milazzo. La sfida sfociò in una sanguinosa guerra di mafia che provocò in un anno e mezzo 38 morti e 12 casi di lupara bianca tra i due clan. Tra le vittime anche il figlio del boss, Antonino, ed il genero, Domenico Parisi. Felice Vallone, due anni fa, è stato indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo per detenzione illegale di armi.
21/10/2006
Fonte: La Sicilia

Sequestrata azienda dei Graviano

PALERMO - Su richiesta della procura di Palermo la Dia ha sequestrato il capitale sociale e i beni aziendali della Iti Zuc srl, ditta palermitana che commercializza caffè e zucchero. Il provvedimento è stato emesso nell'ambito del procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione nei confronti dei capomafia di Brancaccio Giuseppe e Filippo Graviano. Il valore dei beni posti sotto sequestro è di circa 5 milioni di euro. Secondo gli investigatori, i boss attraverso alcuni prestanomi come l'avvocato Domenico Salvo, Salvatore Inzerillo e Domenico Quartararo - già condannati per mafia - avrebbero controllato l'attività economica della società. Dalle indagini è emerso che l'avvocato Salvo avrebbe controllato l'andamento delle attività economiche dell'azienda in cui i fratelli detenuti avevano interessi occulti, comunicando loro informazioni sugli affari come l'esportazione dei prodotti in Canada, con l'aiuto delle famiglie mafiose dei Cuntrera di Siculiana, poi emigrate in Canada. La società è ufficialmente di proprietà di Elena e Domenico Traina.
21/10/2006
Fonte: La Sicilia

venerdì, ottobre 20, 2006

Totò chiede la revoca del 41bis

MILANO - Totò Riina insiste e chiede l'annullamento del regime carcerario previsto dall'art. 41 bis, già richiesto qualche tempo addietro. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, presieduto da Maria Grazia Moi, è tornato oggi nel carcere di Opera, dove il boss della mafia è detenuto, per ascoltare l'interessato alla presenza del sostituto procuratore generale Gustavo Cioppa.
Già l'anno scorso Riina aveva chiesto la revoca del particolare regime che invece era stato prorogato. Ora la sua istanza punta ad ottenere l'annullamento della proroga che scadrà il 15 dicembre prossimo. Gli avvocati Luca Cianfaroni, Riccardo Donzelli e Valerio Vianello hanno spiegato nella domanda i vari motivi attraverso i quali il loro assistito, condannato a diversi ergastoli, mira a poter avere colloqui con i familiari oltre all'allentamento dei rigori previsti dal 41 bis.
La decisione sarà depositata dal Tribunale entro cinque giorni.
20/10/2006
Fonte: La Sicilia

giovedì, ottobre 19, 2006

Una donna a capo di una cosca

MESSINA - Una donna era a capo della famiglia mafiosa che gestiva la zona Sud di Messina mettendo a punto traffici illeciti, lo spaccio di droga e le estorsioni. Il dato emerge dall'inchiesta della Squadra Mobile della città dello Stretto che stamani ha portato all'esecuzione di 13 ordini di custodia cautelare fra cui compare quello a carico di Letteria Rossano, di 42 anni, moglie di Giacomo Sparta, il boss già detenuto e sottoposto al regime del 41 bis.L'indagine mette in risalto in particolare come Sparta, nonostante il carcere duro in cui si trova, riusciva ugualmente a far arrivare all'esterno i suoi ordini, proseguendo in questo modo la gestione, insieme alla moglie, della famiglia mafiosa messinese. Gli arresti di stamani della polizia di Stato costituiscono un seguito all'Operazione "Albachiara", condotta il 25 marzo 2003, quando vennero arrestate 53 persone ritenute responsabili di associazione mafiosa.I provvedimenti cautelari sono stati firmati dal gip Maria Eugenia Grimaldi, su richiesta del pm Rosa Raffa. Due dei 13 ordini di custodia cautelare sono stati notificati ad un indagato già in carcere e un altro agli arresti domiciliari. Gli arrestati risiedono a Messina, tranne due che abitavano in provincia di Taranto e Como e che sono stati catturati con la collaborazione delle Squadre Mobili di quelle città. Dalle indagini sarebbe emerso che la cosca imponeva il pagamento del pizzo a imprenditori edili e a commercianti di Messina e gestiva pure lo spaccio di sostanze stupefacenti. L'inchiesta abbraccia un periodo compreso fra aprile 2004 e febbraio 2005. Durante gli accertamenti i poliziotti hanno registrato diversi episodi di estorsione in danno di imprenditori edili impegnati nella realizzazione di opere pubbliche a Messina e provincia, e inoltre, casi le cui vittime sono alcuni commercianti.Le persone arrestate dalla polizia di Messina nell'operazione 'Staffetta' e accusate a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, coltivazione e detenzione e spaccio di sostanza stupefacenti e porto e detenzione illegali di armi sono tredici, tutte affiliate al claa del boss Giacomo Spartà, detenuto in regime di 41 bis. Si tratta di Angelo Crisafi, 40 anni ritenuto negli ultimi tempi a capo del clan insieme a Letteria Rossano, 42 anni moglie di Giacomo Spartà, Mario Crisafi, 38 anni, Stefano Lucchese 34 anni, Nazzareno Pellegrino, 23 anni, Salvatore Prugno, 35 anni, Santo Rossano, 19 anni, Fabio Siracusano, 27 anni, Luca Siracusano, 30 anni, Giovanni Stroncone 30 anni, Giuseppe Cambria Scimone, 43 anni, Nicola Tavilla 41 anni.Il clan che di solito operava soprattutto nella zona sud della città negli ultimi tempi era riuscito ad avera influenza anche in provincia. Tra le aziende vittime di estorsioni vi sono: una di Oliveri con cantieri a Messina impegnata per la realizzazione degli svincoli autostrdali, un'azienda operante a Rometta per il rifacimento di argini di un torrente, una ditta che si occupa del ripascimento della costa a Gioiosa Marea e un'azienda di Patti impegnata in un cantiere di Messina per la costruzione di palazzine dell'Iacp. I proventi delle attività criminali venivano divisi anche con i clan ritenuti amici come quello di Giostra. Il nome dell'operazione nasce dalla 'staffetta' da parte di alcuni affiliati a capo del clan per gestire le estorsioni. Il testimone veniva ceduto dopo l'arresto del reggente ad un altro elemento dotato di uguale influenza. Com' è accaduto quando è stato arrestato Salvatore Prugno nel 2004 sostituito da Angelo Crisafi. Il questore di Messina Santi Giuffrè ha sottolineato con rammarico come "in questa indagine non ci sia stata quasi per niente la collaborazione da parte dei cittadini".
19/10/2006
Fonte: La Sicilia

mercoledì, ottobre 18, 2006

Processo tangenti ospedale Garibaldi

CATANIA - Diciannove condanne, con pene comprese tra uno e otto anni di reclusione, e l'assoluzione, per non avere commesso il fatto, dell'imprenditore Enrico Romagnoli. Sono le richieste avanzate dal pm Francesco Puleio davanti la prima sezione penale del Tribunale di Catania a conclusione della requisitoria del processo su presunte tangenti nella costruzione del nuovo ospedale 'Garibaldi' e del centro residenziale per studenti universitari 'Il Tavoliere', che avrebbe dovuto realizzare l'Iacp etneo.
La Procura ha chiesto, tra l'altro, la condanna a cinque anni di reclusione per il senatore Pino Firrarello (Fi) per corruzione e turbativa d'asta, e a tre anni per Nuccio Cusumano (Udeur), presidente della Commissione Agricoltura del Senato, per turbativa d'asta. Per entrambi è invece stata sollecitata l'assoluzione dal capo di imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. I fatti si riferiscono al 1998, quando Cusumano era sottosegretario al Tesoro ma non era parlamentare e fu per questo arrestato dai carabinieri. Chiesti anche cinque anni e due mesi per l' imprenditore Giulio Romagnoli. Il Pm Puleio, in tre giorni di requisitoria, ha parlato di "tangenti" pagate a politici per l'acquisizione dell'appalto e "dell'attività per escludere l'azienda vincitrice, la Fratelli Costanzo, in favore della Costruzioni generali Cgp Romagnoli". "Atti irregolari e illegali - ha osservato il magistrato - che hanno danneggiato irrimediabilmente la Fratelli Costanzo, con gravi ricadute occupazionali in città, e che hanno arrecato un gravissimo danno economico e sociale a Catania che per avere un ospedale ha speso il doppio del previsto e il nosocomio è stato inaugurato con sette anni di ritardo".Il pm ha chiesto anche la condanna di Michele Cavallini (4 anni e sei mesi), Giuseppe Cicero (6 anni e 4 mesi), Rosario Furnò (3 anni), Salvatore Gennaro (3 anni), Valerio Infantino (6 anni e 10 mesi), Giuseppe Intelisano (4 anni e 6 mesi), Roberto Mangione (1 anno), Fabio Marco (5 anni), Franco Mazzone (due condanne a 4 anni ciascuno per complessivi 8 anni), Gaetana Piccolo (2 anni 8 mesi), Rosario Puglisi (3 anni e 8 mesi), Vincenzo Randazzo (5 anni), Ignazio Sciortino (1 anno), Mario Seminara (6 anni), Angelo Tirendi (1 anno e sei mesi), Giuseppe Ursino (due condanne a 3 anni e 3 mesi ciascuno per complessivi 6 anni e sei mesi).Alcuni degli avvocati difensori hanno contestato "la mancata concessione delle attuanti generiche" visto che, hanno sostenuto i legali, "gran parte degli imputati hanno assistito all'intero processo rilasciando anche dichiarazioni sui fatti". Il processo riprenderà il prossimo 30 ottobre con l'intervento degli avvocati delle parti civili: la Fratelli Costanzo, l'ospedale 'Garibaldì e l'Iacp di Catania.
(ANSA).
18/10/2006

Tano Grasso parla a Roma

«NON bisogna mollare l'attenzione - ha esordito ieri mattina, Tano Grasso, delegato del sindaco di Roma sulle problematiche per l'usura, nel corso dell'incontro con gli studenti medi del Lido - perché la mafia è attorno a noi. È una presenza continua, sottile e determinata, dovete raccogliere ogni segnale e non dovete aver paura di denunciare». Ieri mattina a «Cineland» l'incontro con gli studenti medi del Lido sul tema spinoso dell'usura. Gli studenti hanno assistito prima alla proiezione del film di Michele Placido «Romanzo Criminale» e poi hanno partecipato al dibattito. Presenti le associazioni dei commercianti, le forze dell'ordine e i politici locali. Una riflessione ad alta voce sui temi della legalità e della criminalità urbana. L'appuntamento è stato realizzato in collaborazione con lo Sportello di aiuto per la Prevenzione dell'usura che opera da un paio d'anni sul litorale romano. Il tema del dibattito riguardava la campagna avviata «Per un uso responsabile del denaro» con gli studenti delle scuole superiori. Oltre a Tano Grasso, per spiegare il comportamento corretto da attuare nei confronti dell'usura, ha preso la parola anche il vicequestore, dirigente del XIII Commissariato, Rosario Vitarelli, che ha insistito in maniera particolare sulla necessità di istituire un rapporto di collaborazione e fiducia con le forze di polizia. In questo contesto, però, Ruggero Picchi, presidente dell'Ascom, ha ricordato come i commercianti, in questa battaglia, si sentano soli e isolati.
Fonte: Il tempo

Arresti nel trapanese

TRAPANI - I carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale di Trapani e delle compagnie di Mazara del Vallo e Castelvetrano hanno arrestato tre persone ritenute i capi della cosca mafiosa di Mazara del Vallo. In carcere sono finiti Salvatore Tamburello, 74 anni, già condannato definitivamente per mafia, il figlio Matteo, di 44, e il genero Giovanni Giacalone, di 41, tutti mazaresi. Le indagini dei carabinieri hanno dimostrato come l'anziano boss, nonostante lo stato di detenzione a cui è stato sottoposto in passato, e poi scarcerato per motivi di salute, continuasse a dettare ordini, che venivano eseguiti secondo l'accusa tramite l'intermediazione del figlio.Gli investigatori hanno ricostruito una serie di vicende determinanti per la vita e gli assetti di Cosa nostra mazarese. I tre provvedimenti sono stati emessi dal gip di Palermo, su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Morvillo e dei sostituti della Dda, Pierangelo Padova e Paolo Guido. L'operazione è stata denominata "Oriente seconda fase", e rappresenta lo sviluppo delle attività investigative condotte sempre dal Reparto operativo che, nel maggio 2005, condussero all'arresto di 11 persone, azzerando di fatto i vertici di alcune famiglie mafiose della Valle del Belice.
Salvatore Tamburello, noto come "u puzzaru" per via dell'attività di trivellazione di pozzi che esercitava, e che attualmente esercita il figlio Matteo, arrestato anche lui stamani, è un anziano esponente di spicco di Cosa nostra trapanese. Il vecchio Tamburello è stato detenuto fino all'11 novembre 2004 nel carcere di Sulmona, da dove è stato scarcerato per motivi di salute. I carabinieri hanno accertato che nonostante la detenzione, il boss ha esercitato ugualmente sul territorio la sua funzione di reggente che avrebbe continuato a fare, secondo l'accusa, anche dopo essere uscito dal carcere. Le indagini hanno permesso di accertare come Salvatore Tamburello, attraverso il figlio Matteo ed il genero Giovanni Giacalone, ricevesse puntuali informazioni sulle vicende del mandamento mafioso, impartendo direttive. Gli inquirenti sostengono che Matteo Tamburello teneva i contatti con il boss Andrea Manciaracina, all'epoca latitante, dal quale veniva periodicamente convocato per trattare vicende relative agli interessi di Cosa nostra, che lo stesso Matteo, in alcune intercettazioni ambientali, non esitava a definire "istituzionali". Proprio dalle intercettazioni emergono i timori dei Tamburello in seguito dell'arresto di Manciaracina, catturato nel 2003 assieme al latitante marsalese Natale Bonafede. Dall'indagine emerge che l'anziano boss, all'epoca detenuto nel carcere di Trapani, aveva il timore che i due latitanti, una volta finiti in cella, avrebbero potuto aprirsi alla collaborazione con la giustizia e per questo aveva cercato di avvicinarli visto che si trovavano nello stesso istituto di pena.Le indagini hanno poi consentito di accertare come Matteo Tamburello provvedeva al sostentamento delle famiglie degli affiliati che erano arrestati. In particolare nel periodo natalizio, Matteo effettuava "il giro" e portava i soldi che l'associazione destinava alle famiglie dei detenuti mafiosi. Erano somme che variavano da mille a cinquemila euro.
18/10/2006
Fonte: La Sicilia

martedì, ottobre 17, 2006

Arresti ad Adrano

CATANIA - Nove persone sono state fermate la scorsa notte durante una operazione disposta dalla procura distrettuale antimafia di Catania con l'accusa a vario titolo di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e porto illegale di armi e della loro ricettazione.
Alcuni dei provvedimenti sono stati eseguiti nel nord Italia. I fermi sono stati eseguiti dalla squadra mobile di Catania e dal commissariato di Adrano. Durante l'operazione, sono state trovate armi, munizioni, stupefacenti e altro materiale ritenuto di provenienza illecita, considerato di interesse investigativo. In carcere sono finiti gli appartenenti di un gruppo emergente che, secondo i magistrati, tentava di prendere il controllo delle attività criminali ad Adrano scalzando i vecchi boss mafiosi.
Il progetto di un nuovo omicidio che stava per essere commesso nel Catanese, scoperto grazie alle intercettazioni telefoniche, ha reso necessaria l'emissione dei 9 provvedimenti di fermo eseguiti questa notte. In manette è finito anche l'ex pentito Giovanni Pellegriti che, dopo avere scontato una condanna per mafia, era ora agli arresti domiciliari e aveva fatto richiesta dei benefici previsti dall'indulto. Secondo quanto accertato dagli investigatori, i nove fermati cercavano di controllare le attività criminali ad Adrano. Pellegriti, che ha interrotto la collaborazione nel 1998, avrebbe messo a servizio del gruppo la sua "esperienza" criminale.
I fermati nell' operazione, denominata "Meteorite", sono oltre a Pellegriti, i fratelli Pietro e Angelo Dell' Aquila, manovali edili rispettivamente di 30 e 34 anni, Enzo Cavallaro, un commerciante di autovetture di 34 anni, Vincenzo Mazzone, un bracciante agricolo, cugino di Pellegriti, di 37, i fratelli Antonino e Alfredo Lotta, rispettivamente di 34 e 35 anni, Nicola Ciaramidaro, di 28, e Alessandro Marchesa, di 26. La zona di Adrano, della quale è originaria gran parte dei fermati, ultimamente è stata teatro del tentativo di omicidio di Francesco Coco, avvenuto il 24 maggio scorso, del triplice omicidio di Alfio Rosano, Alfio Finoccharo e Daniele Crimi, avvenuto il 27 luglio scorso nei pressi di Bronte, e del duplice omicidio di Sebatiano Ganci e Carmelo Anzalone, avvenuto il 21 settembre scorso nelle campagne tra Adrano e Bronte.
Pellegriti è stato arrestato in una località del Piemonte, Angelo Dell' Aquila a Bergamo. Gli altri fermi sono stati eseguiti nel Catanese. I provvedimenti eseguiti nel Catanese sono già stati convalidati dal gip Granfranco D' Arrigo. Alcuni degli indagati sono stati trovati in possesso di armi. Ciaramidaro, al momento dell' arresto, avvenuto nell' aeroporto di Catania mentre attendeva i complici di ritorno dalla Spagna, è stato trovato con una pistola con il colpo in canna ed il cane alzato. Il 2 agosto scorso gli agenti del commissariato di Adrano avevano sequestrato alcune pistole a Ciaramidaro, Liotta e ad Angelo Dell' Aquila, ma non avevano proceduto all' arresto per non pregiudicare le indagini.
Un' altra pistola calibro 7,65 con la matricola cancellata, insieme con 2,2 chilogrammi di hashish ed una Citroen "C3" risultata rubata è stata trovata nell' abitazione di Ciaramidaro. Liotta è stato trovato con di 300 grammi di hashish e di un motociclo risultato rubato e Mazzone con una 7,65 e munizioni. I dettagli dell' operazione, chiamata "Meteorite" a significare l' uscita di un corpo estraneo, cioè dell' organizzazione della quale facevano parte i nove arrestati, che era composta in massima parte da incensurati ed estranei al mondo mafioso, sono stati illustrati durante un incontro con i giornalisti al quale hanno preso parte, tra gli altri, il procuratore della Repubblica Mario Busacca e il sostituto procuratore Agata Santonocito.
Santonocito ha sottolineato come sia "allarmante il fatto che persone incensurate siano riuscite a trovare lo spazio e la determinazione per affermare il loro predominio". "Se ad Adrano ci sono stati dei gravi fatti di sangue - ha detto - le forze dell' ordine non hanno mai abbassato la guardia".
17/10/2006
Fonte: La Sicilia

Arrestato latitante

PALERMO - Il boss latitante Salvatore Alfano, importante esponente della famiglia mafiosa Della Noce, è stato arrestato dagli agenti della Mobile a Isola delle Femmine, paese a 20 chilometri da Palermo. Alfano, lo scorso luglio, era sfuggito alla cattura nell'ambito dell'operazione 'Gotha' che ha portato in carcere i capi di numerose 'famiglie' di Palermo. Salvatore Alfano è stato arrestato dalla polizia di Stato nel centro di Isola delle Femmine. Il latitante è stato bloccato dagli agenti della squadra mobile nei pressi di una cabina telefonica, dalla quale aveva effettuato una telefonata.
Gli investigatori, grazie proprio alla chiamata effettuata dal ricercato, sono arrivati a localizzarlo e a fare intervenire immediatamente gli agenti specializzati alla cattura. Alfano al momento dell'arresto era disarmato e non ha opposto resistenza. Sono numerose le intercettazioni, effettuate nel box del capomafia Nino Rotolo, che fanno riferimento ad Alfano come un esponente di primo piano della famiglia mafiosa della Noce.
17/10/2006
Fonte: La Sicilia

Fondo antiracket, nessuna richiesta a Trapani



Fonte: Giornale di Sicilia

Le nuove capitali dell'usura

ROMA - Ogni anno 40 mila tra piccole imprese e attività artigianali falliscono in Italia a causa dell'usura e 150 mila commercianti, il 16% del totale, sono vittime di un sistema che muove un giro d'affari di circa 12 miliardi di euro e che ha come nuove 'capitali' Pescara, Siracusa e Messina. A dieci anni dalla legge contro il fenomeno, un libro fa il punto sulla situazione nel paese: e si scopre che se non è peggiorata poco ci manca. Un dato su tutti: nel 1998 i procedimenti aperti dalle procure per usura erano 1.213; nel 2004 sono stati 677.
"L'usura, le usure. Tempi, modi e luoghi di un fenomeno antico e moderno", di Lino Busà e Bianca La Rocca è stato presentato oggi nella sede della Confesercenti a Roma ed ha fornito l'occasione per un dibattito che ha visto protagonisti il presidente dell'Associazione Marco Venturi, il sottosegretario all'Interno Ettore Rosato, il commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket Raffaele Lauro, l'ex presidente della commissione Antimafia Roberto Centaro e il presidente onorario della Fai Tano Grasso.
Il quadro che emerge dal libro è piuttosto preoccupante: "l'usura - scrivono gli autori - rimane un elemento corruttivo della crescita economica del paese. Abbandonati i clamori della cronaca, convive silenziosamente accanto a un'economia sana, assumendo aspetti sempre più organizzati e strutturati e continuando a sottrarre benessere all'economia e alla società".
I numeri sono ancora più impietosi delle parole: le vittime privilegiate dell'usura sono i commercianti (46%), seguiti dagli imprenditori (22%) e dagli artigiani (20%). In totale i commercianti 'usurati' sono 150 mila, il 16% degli attivi. Ma se si vanno a guardare i dati regionali si scoprono realtà ancora più dure: in Calabria, ad esempio, 10.500 commercianti sono vittime dell'usura; praticamente un commerciante su tre (30%) paga il pizzo.
Non va meglio nel Lazio, in Campania e Sicilia, dove la percentuale è rispettivamente del 28,7%, 26% e 25,2%. Quella del sud è una realtà tristemente conosciuta ma leggendo il libro emerge un altro fenomeno, in proporzione ancora più rilevante. Abruzzo e Molise hanno percentuali che poco si discostano da quelle meridionali: in Abruzzo i commercianti vittime dell'usura sono 4.800, il 22% del totale, in Molise addirittura il 28% (1.700). Ma non solo: in base ad una serie di indicatori statistici, primo tra tutti quello ricavato dal rapporto tra le persone indagate e coinvolte nel fenomeno alla popolazione residente, è Pescara la città italiana con il più alto numero di usurai, davanti a Siracusa, Messina, Catanzaro, Vibo Valentia.
"È un fenomeno che continua, inesorabile, a svilupparsi sottotraccia, contro cui serve un contrasto molto deciso" ammette Marco Venturi, sottolineando che compito delle istituzioni è quello di "rimuovere resistenze e difficoltà" del sistema per dare nuovamente fiducia alle vittime. Uno dei nodi principali è quello delle banche. Lo riassume Tano Grasso, senza giri di parole: "molto spesso l'usuraio è il miglior cliente delle banche e chi lo conosce meglio sono proprio i direttori degli istituti di credito. Quello che fino ad oggi è mancato, perchè il fenomeno è cresciuto e la gente ha perso la speranza, è che la politica non è riuscita a coinvolgere in questa battaglia proprio le banche".
Il governo dunque "deve convocare gli istituti italiani" e "obbligarli a discutere". Criminalizzare il mondo bancario "è sbagliato", replica il sottosegretario all'interno Ettore Rosato, ma le banche "devono prendere atto della situazione reale del nostro paese". Anche il commissario antiracket Raffaele Lauro invita a non criminalizzare una categoria ma ha ammesso che il problema va affrontato.
A novembre, ha assicurato "ci saranno due tavoli a cui parteciperanno i vertici delle istituzioni finanziarie, i vertici delle istituzioni bancarie e imprenditoriali, per fare il punto sulla legge 108 e per individuare nuove strategie di lotta all'usura".Tolta l'ufficialità, le parole più schiette le dice proprio l'autore del libro. "Dopo dieci anni vedo due cose - è l'amaro commento di Busà - l'usura è di fatto un reato depenalizzato, con almeno 25mila usurai noti all'autorità giudiziaria che sono liberi e in circolazione; la legge, così com'è, è servita più ai criminali per mascherare le loro attività, che alle vittime per difendersi da loro".
16/10/2006
Fonte: La Sicilia

Salvo Vitale a Brescia

«La mafia è una montagna di merda e io lo voglio gridare al mondo». Così parlò Peppino Impastato, per bocca dell’attore, Luigi Lo Cascio, nel film i «Cento Passi» di Marco Tullio Giordana. Più che di uno slogan si trattava del titolo di un provocatorio articolo che l’allora giovane militante del Psiup aveva pubblicato sul giornale del partito. Un atto irriverente condotto da un personaggio (fatto uccidere da Cosa Nostra nel 1978) che dopo anni di silenzio mediatico è stato riportato alla luce dalla pellicola di Giordana. Da quel momento centinaia di e-mail, lettere e biglietti, hanno invaso la casa di Salvo Vitale, compagno di lotta di Impastato e fondatore del Forum antimafia di Cinisi, città natale dello stesso Impastato. Dalla raccolta di scritti, pensieri e lettere è nato il libro «Peppino è vivo» curato da Vitale che ha partecipato venerdì sera ad un incontro organizzato dal Comitato antimafia di Brescia sulla figura di Impastato. «Non poesie - scherza Vitale -, ma una serie di pizzini raccolti anche intorno alla tomba di Peppino». Se da un lato il personaggio ha assunto un valore fortissimo nell’immaginario collettivo, «non bisogna considerarlo un eroe - commenta Fernando Scarlata, responsabile del comitato antimafia bresciano -. Sarebbe un grave errore delegare la lotta alla mafia ai cosiddetti "eroi". In questo caso Cosa Nostra avrebbe già vinto». Tra un racconto di vita vissuta e la lettura di qualche poesia, la serata prende la piega di una discussione informale sulla situazione siciliana, sulla storia personale di Peppino e sul «sistema mafia che piega le coscienze degli uomini come fece a suo tempo il nazismo, annullando ogni forma di ribellione proprio a partire dal quotidiano» afferma Vitale. La Sicilia non è solo vittima di un’economia strozzata. Le pensioni, le pratiche in comune: la vita di tutti i giorni è permeata dalla mafia che stabilisce addirittura i tempi delle code agli sportelli pubblici. Le ultime elezioni regionali non hanno prodotto miglioramenti. «Allo stato attuale delle cose non c’è speranza - osserva Vitale -. Il legame tra mafia, politica e potere economico è ancora troppo forte». Lo scorso mese di maggio, Vitale è riuscito però a radunare 10 mila studenti palermitani in occasione della manifestazione «Addio pizzo» tenutasi per le strade del capoluogo siciliano. «L’intenzione - spiega - era quella di far presente ai commercianti che se da un lato il pizzo è una sicurezza per la propria attività, dall’altro ti fa perdere la dignità di uomo». In questo contesto viveva Peppino Impastato «morto per una meritevole illusione» scrisse di lui il pittore Stefano Venuti, segretario del Pci di Cinisi. «Forse è vero che ci eravamo illusi - conclude Vitale - ma credevamo davvero in quello che abbiamo fatto».
Fonte: Brescia oggi

sabato, ottobre 14, 2006

Nonno Riina

Totò Riina è diventato nonno. La figlia Maria Concetta, nei mesi scorsi - ma la notizia si è appresa soltanto adesso - ha avuto un bambino, nato dal matrimonio con Antonino Ciavarello nel 2001. Ma intanto per Ciavarello, detto Tony, che gia' negli anni '90 era statosottoposto a una misura di prevenzione per il suo fidanzamento con la figlia del boss dei boss, sono in arrivo nuovi guai: la Procura di Termini Imerese, competente per territorio, lo ha proposto nuovamente per la sorveglianza speciale. Motivo: frequenta pregiudicati e mafiosi, cioe' i parenti della moglie.
Ciavarello gia' nel decennio scorso si era lamentato di essere "perseguitato per amore": "Ce l'hanno con me - disse - perche' sono innamorato di Maria Concetta". La Riina e l'attuale "proposto" si conobbero nel 1994 a una festa. Il giovane, che oggi ha 32 anni, e' un patito del web e, dopo essere stato segnalato dal commissariato di Corleone all'autorita' giudiziaria, riempi' i suoi siti con testi in cui difendeva a spada tratta il proprio sentimento nei confronti della ragazza.
Dopo avere lavorato nell'Agrimar del cognato Giuseppe Salvatore Riina (oggi in carcere per mafia), da alcuni anni Ciavarello, assieme alla sorella - titolare dell'attivita' - e alla moglie lavora in una ditta che produce coppole. In settembre l'azienda ha fatto causa al Comune di Corleone, che ha usato per una propria iniziativa promozionale dell'immagine del paese e per una festa lo stesso slogan, "I love Corleone", gia' registrato dai Riina per la loro attivita'.
Fonte: affari italiani

De Mauro, parla La Licata

PALERMO. Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo sequestrato sotto casa il 16 settembre del 1970, «fu ucciso dalla mafia dopo essere stato “interrogato”» sulla natura delle notizie che aveva scoperto. Il corpo venne seppellito sul greto del fiume Oreto, il corso d’acqua che attraversa il territorio dov’è sorta la Circonvallazione di Palermo.
Questo racconta Francesco Marino Mannoia, il collaboratore chiamato a testimoniare al processo che vede il boss Totò Riina - a distanza di 36 anni dai fatti - unico imputato dell’omicidio del giornalista. Ma non dice solo questo, l’ex mafioso, parlando in videoconferenza dagli Stati Uniti (dove vive sotto protezione). «Il corpo di De Mauro - aggiunge - fu spostato, insieme con altri cadaveri seppelliti nelle vicinanze, perchè Cosa nostra temeva che potessero essere trovati nel corso dei lavori che di lì a poco sarebbero iniziati. Tutti furono sciolti nell’acido, ecco perché di quei corpi non è stato mai trovato nulla». Marino Mannoia, che dentro Cosa nostra è soprannominato «mozzarella», indica anche il posto esatto dove la mafia aveva improvvisato una specie di cimitero clandestino: «Sotto la Circonvallazione, nei pressi del bar Settebello». E la riesumazione («alcuni corpi non erano ancora decomposti») fu seguita personalmente da lui, allora luogotenente del boss Stefano Bontade.
L’operazione riuscì perché venne utilizzata una tecnica nuova «importata» dagli Stati Uniti da Salvatore Inzerillo, amico di Bontade. Per sciogliere i cadaveri si fece ricorso per la prima volta all’acido, altra cosa rispetto ai sali chimici «che non riuscivano a far sparire tutto». Marino Mannoia, come spesso gli è accaduto nel corso di tanti anni di processi, è apparso sicuro di sè quando ha descritto fatti vissuti direttamente. E, ovviamente, è stato più fumoso quando ha riferito notizie apprese da altri. Sul movente che avrebbe causato la fine di Mauro De Mauro, il collaboratore ha finito per fungere da riscontro alle dichiarazioni dell’altro pentito, Tommaso Buscetta, che aveva descritto il giornalista come «pericoloso» per la mafia, specialmente dopo aver scoperto qualcosa sulla tragica fine del presidente dell’Eni Enrico Mattei, vittima di un oscuro incidente aereo nel 1962. Secondo Buscetta, l’aereo di Mattei sarebbe stato sabotato mentre era fermo all’eroporto di Catania.
La manovalanza dell’attentato stava nella mafia, la testa abitava nelle alte sfere dei grandi giochi petroliferi. Il boss aveva parlato di un intervento di Cosa nostra americana «nell’interesse delle Sette Sorelle». Ieri anche Mannoia ha parlato di «interessi americani», ma non è stato in grado di approfondire. Il processo, d’altra parte, contiene in sè più d’una pista (un’altra si riferisce alla presunta scoperta di De Mauro del golpe Borghese che nell’estate del ‘70 era in preparazione), ma non sempre le ricerche sono risultate efficaci. Ci sono, tra le migliaia di carte, rivoli di indagine che, chissà per quale motivo, non sembra siano stati presi in considerazione. E’ il caso di un rapporto del questore di Palermo del 13 aprile del 1972, scritto - rivela il questore Bruno Contrada che allora lavorava alla squadra mobile di Palermo - sulla base di una fonte confidenziale trovata dal vicequestore Boris Giuliano, poi assassinato dalla mafia nel 1979. Giuliano aveva parlato con un impiegato del Tribunale civile di Palermo e da questi aveva appreso che De Mauro, accompagnato dal commercialista Nino Buttafuoco (l’uomo che entrerà pesantemente nelle indagini nel tentativo di depistarle), era stato nella cancelleria della «sezione Commerciale» in cerca di notizie sulle esattorie.
Già le famigerate esattorie dei cugini Nino e Ignazio Salvo. Il misterioso teste (E’ vivo? In questi 36 anni, è mai stato interrogato da qualche magistrato?) avrebbe confidato a Giuliano di aver poi saputo dal giornalista che questi era in cerca di prove «su una colossale frode in danno dell’Erario», soldi che servivano «per comprare protezioni a tutti i livelli e finanziare campagne elettorali». Se fosse vero, si tratterebbe di una sorta di colossale (70 miliardi del 1970) corruzione per finanziare la politica: una tangentopoli ante litteram. Ma il rapporto del questore va oltre, aggiungendo che Buttafuoco, in una sorta di ripensamento, nei giorni successivi si sarebbe mosso parecchio per impedire che De Mauro potesse utilizzare le notizie di cui era entrato in possesso. E cita, il rapporto, che proprio Buttafuoco - in un colloquio avuto col giornalista Roberto Ciuni - aveva manifestato preoccupazione «per aver confidato a De Mauro fatti riguardanti grosse evasioni fiscali o atti di corruttela nell’ambiente degli uffici tributari di Palermo».
Lo stesso Buttafuoco, subito dopo la scomparsa di De Mauro, si sarebbe precipitato a casa del giornalista per «offrire» alla moglie solidarietà ma per chiedere anche di essere informato dell’indirizzo assunto dalle indagini e soprattutto se fosse stato trovato qualche documento interessante. Un gioco pericoloso che gli costerà persino un periodo di detenzione, ma che si concluderà col proscioglimento.
Fonte: La Stampa

giovedì, ottobre 12, 2006

Un arresto per estorsione

MESSINA - Gli agenti della squadra mobile della polizia di Messina hanno arrestato Benito Barcellona, 69 anni, con l'accusa di estorsione e usura. L'uomo è stato arrestato dopo la denuncia alla Polizia di un commerciante del centro cittadino che da mesi era costretto a sottostare alle minacce dell'uomo. Il commerciante aveva infatti chiesto soldi in prestito a Barcellona che gli aveva chiesto interessi sempre crescenti. Dopo la denuncia gli agenti si sono appostati davanti al negozio aspettando che la vittima consegnasse il denaro a Barcellona e poi lo hanno arrestato.
12/10/2006
Fonte: La Sicilia

Mafia a Brescia

Il salone «Dolores Abbiati» della Casa del popolo di Urago colmo di persone, attente e ansiose di assistere all’incontro sulle «Mafie a Brescia» promosso dal coordinamento provinciale di Libera e dal comitato antimafia di Brescia. E’ accaduto ieri sera, proprio ad alcune decine di metri da dove poco più di un mese fa la famiglia Cottarelli fu sterminata. Polemiche strumentali, attacchi agli stranieri e allarme ordine pubblico. Poi, ora dopo ora, grazie alle veloci inchieste condotte dalla polizia e dai magistrati, arrivarono gli arresti e la matrice mafiosa della strage venne a galla. Ieri sera questa rapida cronistoria è stata raccontata, così come si è fatta memoria della presenza malavitosa e mafiosa nel Bresciano negli ultimi anni, una presenza radicata che solo in rare occasioni si mostra nel suo aspetto più visibile e violento. Lo ha fatto Fernando Scarlata, del comitato antimafia di Brescia, ricordando le numerose inchieste e in alcuni casi anche gli omicidi che hanno interessato la città e la provincia: infiltrazioni mafiose, traffici di droga e di armi, prostituzione e racket. Le zone? Franciacorta e lago d’Iseo, il Garda, la Bassa bresciana. E ad essere arrestati, in comuni e frazioni della provincia, «non solo» calabresi e siciliani, ma anche tanti bresciani. Rita Camisani, del coordinamento provinciale di Libera, ha allargato la riflessione volgendo lo sguardo alla necessità di un recupero della cultura della legalità e della cittadinanza democratica «per tenere lontana la voglia di mafia» che riscuote consensi. La mafia fa paura, certo, ma il consenso mafioso non è estorto con la violenza, ma «è costitutivo della polis». Forse c’è incapacità a cogliere i segnali, a confondere interesse proprio con il bene comune, a ragionar solo in termini di meno tasse da pagare, sesso a pagamento e lavoro nero senza pensare a cosa ci stia dietro. A essere interrogata è la città in tutte le sue componenti, dagli organi di informazione, alle istituzioni disattente, alle forze politiche che hanno strumentalizzato gli episodi mettendo tutto nel calderone, ai singoli cittadini troppo propensi a interpretare i delitti come altro da sé. Il sindaco Paolo Corsini ha rilevato che «purtroppo anche settori della sinistra bresciana sono stati latitanti ad intervenire e fare chiarezza», chiedendosi dove sia finita la «società civile» perché sicuramente da sole le istituzioni non bastano. Nei ricordi del sindaco c’è anche un incontro con la commissione antimafia avvenuto 8 anni fa, quando fu quasi deriso perché parlò di presenza mafiosa in provincia di Brescia. Una presenza che non tocca ancora le istituzioni ma il problema è fare prevenzione, ognuno nel proprio ruolo. Enzo Ciconte, docente di storia della criminalità organizzata all’università di Roma e consulente della commissione parlamentare antimafia, segnala che il problema è proprio questo: la sottovalutazione del fenomeno mafioso nel Nord Italia. A volte c’è ancora l’immagine di una mafia con la lupara e non si pensa agli affari, al riciclaggio di denaro sporco, all’inquinamento e alla distorsione delle regole dell’economia e della democrazia. «Nel fenomeno mafioso - ha ricordato il sindaco- non c’è solo privazione della vita e violenza, ma anche privazione degli spazi di democrazia». Il messaggio che arriva dal dibattito è proprio questo: un invito alla riflessione e a capire i fenomeni, cercando di evitare le semplificazioni e il voler credere che quanto sta accadendo «è fuori dalla comunità».
Fonte: Brescia oggi

Proposta di legge della Gasparrini

Roma, 11 ott. (Apcom) - Da due a cinque anni di reclusione, arresto in flagranza, emissione di ordinanza cautelare e dichiarazione di ineleggibilità o di decadenza se eletto. Queste le misure a carico del candidato o del malavitoso che supporta la sua campagna elettorale, previste nella proposta di legge presentata da Federica Rossi Gasparrini (Federcasalinghe) per migliorare la disciplina della sorveglianza speciale.
Le disposizioni legislative tendenti a colpire le organizzazioni criminali sono state completate e perfezionate, anche recentemente, con la disciplina legislativa del regime di carcerazione che va sotto il nome di "articolo 41-bis", anche detto "carcere duro". "C'è però un aspetto della legislazione vigente - afferma Gasparrini - che necessita di un ulteriore perfezionamento: è quello riguardante la disciplina della sorveglianza speciale". E' infatti previsto dalla legge che le persone sottoposte al regime di sorveglianza speciale di polizia sono per legge private dell'elettorato attivo e passivo, cioè non possono votare e non possono essere elette".
"Tuttavia - prosegue Gasparrini - non c'è alcuna disposizione di legge che vieti a tali persone di svolgere propaganda elettorale in favore di candidati o di simboli, che possono continuare ad esercitare la loro influenza sul terreno politico e, poiché si tratta di persone riconosciute socialmente pericolose - sottolinea l'onorevole - è evidente come grazie alla loro attività propagandistica vengano favorite persone portatrici di interessi non leciti, legate ai candidati. La presente proposta di legge - conclude Gasparrini - vuole quindi colpire uno dei nodi cruciali dei rapporti tra politica e malaffare, che in alcune regioni d'Italia infangano le istituzioni democratiche".
Fonte: virgilio.it

Arriva Menucci-Benincasa

Lotta alla mafia e non solo. Il tenente colonnello Jacopo Mannucci-Benincasa, nuovo comandante del reparto operativo dell'Arma dei carabinieri, ha le idee chiare: «La lotta alle cosche è al primo posto, naturalmente - ha detto - ma vi sono altri contesti relativi alla sicurezza e al contrasto dei vari fenomeni illeciti che vanno seguiti con la necessaria attenzione». «Ho lavorato sul fronte della lotta alla camorra e mi sono occupato di 'ndrangheta dopo avere lavorato in provincia di Reggio Calabria. Adesso tocca alla mafia, alle investigazioni sul fronte della lotta a Cosa nostra». Il tenente colonnello Mannucci-Benincasa, 39 anni, originario di Padova, ieri ha incontrato i giornalisti nei locali della caserma 'Carini'. «Per il momento - ha aggiunto - sono nella fase interlocutoria, quella dell'osservazione. Il fenomeno mafioso va affrontato con la necessaria cautela e con la massima attenzione. È chiaro che, venendo qui a Palermo, al primo posto dei miei interessi investigativi ci sta la lotta alle cosche. Sono contento di lavorare a Palermo, si tratta di un incarico pieno di responsabilità e spero di prendermi qualche soddisfazione». È stato il comandante provinciale, colonnello Vittorio Tomasone, a presentare il nuovo responsabile del Reparto operativo. Il tenente colonnello Mannucci-Benincasa ha svolto il servizio presso la compagnia di Bianco (Reggio Calabria), nella sezione anticrimine di Napoli e ha guidato il reparto operativo di Modena. «Per quanto concerne le indagini anticamorra - ha detto l'ufficiale - ho partecipato a quelle relative all'arresto di Ferdinando Cesarano, capo di uno dei clan di Napoli ma anche ad una serie di attività d'indagine riguardanti alcuni boss di Napoli centro. Adesso mi trovo a fronteggiare le cosche e cercherò, assieme ai miei collaboratori, di offrire un buon contributo nelle attività in corso e in quelle che svilupperemo nelle prossime settimane».
Fonte: La Sicilia

L'agenda misteriosa

Caltanissetta. Chiusa l'inchiesta della procura di Caltanissetta, secondo quanto si è appreso, sulla scomparsa dell'agenda che Paolo Borsellino aveva con sé fino al giorno della strage di via d'Amelio. Il pm, Rocco Liguori, ha depositato gli atti sull'ex responsabile del reparto operativo dei carabinieri di Roma, il ten. col. Giovanni Arcangioli, indagato per false dichiarazioni all'autorità giudiziaria, che rischia ora una richiesta di rinvio a giudizio. Il nominativo dell'ufficiale dell'Arma era finito nel registro degli indagati della procura nissena in seguito a quanto da lui dichiarato in due audizioni del maggio 2005 e febbraio 2006 in qualità di testimone. L'ipotesi accusatoria è fondata sulla ricostruzione della scomparsa dell'agenda dell'allora procuratore aggiunto di Palermo fatta da Arcangioli. Quest'ultimo avrebbe ipotizzato, pur non avendo, dato il tempo trascorso, chiari e nitidi ricordi di quello specifico frangente, di aver aperto la borsa davanti a Giuseppe Ajala, intervenuto in via D'Amelio subito dopo l'attentato e di non aver visto alcuna agenda. Una ricostruzione, quest'ultima, smentita, stando alle indiscrezioni, dallo stesso Ajala. Arcangioli, recentemente promosso ad altro incarico è l'ufficiale dei carabinieri che appare in alcune immagini girate subito dopo la strage di via D'Amelio, con la 24 ore di Borsellino in mano. L'agenda in cui il magistrato, secondo quanto riferito dal tenente dei carabinieri Carmelo Canale, avrebbe riportato i propri appunti riservati, sarebbe scomparsa dalla borsa ritrovata sull'auto del magistrato dopo l'esplosione avvenuta il 19 luglio 1992. «Pur nel massimo rispetto della autorità giudiziaria procedente - commentano i difensori di Arcangioli - si deve sottolineare che l'indagine in corso colpisce gravemente l'onore e la professionalità di un fedele servitore dello Stato. Appartiene all'ovvio che a distanza di 14 anni i ricordi non possono essere nitidi e anzi sarebbe grave il contrario. Ci sarebbe da chiedersi perché filmati presenti da allora non siano stati esibiti al nostro assistito...». Tra l'altro, secondo i difensore dell'indagato, il reato ipotizzato dalla magistratura nissena sarebbe stato commesso a Roma (luogo cui le dichiarazioni sono state fatte) e quindi la competenza sarebbe dei pm della capitale.
Fonte: La Sicilia

Pippo Calò trasferito a Roma

ASCOLI - La videoconferenza non bastava più. Dopo oltre 30 udienze dal Supercarcere di Marino del Tronto, Pippo Calò, considerato dagli inquirenti l’ex cassiere della mafia, è stato trasferito a Roma in gran segreto ieri mattina prima dell’alba. Su un cellulare della polizia, scortato da cinque agenti, il boss era atteso in Corte d’Assise per l’esame davanti ai giudici. E Calò ha aspettato proprio questa occasione per ammettere di aver fatto parte di “cosa nostra”. “Ma non ero il cassiere della mafia” - ha detto - nè ho mai deciso omicidi eccellenti. Sono rimasto alle “vecchie regole” che imponevano di non toccare nè donne, nè bambini, nè le Istituzioni”. Sull’omicidio del banchiere Roberto Calvi è stato ancora più deciso: “Se è vero che avevo a disposizione un esercito come dicono i pentiti, vi pare che l’avrei fatto ammazzare da gente che tra l’altro faceva confidenze all’amante?”.
Alla domanda sul perchè numerosi collaboratori di giustizia lo hanno nel tempo indicato come coinvolto nell’uccisione di Calvi per averlo saputo da altri appartenenti a Cosa Nostra, Calò ha risposto in maniera altrettanto perentoria: “Tutto falso - ha detto - tutte calunnie. Tutti i pentiti che sono venuti qua sono stati gestiti e mi assumo tutta la responsabilità per quello che sto dicendo”. Calò ha voluto rispondere con una domanda alle dichiarazioni rese in aula nel dicembre scorso dal collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo. Dopo l’udienza il boss è stato riportato nel carcere di Ascoli dove sconta una serie di ergastoli in regime di 41bis. Calò, l’uomo d’affari Flavio Carboni, la sua ex compagna Manuela Kleinzig, l’ex boss della Banda della Magliana Ernesto Diotallevi e il contrabbandiere Silvano Victor sono sotto processo per l’ omicidio dell’ex presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi trovato impiccato il 18 giugno 1982 a Londra sotto il ponte dei Frati Neri. La prima udienza del processo si tenne il 6 ottobre scorso. Gli avvocati di Calò, Corrado Raffaele Oliviero del Foro di Roma e Mauro Gionni di Ascoli, avevano chiesto fin dalle prime battute che il loro assistito fosse presente nell’aula della seconda sezione della Corte d’Assise di Roma, fatto che è avvenuto soltanto ieri. Il castello accusatorio si regge su tre punti che il pubblico mistero romano ritiene tutt’ora fondamentali: punire Roberto Calvi (presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato del Banco Ambrosiano fino al 17 giugno del 1982) per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti a “ cosa nostra” e alla “ camorra”. Soldi recuperati totalmente o in parte prima del suo assassinio. Inoltre conseguire l’impunità, ottenere e conservare il profitto legato ai reati di riciclaggio posti in essere attraverso il banco Ambrosiano e le società legate allo stesso istituto di credito e di concorso nelle distrazioni delle ingenti somme di denaro effettuate in danno della banca e di altre società. Infine impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico - istituzionali, della massoneria, della loggia “P2” e dello Ior con i quali - sempre secondo l’accusa - aveva gestito investimenti e finanziamenti anche provenienti da “ cosa nostra” e da enti pubblici nazionali. L’accusa quindi è convinta che Pippo Calò, capo mandamento di Porta Nuova nell’ambito di “cosa nostra” e incaricato di gestire grandi somme di denaro provento e profitto dell’attività della associazione criminale, avrebbe impartito ordini a Vincenzo Casillo, esponente della “ nuova camorra organizzata” diretta da Raffaele Cutolo. Questi ultimi, con altre persone non ancora identificate, avrebbero provocato la morte di Calvi per strangolamento simulandone poi il suicidio. Flavio Carboni invece, dopo essersi appropriato di 19 milioni di dollari erogati dal Banco Ambrosiano, avrebbe indotto Calvi ad affidarsi alle sue indicazioni per trovare una soluzione alle pressanti difficoltà giudiziarie del banchiere. In questa operazione si sarebbe avvalso dell’apporto di Ernesto Diotallevi e della sua compagna Manuela Kleinszig per organizzare la fuga di Calvi dall’Italia facendo poi in modo che la vittima venisse prelevata dagli esecutori materiali dell’omicidio. Per portare a termine il piano la Kleinszig avrebbe collaborato con Flavio Carboni. Infine, sempre secondo l’accusa Ernesto Diotallevi avrebbe svolto la funzione di collegamento tra Calò, presunto mandante del delitto, e Carboni. Il processo ai presunti killer di Calvi potrebbe aprire un vero e proprio vaso di pandora. “ Dove non si trova il vero responsabile io divento una sorta di prezzemolo giudiziario”. Questo fu il commento a caldo del boss Giuseppe Calò. E l’avvocato Gionni insiste anche oggi: “ Dagli atti emergono responsabilità di personaggi legati a banche di livello nazionale che avrebbero ricevuto anche i famosi documenti di Calvi”. Durante le ultime fasi dell’inchiesta agli indagati si è aggiunto anche il nome di Silvano Victor.
Fonte: Corriere adriatico

Restituiti beni confiscati per 250mln di euro

La Corte di Cassazione, confermando la decisione del 2005 della Corte d'Appello di Palermo, ha stabilito la restituzione dei beni per un valore di 250 milioni di euro all'imprenditore di Sciacca (Ag) Giuseppe Montalbano, già condannato in primo grado a sette anni e sei mesi con l'accusa associazione a delinquere di tipo mafioso.
I beni restituiti all'imprenditore settantenne – tra i quali 226 appartamenti, 19 terreni, un capannone, quote societarie e vari conti correnti, secondo la Cassazione sarebbero stati acquisiti in maniera legittima , per via ereditaria o grazie a investimenti.
L'unico bene che non è stato dissequestrato è la villa di Via Bernini a Palermo nella quale soggiornava Toto Riina prima della sua cattura. Montalbano, che ne risulta proprietario, ha sempre sostenuto di averla data in affitto ignorando che fosse in uso al boss mafioso corleonese.
Fonte: avvisopubblico.it

Mannoia parla di De Mauro

Palermo, 11 ott. - Il cadavere del giornalista Mauro De Mauro fu riesumato dai boss che lo avevano fatto seppellire sulle sponde del fiume Oreto, nei pressi del Ponte Corleone sulla circonvallazione di Palermo, e venne distrutto con acidi assieme ai resti di altre vittime della mafia. A raccontarlo ai giudici della terza sezione della Corte di Assise di Palermo e' stato il pentito Francesco Marino Mannoia, sentito questo pomeriggio in videoconferenza da una localita' degli Usa dove vive sotto protezione. De Mauro, cronista di giudiziaria del quotidiano "L'Ora", venne sequestrato davanti alla sua casa di viale delle Magnolie a Palermo il 16 settembre del 1970. Quello in corso e' il primo processo che si celebra per il delitto e il boss Toto' Riina e' l'unico imputato, come mandante. Secondo quanto ha riferito Marino Mannoia, la riesumazione si rese indispensabile per i boss quando, tra il 1977 e il 1978, sotto il Ponte Corleone avrebbero dovuto essere realizzati lavori di scavo che avrebbero mosso il terreno e avrebbero cosi' potuto portare alla luce il cimitero della mafia che vi si trovava. In quegli anni, secondo il collaboratore di giustizia, Cosa Nostra aveva cominciato a utilizzare l'acido per eliminare i cadaveri delle vittime della 'lupara bianca'. "Nella mia famiglia, quella di Stefano Bontate, avevamo molto acido perche' lo usavamo per raffinare la droga", ha affermato Marino Mannoia che in seno al clan ricopriva proprio il ruolo di chimico in virtu' dei suoi studi. Il pentito ha indicato in Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti (entrambi deceduti) e Toto' Riina i "triumviri di Cosa Nostra", cioe' i capi in quel periodo, e i responsabili dell'uccisione di De Mauro. Con loro, per Mannoia, avrebbe avuto interesse alla morte di De Mauro anche il boss di Riesi (Caltanissetta), Giuseppe Di Cristina - assassinato nel 1978 - in quanto legato sentimentalmente alla sorella di Bontate. Tuttavia il collaboratore di giustizia ha detto di non essere a conoscenza dei motivi specifici per cui fu deciso il delitto. Ha affermato comunque che De Mauro era noto come "giornalista investigatore" e che la sua eliminazione potrebbe anche legarsi a interessi di Cosa Nostra americana e al delitto Mattei.
Fonte: agi.it