martedì, novembre 07, 2006

Se ne stanno accorgendo proprio tutti allora...

«È fuori di dubbio - scriveva trent’anni fa la commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia - che i mafiosi che si sono trasferiti nelle varie zone dell’Italia continentale hanno costituito vari e numerosi nuclei associati, che sono stati all’origine di quella costellazione di episodi di stampo mafioso, sebbene non tutti di carattere criminale, che ha arricchito in questi ultimi anni il quadro della corruzione e della delinquenza nazionali non più soltanto in Sicilia, ma anche in altre regioni d’Italia, in primo luogo il Lazio e la Lombardia».
Uno degli affari più frequenti della delinquenza mafiosa immigrata al Nord erano i sequestri di persona. «Accanto a questo tipo di delitto - annotava la commissione parlamentare - gli altri settori in cui opera la mafia che si è trapiantata nelle regioni settentrionali sono da una parte quelli tradizionali dell’intimidazione e dell’intermediazione ricattatoria, che trova i suoi terreni di coltura nei settori dell’assunzione della manodopera, della gestione dei locali notturni e del mercato ortofrutticolo, e dall’altra quelli più nuovi del contrabbando e del traffico degli stupefacenti. Un numero sempre crescente di meridionali, tra i quali molti delinquenti comuni e molti mafiosi, si sono trasferiti e si sono insediati nelle regioni dell’Italia settentrionale, dove hanno saputo sfruttare appieno le occasioni ad essi offerte da una società sviluppata ed opulenta, sia per realizzare i propri fini, sia per meglio garantirsi la libertà. In questo senso l’esempio più significativo e illuminante è certo costituito dal fatto che anche Luciano Leggio [più conosciuto come Liggio, nda] ritenne opportuno stabilirsi a Milano».
SUPERBOSS “A SPASSO” PER MILANO Liggio, il potente capo della “famiglia” di Corleone (Palermo), operò nel capoluogo lombardo fin dagli anni Cinquanta, quando - leggiamo da un’altra relazione della stessa commissione parlamentare d’inchiesta, avente per oggetto il traffico mafioso di tabacchi e stupefacenti - «aveva intrecciato relazioni particolarmente attive con ambienti economici ed industriali milanesi». Fino al 1974, quando fu catturato in un lussuoso condominio milanese in via Ripamonti, Liggio fu ritenuto il capo incontrastato della mafia.
Ma questa aveva messo radici nella capitale economica del Nord già negli anni Cinquanta, quando il boss Joe Adonis - che nel 1962, dopo la morte di Lucky Luciano, sarebbe divenuto il referente della mafia italo-americana - andò ad abitare in un appartamento al settimo piano di via Albricci. Era il febbraio del 1958. Adonis viveva da gran signore, frequentava i locali alla moda, insomma non faceva nulla per nascondersi. La polizia lo lasciò agire indisturbato fino al 1968: su di lui non ci fu nessun controllo, né indagini.
Quando queste ebbero finalmente inizio su richiesta del capo della polizia, la questura “scoprì” che Adonis era in affari nella compravendita di immobili e possedeva una catena di supermercati con filiali a Milano, Bergamo e Brescia. Inoltre era in contatto con pericolosi pregiudicati di origine siciliana. Il 21 ottobre 1968 il questore lo diffidò, ma «ciò nonostante - si legge in un successivo rapporto della polizia - non modificò affatto condotta e continuò ad avere rapporti con pericolosi pregiudicati italiani e stranieri». Indagini serrate condotte tra il 1970 e il ’71 rivelarono che Adonis aveva scelto Milano come residenza per precise esigenze strategiche: la direzione del traffico internazionale di preziosi, soprattutto brillanti, con ramificazioni in Francia e in Svizzera, e il coordinamento del contrabbando di droga verso il Nord Europa.
Nel maggio del 1971 Adonis fu arrestato e mandato in soggiorno obbligato (dopo tredici anni di residenza a Milano!) in un piccolo comune in provincia di Ancona. Il 26 novembre di quello stesso anno moriva, stroncato da un attacco cardiaco.
LE “COMPLICITÀ” DELLE ISTITUZIONI «Con Adonis - scriveva sempre la commissione parlamentare nel 1976 - si estingue il governo mafioso dei grandi boss in Italia e la funzione strategica che esso aveva nei disegni criminosi dei traffici illeciti internazionali. Il simbolo di questa degradazione è dato dal dominio di Gerlando Alberti a Milano e in Lombardia; un “picciotto” audace e spregiudicato esecutore e killer, che riesce a coagulare attorno a sé ed ai vasti interessi di cui è l’epicentro esecutivo la più vasta cellula mafiosa che mai sia attecchita fuori del suo naturale alveo siciliano. Alberti in fondo, come tutti gli esecutori, dura poco sulla scena operativa del grande traffico internazionale e sarebbe durato meno se un maggiore coordinamento tra gli organi preposti alla sicurezza pubblica, compresa la magistratura, avesse funzionato con maggiore organicità».
Arrestato nel dicembre 1970 solo per il contrabbando di alcune casse di sigarette, Alberti fu scarcerato il 1° aprile 1971, appena in tempo per evitare il mandato di cattura emesso contro di lui il 7 aprile dal giudice istruttore di Palermo. «Potremmo ancora una volta chiederci - lamentava la commissione d’inchiesta - il perché di questa disorganicità che non risparmia Milano, attiva e produttiva, ma la risposta, al di là delle ipotesi fantasiose, sarebbe la stessa; salvo precisare che questa volta e in questi periodi in genere non c’è né lassismo, né indifferenza, ma c’è la struttura sbagliata degli organi della sicurezza pubblica, la scarsezza di mezzi moderni ed efficienti, i comparti stagni tra “autorità” diverse».
Negli ultimi trent’anni, la presenza della mafia nelle regioni del Nord si è diffusa grazie soprattutto a tre fenomeni. Così li descrive Nando dalla Chiesa nel sito dell’Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al Nord: «Il primo è costituito dai massicci movimenti migratori realizzatisi negli anni Cinquanta e Sessanta dal Sud verso le aree più industrializzate del Paese; movimenti che hanno veicolato - sia pure come effetto secondario - anche gruppi e interessi di natura criminale, spesso mimetizzati e protetti grazie a reti spontanee di parentela, amicizia e solidarietà regionale. Il secondo è la diffusione della misura del soggiorno obbligato (il “confino”), ideata inizialmente (1965) per neutralizzare i boss mafiosi sradicandoli dal loro habitat storico. Il terzo, più recente fenomeno è la spinta espansionista assunta dalle organizzazioni mafiose con la conquista oligopolistica del mercato degli stupefacenti e con la conseguente accumulazione di enormi capitali illegali in cerca di adeguate opportunità di investimento».
LA PADANIA TERRA DI CONQUISTA Quest’ultimo fenomeno ha preso piede «soprattutto nel ventennio compreso tra la metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Novanta; e in tal senso ha beneficiato, usandoli spregiudicatamente, dei diffusi processi di corruzione dell’economia e dell’amministrazione pubblica verificatisi nello stesso periodo nella società settentrionale». Mentre fino agli anni Settanta Milano era stata per la mafia principalmente rifugio e luogo di incontro, in seguito le aree industrializzate della metropoli divennero agli occhi di Cosa Nostra “terre di conquista”. «La capacità di mimetismo -rileva Dalla Chiesa -, il potere economico conquistato, la minore estraneità ambientale resero via via più facile l’insediamento sul territorio di gruppi e interessi legati ai clan siciliani. Rimase a lungo la cautela di non disturbare troppo l’ordine pubblico o la quiete sociale con guerre di mafia che avrebbero costretto le istituzioni e l’opinione pubblica locali ad affrontare con più rigore e determinazione il fenomeno. Tuttavia la presenza delle cosche “storiche” si fece progressivamente più visibile e aperta, soprattutto nelle zone dell’hinterland». La prima volta che la mafia mostrò «in modo tracotante» la sua presenza nel cuore del tessuto economico e professionale lombardo fu nel 1979, allorché venne ucciso l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore per conto della Banca d’Italia della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Questi, con la sua sfolgorante e spregiudicata carriera, «rappresentava bene le affinità tra certi ambienti professionali lombardi e la sfera criminale-mafiosa della finanza e della politica».
Fu nel febbraio del 1983, con il cosiddetto “blitz di San Valentino”, che venne alla luce una rete di società milanesi di proprietà di affiliati a Cosa Nostra e gestite da imprenditori insospettabili, incarnazione esemplare della cosiddetta “mafia dei colletti bianchi”. Sempre nel 1983 fu smascherato l’assalto delle cosche catanesi e palermitane al casinò di Sanremo, in raccordo e sotto la protezione di settori del mondo politico. E fu ancora in quell’anno che maturò la consapevolezza che il ruolo del boss Angelo Epaminonda - che a sua volta aveva ereditato il ruolo di Francesco Turatello come capo della “mala” milanese - non era più quello classico del gangster metropolitano magari fornito di amicizie nel mondo mafioso, bensì quello del mafioso vero e proprio, che alla gestione del gioco d’azzardo legava la gestione del traffico di cocaina. Epaminonda, arrestato nel 1984, divenne il primo grande “pentito” del Nord, illuminando le relazioni mafiose che aveva costruito intorno a sé.
Nel Nord le famiglie tradizionalmente mafiose hanno convissuto con gruppi che aspiravano a imitarne comportamenti e logiche utilizzando a proprio vantaggio le diffuse condizioni locali di degrado ambientale, urbanistico e amministrativo. «Fu in questo contesto - rileva l’Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al Nord - che si andò formando dalla Liguria al Veneto una ramificata e variegata presenza di organizzazioni criminose, che il clima di corruzione politica metteva in grado di contattare senza sforzi i livelli più alti dei partiti e delle amministrazioni locali».
Fra queste organizzazioni quelle rappresentative di Cosa Nostra finirono per costituire una minoranza: a esse si affiancarono quelle provenienti dalla camorra, dalla ’ndrangheta e dalla Sacra corona unita, ma anche associazioni a delinquere formatesi spontaneamente sul posto, come quelle costituitesi in alcune zone dell’hinterland milanese o come l’organizzazione raccoltasi intorno al bandito Felice Maniero in Veneto, nota come “la mafia del Brenta”. La Lombardia diventava così la quarta regione mafiosa d’Italia quanto a presenza di uomini di Cosa Nostra. Non solo: la regione era l’unica ad annoverare tutte le forme di criminalità mafiosa presenti nel Paese, tra loro in rapporto di coesistenza pacifica benché ciascuna di esse dominante, con fortissime pretese monopolistiche, sul rispettivo territorio di origine. È solo nei primi anni Novanta, con l’esplodere di Tangentopoli e con i grandi delitti di mafia del 1992 (stragi Falcone e Borsellino) e del ’93 (bombe di Roma, Firenze e Milano) che si creano le condizioni per spingere a fondo la conoscenza e la repressione del fenomeno mafioso al Nord. In quegli anni le indagini della magistratura hanno portato all’arresto di migliaia di appartenenti a cosche mafiose, in particolare della ’ndrangheta calabrese, di cui più di duemila affiliati solo nella provincia di Milano.
Fonte: La Padania

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