giovedì, maggio 29, 2008

Intervista a Lirio Abbate

Da mesi la sua vita la divide con la scorta che lo segue passo passo per proteggerlo da chi lo vuole uccidere. Lirio Abbate, giornalista dell’Ansa e autore insieme con Peter Gomez del libro “I complici: tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al parlamento” ha commesso il solo sbaglio di raccontare i fatti, di parlare dei personaggi di Cosa Nostra e dei politici collusi facendo nomi e cognomi. E ora sta pagando a caro prezzo la sua passione di informare gli italiani del male che da secoli affligge il loro Paese: la mafia. Perché è stata la mafia a uccidere i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è sempre lei a controllare la vita e l’economia di Comuni e intere zone della grandi citta siciliane. Ed è ancora lei a decidere chi è degno di salire e chi invece merita di soccombere. Con Lirio Abbate abbiamo parlato della mafia di oggi e di quella di domani, senza dimenticare quanto di brutto e di tragico è avvenuto in questi anni. Partiamo da venerdì scorso, l’anniversario della strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone insieme con la sua scorta. Com’è cambiata la Sicilia da allora? «Ci sono tanti aspetti che vanno valutati. Il primo è un aspetto sociale: dopo le stragi del ’92 la gente faceva le fiaccolate, le marce, le catene umane e in qualche modo protestava. Era l’onda emotiva che portava le persone, migliaia di persone, a manifestare contro la mafia. Dopo qualche anno questa gente è scomparsa». E oggi questa società civile e responsabile non c’è più». Che cosa è accaduto? «La gente ha dimenticato. La gente dimentica troppo spesso gli omicidi, dimentica troppo spesso che ci sono politici in parlamento che hanno un passato di collusioni morali ed etiche con la mafia. Dimentica e basta. Poi, quando vai a ricordare queste cose nei libri, la politica grida allo scandalo. Purtroppo in Italia siamo così. E, per forza di cose, tendiamo a non ricordare, dimentichiamo troppo in fretta. Forse per colpa della televisione che ci distrae con argomenti più futili». Chi è un mafioso? Come si nasce e come si diventa mafiosi nel 2008? «La mafia si è trasformata e si sta trasformando. Sotto l’aspetto “militare” rimane quella dei pizzini, delle estorsioni e degli omicidi. Ma c’è anche un altro aspetto, quello principale, che noi chiamiamo dei colletti bianchi, che sono in contatto con i boss mafiosi. Sono loro che fanno gli affari e il business». Una mafia in doppio petto insomma… «Negli ultimi 15 anni a Palermo e in Sicilia abbiamo assistito a dei capi mafia, a gente che ordinava degli omicidi, che spesso ordinava anche le persone da candidare alle elezioni e decideva i primari da assumere negli ospedali siciliani. Insomma, dettava legge nell’economia del Meridione. È gente laureata. Negli ultimi anni hanno arrestato come capi mafia primari, avvocati e professionisti di ogni genere. Anche consulenti legali e consulenti fiscali, gente che non porta né la coppola né la lupara in spalla come eravamo abituati a vedere nei vecchi film. Adesso la mafia è ben diversa dal passato ed è strutturata in questa modo». Chi si aspettava i boss stile “Padrino” ne rimarrà deluso. Forse parliamo di gente a cui nessuno penserebbe mai, perché si presenta bene e parla anche un italiano evoluto. Siamo arrivati fino a questo punto? «Adesso la mafia che comanda lo fa grazie ai colletti bianchi. E quando assisti a questi arresti non ci credi. Ascoltando le intercettazioni che hanno portato all’arresto e hanno provato la colpevolezza di queste persone, si rimane letteralmente a bocca aperta. Sono intercettazioni in cui queste persone parlano, si autoaccusano e rivelano il loro spessore criminale e mafioso. Quando in un salotto, un primario già accusato di mafia riceve altri politici e gente di ogni genere della borghesia siciliana e insieme decidono quali primari devono essere assunti e quali politici devono essere candidati, si capisce chiaramente che la mafia è cambiata, che non è più la stessa di qualche anno fa». Una mafia infiltrata ovunque ma, nascosta... Èd è questo aspetto quello più inquietante: la mafia che diventa più silenziosa, diventa anche più pericolosa perché porta in parlamento i propri uomini. E la democrazia e il Paese ne escono inevitabilmente danneggiati. Non esiste pericolo più grande che una democrazia inficiata dal virus della mafia». Diverse volte hai sostenuto che non è necessario aspettare le sentenze per sapere chi è mafioso e chi non lo è. Perché si fa così poco per ripulire la Sicilia dalla mafia? «Non è che si fa poco. Il problema è che c’è grande difficoltà a fare tutto. In Sicilia sappiamo tutti chi sono i mafiosi nelle città e nei piccoli paesi. Sappiamo chi comanda, chi è il capo mafia. Non ci vuole una sentenza di Cassazione per stabilire che uno è il capo mafia della zona. Lo sappiamo perché, vivendoci e stando sul territorio, sappiamo chi gestisce le cose e gli affari, chi ha i contatti con la politica e chi detta il voto al momento delle elezioni. Queste sono regole del vivere del Meridione». Se tutti sanno, qual è il problema? «Il problema è che queste regole del vivere quotidiano non sono però quelle della magistratura che deve, per forza, camminare su dei binari d’acciaio che sono il codice penale e il codice di procedura penale. E oggi, se si deve affrontare un processo e soprattutto se l’imputato o l’indagato di turno è il politico, bisogna portare una valanga di prove. E a volte, anche se porti una montagna di prove o un video dove c’è un politico che si abbraccia e si bacia con un mafioso, non sempre si riesce a dimostrare la colpevolezza. E il politico finisce assolto». Il fatto che uno incontri un mafioso non vuol dire necessariamente che lo sia anche lui? «È vero, ma bisogna distinguere il fatto penale da quello morale ed etico. Quello morale ed etico lo vediamo tutti i giorni e noi sappiamo chi sono queste persone. Il fatto di dimostrare la loro colpevolezza è ben altra cosa. La legge italiana è molto rigida e garantista e quando si è potenti spesso si riesce a farla franca. Vivendo ogni giorno nei tribunali, mi accorgo che la legge non è uguale per tutti. A volte, con gli stessi reati, un mafioso che fa parte dell’ala militare, cioè della prima leva, viene anche condannato. Invece un politico che ha commesso gli stessi reati no». Che cosa impedisce di inchiodare il politico? «Il problema è la legge troppo garantista. La magistratura cerca di fare quello che può. Ma la verità è che si fa fatica a processare i politici in Italia». A questo punto forse è meglio fare qualche esempio per spiegare a cosa ti riferisci quando parli di rilevanza morale ed etica. «L’effetto più pratico è che in Sicilia, come in Calabria o in Campania (le regioni di cui io mi occupo) se ti rubano la macchina o il motorino ed entrano in casa, il 60 per cento delle persone vittime dei reati non va alla polizia a denunciare il reato, ma denuncia il fatto alla persona che comanda la zona. E proprio la persona che comanda quel territorio, gli assicura, dietro pagamento, il ritrovamento di quanto gli hanno rubato. Che cosa significa tutto questo? Noi sappiamo chi comanda la zona, il problema è che ci vogliono le prove. Ma chi vive qui, sa chi è colluso, sa chi è il capo. Spesso però non si può fare niente perché da qui al processo ce ne passa. E la lotta alla mafia, in queste condizioni, diventa sempre più difficile». Chi ha raccolto il testimone di Provenzano? «In questo momento ci sono diverse famiglie, tutte piccole che cercano di lottare per avere il potere. Cosa Nostra è allo sbando e ci sono diversi boss emergenti che vogliono farsi largo pur avendo uno spessore criminale modesto rispetto agli ex capimafia. Poi ci sono altri boss che vogliono arrivare al vertice. Forse l’unico che può prendere il posto di Provenzano, è un latitante, e si chiama Matteo Messina Denaro. Siciliano, di Trapani, è accusato di tanti omicidi e attentati del 92-93 a Firenze, Roma e Milano dove sono morte anche delle persone. È giovane, ha circa 40 anni, ed è il più accreditato a prendere le redini di Provenzano». Provenzano ha fatto la sua fortuna creando dei solidi legami con la politica. Chi sono ora i nuovi complici? «I complici sono persone che fanno business, non sparano più, almeno non direttamente. Noi giornalisti li chiamiamo complici perché complici morali, etici e politici di Provenzano e della mafia. Dobbiamo sottolineare una cosa: i giornalisti fanno i giornalisti e non fanno né gli investigatori né i magistrati. Perciò, chi scrive non emette sentenze o istruttorie giudiziarie. Per noi c’è una rilevanza morale se abbiamo un filmato in cui si vede il capomafia che si incontra in una saletta con un politico, si abbraccia, lo bacia e poi discute con lui di affari e di posti di lavoro da assegnare. Da giornalista, credo sia giusto raccontarlo. Anche se alla fine quel politico non viene processato perché viene a mancare la prova del suo coinvolgimento con la mafia. Ma la rilevanza esiste. Non stiamo raccontando una favola adesso, ma un fatto vero, realmente accaduto». A chi ti riferisci? «Mi riferisco a un politico che adesso fa il senatore e si chiama Wladimiro Crisafulli che all’epoca militava nel partito comunista, poi nei Ds e ora nel Pd. Ma questo è un fatto di pochi anni fa. Ed è solo uno dei tanti episodi che si trovano nel libro che ho scritto con Peter Gomez. Magari, giudiziariamente, non c’erano le prove ed è giusto quindi che la sua posizione sia stata archiviata, ma politicamentre la responsabilità esiste. Crisafulli milita in un partito che fa della lotta alla mafia uno dei cartelli, e uno dei suoi biglietti da visita. Proprio quel partito, di fronte a un fatto del genere, avrebbe dovuto prenderlo e metterlo alla porta. Invece l’hanno preso e promosso in parlamento. I complici della mafia sono anche questi, perché sono complici morali». I partiti hanno lasciato perdere con la mafia, quali sono state le conseguenze di questa debolezza? «In Sicilia, dove tutto si trasmette per segni e per segnali, dove basta uno sguardo, un movimento della bocca, un cenno del capo, per trasmettere al proprio interlocutore un discorso che può essere lungo un’ora, questo modo di procedere ha rappresentato un segnale. Un segnale negativo, perché nonostante ci fosse un filmato che immortalava questo politico con un mafioso, si è andati avanti lo stesso. E il messaggio che ha raccolto la mafia è stato “non preoccupatevi perché tanto andiamo avanti lo stesso”. Un altro segnale c’è stato durante l’ultima campagna elettorale quando il senatore Marcello dell’Utri e il futuro presidente del consiglio Silvio Berlusconi hanno definito un boss mafioso ergastolano e trafficante di droga di nome Vittorio Mangano, come un eroe perché non ha parlato. Un’uscita del genere non si può non interpretarla come un altro segnale. I siciliani esaltano molto l’omertà e questi sono segnali negativi per la legalità». Ma nessuno fa attenzione a quello che viene detto e scritto, e tutto rimane come prima con la mafia che comanda. Come si può combattere questo modo di pensare e questa rassegnazione di fronte alla mafia? «Ci sono tanti esempi e fatti che racconto ogni giorno facendo nomi e cognomi. Questa è l’unica arma che si può usare: raccontare le cose con nomi e cognomi, con i protagonisti veri senza fare saggi o grande mitologia. Forse la cosa negativa, in questa Italia, è proprio quando fai i nomi». Marco Travaglio qualche nome l’ha fatto e si è scatenato il putiferio. Qual è la verità sul presidente del Senato Renato Schifani? «Il libro che ho scritto racconta degli episodi, ma non è un libro su Schifani. Purtroppo Schifani è incappato in alcune persone ed è entrato in società con alcuni mafiosi che poi sono diventati favoreggiatori di Provenzano. Noi abbiamo raccontato le situazioni societarie e professionali di Schifani assieme a questi boss del Palermitano. E lo abbiamo raccontato mostrando gli atti giudiziari e societari senza dire nulla di più. Io e Peter Gomez abbiamo fatto una sorta di romanzo dove i dialoghi sono le intercettazioni e i protagonisti, sono persone vere che in alcuni casi hanno ricoperto degli incarichi istituzionali molto elevati. E tra i tanti, scriviamo anche di fatti che hanno coinvolto Schifani». Perché allora nessuno ha chiesto e domandato a Schifani di chiarire e spiegare il suo passato? «La cosa che mi sorprende non è tanto che nessun giornalista abbia messo un microfono sotto la bocca di Schifani per farlo parlare e per chiarire il suo passato. Il fatto che mi sorprende è che in Italia non c’è un’opposizione che ha mai sollevato un dubbio nei confronti di questo politico». Che cosa avrebbero dovuto fare? «Un partito ha il diritto e il dovere di rifiutare le candidature di persone con un passato del genere. La politica dovrebbe chiedere spiegazioni. Noi giornalisti abbiamo raccontato dei fatti. Tutti sanno. Tutti hanno visto. Ma la bagarre si è scatenata soltanto dopo che Marco Travaglio ha fatto il nome di Schifani in Tv. Nel mio libro, uscito più di un anno fa, si parla di La Loggia, Dell’Utri e della sinistra oltre che di Schifani. Ma è interesse della politica non parlare di queste cose e per questo è stato boicottato. Forse se avessimo omesso i nomi, magari ci avrebbero fatto anche un film. Abbiamo fatto i nomi, e questa è la cosa che in Italia fa più male. Noi abbiamo voluto informare. Evidentemente è la politica che non vuole essere informata». Nel libro parli anche di Francesco Campanella, braccio destro del boss di Villabate Nino Mandalà e segretario nazionale dei giovani dell’Udeur. Se non sbaglio al suo matrimonio ha partecipato anche l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella? «A essere precisi, Mastella è stato il suo testimone di nozze. Ma nel libro ci sono tanti fatti come questo che vengono raccontati». Perché si fa così poca informazione sulla mafia? «Quando c’è un fatto di cronaca che riguarda la mafia, di solito viene raccontato. Tutti hanno raccontato dell’arresto di Provenzano. Il problema è che quando accade un fatto di cronaca sono pochissimi quelli che si chiedono il perché di un fatto e cercano di contestualizzarlo. Tutti quanti, quando è stato arrestato Provenzano, hanno gridato “E adesso caccia ai complici”, “Adesso caccia a chi lo ha favorito”. Ma tutti sapevano già chi erano queste persone. Avevamo le carte giudiziarie e bastava soltanto raccontare, partendo da chi lo teneva in casa a chi gli stava vicino. Il problema è che si evita di scavare. Soltanto in pochi lo fanno e i pochi che lo fanno vengono intercettati dai servizi segreti che quasi sempre lo fanno senza ricevere ordini. Chi nel giornalismo svolge questa missione, corre sempre questo genere di rischi. Qualcuno vuole evitare che la gente sappia perché è meglio dimenticare, è meglio che le persone non ricordino certe cose». La mafia è una piaga che riguarda soltanto la Sicilia? «Magari la mafia fosse soltanto un problema della Sicilia. La mafia è un problema degli italiani. Quando Provenzano, un signore di 73 anni che non ha nemmeno finito la seconda elementare, ma è stato un grande stratega e criminale, è riuscito a portare degli uomini fidati in parlamento che hanno occupato cariche istituzionali, non è più soltanto un problema dei siciliani, ma è dell’Italia intera e della stessa democrazia. Chi fa le leggi le fa per tutti gli italiani. Quando in Sicilia ci sono politici collusi moralmente con la mafia e poi te li trovi a ricoprire cariche istituzionali molto elevate, diventa un problema di tutto il Paese. Il presidente del Senato non è il presidente del Senato della Sicilia ma è dello Stato italiano». La gente però non ricorda più e i giornalisti e i magistrati vengono lasciati soli. Se la politica non prende una posizione, quello che di buono è stato fatto rischia di non contare niente. Non trovi? «Anche qui è meglio raccontare un fatto. Fino a poco tempo fa, alla presidenza dell’Assemblea nazionale siciliana, il più vecchio parlamento d’Europa, c’era un politico di nome Gianfranco Micciché, un allievo di Marcello dell’Utri. Questo signore, in un dibattito, ha detto di essere molto preoccupato per lo sviluppo culturale e turistico della Sicilia perché all’aeroporto di Palermo è stato dato il nome “Falcone Borsellino” e questo nome poteva spaventare i turisti perché così si ricordano cha la mafia esiste. Di fronte a una frase come questa, il signor Micciché si è scusato soltanto dopo tre giorni, dopo che quanto aveva detto era stato riportato anche dai quotidiani nazionali. Ma, i provvedimenti da prendere nei suoi confronti avrebbero dovuto essere ben altri». Da mesi vivi con la scorta perché la mafia ti ha minacciato. Hai paura? «La paura c’è perché io sono abituato a fare il giornalista, a raccontare le cose e a scriverle. E non pensi mai che, per quello che fai, ci sia qualcuno che può pensare di progettare la tua morte. Questa cosa ti fa ancora più paura se pensi poi che gli apparati di polizia hanno le armi spuntate. Quando ti accorgi che non ci sono macchine blindate che i mezzi sono vecchi, logori e magari devi affrontare un sacco di burocrazia e che ai poliziotti non vengono pagati gli straordinari, allora capisci quanto puoi essere spaventato e quando ti senti in pericolo. Questo accade a Palermo». Continuerai lungo la strada che hai intrapreso o ti fermerai perché alla fine non vale la pena di rischiare la vita per cambiare un mondo che rimarrà sempre uguale? «Io continuo, faccio il gioranlista e continuerò a farlo. Sto raccontando quello che accade e quello che è documentalmente provabile. Sto preparando qualche altro lavoro, insieme con Peter Gomez, vedremo cosa uscirà fuori».

Fonte: corriere.com

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