lunedì, gennaio 08, 2007

Riprendendo Sciascia

ROMA — «Io che sono un professionista dell'antimafia, e non me ne vergogno, vi dico che vent'anni fa Leonardo Sciascia aveva ragione. Ma come non bisognava strumentalizzarlo allora, bisogna evitare di farlo oggi». Nel gennaio del 1987, quando il maestro di Racalmuto pubblicò sul Corriere della sera il famoso articolo che scatenò tante polemiche, Tano Grasso studiava filosofia a Firenze, ma portava la sua Sicilia nel cuore. E cinque anni dopo, nel 1992, sedeva accanto a Paolo Borsellino nell'affollatissima manifestazione in cui il giudice disse che Giovanni Falcone cominciò a morire con quell'articolo. L'anno precedente aveva fondato la prima associazione antiracket a Capo d'Orlando: da allora vive sotto scorta. Oggi rappresenta l'anima dei movimenti contro l'estorsione e l'usura, lavora con le giunte di centro-sinistra a Napoli e a Roma, è sempre in giro per l'Italia tra convegni e manifestazioni. Un professionista dell'antimafia, appunto, categoria invisa a Sciascia. Perché lo scrittore aveva ragione, allora? «Perché segnalava dei rischi reali. E se nel 1987 ci si fosse confrontati seriamente con i suoi ragionamenti, anche per criticarne alcuni aspetti, anziché demonizzarli si sarebbero potuti evitare alcuni errori che a metà degli anni Novanta hanno messo in crisi gli stessi movimenti antimafia». Per esempio? «L'eccesso di retorica e di cerimonie. Non c'è dubbio che dopo le stragi del '92 la protesta e l'indignazione popolare ebbero un ruolo fondamentale: per la prima volta la mafia divenne questione nazionale. Ma quando l'emozione resta l'elemento permanente e unico, senza trasformarsi in strategia, allora assume un ruolo negativo. Sciascia indicava la vera alternativa: la trasformazione delle coscienze; quella che porta, ad esempio, il commerciante a denunciare il pizzo. Invece nessuno si presentava, mentre le manifestazioni erano affollatissime e diventavano l'alibi per acquietare le coscienze, denunciato proprio dallo scrittore». Altri errori che si potevano evitare? «L'assenza della politica, che non è stata capace di costruire un progetto autonomo in tema di antimafia, limitandosi ad un acritico sostegno all'azione giudiziaria. Anche questo si ritrova nel monito di Sciascia, insieme all'appello al rispetto delle regole, altro passaggio fondamentale: combattere la mafia attraverso il diritto anziché coi suoi stessi mezzi come fece il prefetto Mori durante il fascismo. Solo così si può spostare il consenso e provare a ribaltare la situazione. Non a caso lo scrittore parlò del maxi-processo come un dato di speranza, perché per la prima volta si colpiva la mafia attraverso il diritto». Poi però criticò la nomina di Borsellino, che quel processo aveva istruito, a procuratore di Marsala. Provocando grande amarezza nello stesso magistrato. «Prendere a esempio quel caso, come quello del sindaco Orlando, fu un errore. Col quale però bisognava confrontarsi e al limite scontrarsi, senza lanciare la assurde accuse di cui Sciascia fu vittima; si combatte la mafia per essere più liberi, e nel combatterla non si può certo conculcare la libertà del confronto ideale e culturale». Quale era lo sbaglio di Sciascia su Borsellino? «Scegliere un procuratore più giovane ma più preparato fu un'innovazione positiva del Consiglio superiore della magistratura. Tanto che quando si tornò alle vecchie regole Falcone non venne nominato a Palermo, con tutte quelle che ne seguì. Ma ancora una volta, se si fosse ragionato sul monito di Sciascia, si sarebbe evitato l'errore: lui invocava il rispetto delle regole, bastava cambiarle alla luce del sole». Vent'anni dopo, allora, a chi bisogna chiedere scusa? A Sciascia o a Borsellino? «A nessuno dei due. Ragionare in termini di scuse significa tornare a quella logica che vent'anni fa provocò polemiche anziché confronto, mentre è proprio il confronto laico che occorre praticare, in nome dell'insegnamento di Sciascia che la sinistra ha il dovere di recuperare: che sia diventato il nume tutelare della destra in materia di giustizia è un'assurdità, come se D'Annunzio fosse stato l'ispiratore di Togliatti. La sua idea dell'impegno autonomo della politica nella lotta alla mafia, separato dall'azione giudiziaria, è fondamentale». Perché lei è stato e resta un professionista dell'antimafia? «Perché da quando ho messo in moto l'associazionismo antiracket non posso più tirarmi indietro. Io vorrei ricominciare a studiare, o a vendere scarpe come i miei genitori, ma per la sicurezza mia e dei miei tanti amici, in Sicilia e fuori, sono costretto a occuparmi di mafia a tempo pieno. A Napoli, a Gela, a Lametia Terme non possiamo fermarci, perché non basta una legge o una campagna ben organizzata per sconfiggere la mafia». Sogna un Paese libero dalla mafia e dall'antimafia? «Questa purtroppo è un'utopia. La mafia è forte e radicata, a Palermo dove non si spara, come in Calabria e in Campania, senza che ci sia un'adeguata consapevolezza politica, nemmeno da parte dell'attuale governo. Anche se la situazione di oggi è certamente migliore di vent'anni fa. Lo dimostra il fatto che Tano Grasso possa dire certe cose senza essere accusato, spero, di essere un traditore. È un passo avanti, che abbiamo fatto anche grazie a Leonardo Sciascia».
Fonte: Corriere della Sera

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