PALERMO - Agenti della polizia di Stato hanno eseguito 45 dei 52 ordini di arresto indicati dai pm della Dda di Palermo. Il pool di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone ha disposto il fermo dei componenti delle cosche che da alcuni anni sono al vertice delle famiglie mafiose del capoluogo siciliano. Sono accusati di associazione mafiosa ed estorsione. Sette le persone sfuggite alla cattura e dunque da considerare latitanti.
Dall'indagine condotta dalla squadra mobile emerge la nuova mappa della mafia che ha messo le mani sulla città. Gli arresti disposti stamani dai pm hanno "decapitato gli attuali capi di cosa nostra" che erano in contatto, attraverso i "pizzini", con Bernardo Provenzano. I boss progettavano attentati e omicidi e ordinavano estorsioni a imprese e grosse attività commerciali.
L'inchiesta, che ha pure portato a decrittare i "pizzini" trovati nel covo di Provenzano dopo il suo arresto, e scoprire l'identità di alcuni favoreggiatori i cui nomi erano nascosti da numeri, è coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone e dai pm Maurizio De Lucia, Michele Prestipino, Roberta Buzzolani, Nino Di Matteo e Domenico Gozzo, e si basa in gran parte su intercettazioni effettuate per due anni in un box in lamiera in cui si svolgevano i summit dei capimafia, che si trova nei pressi di viale Michelangelo, alla periferia della città.
Tra i 52 fermi disposti dalla Dda vi sono anche 16 indagati accusati di essere gli attuali capi delle famiglie mafiose di Palermo, tre dei quali sono considerati in posizione "sovraordinata" rispetto agli altri. Una sorta di direttorio ristretto di cosa nostra di cui faceva parte, secondo l'accusa, Antonino Rotolo, 60 anni, indicato a capo del mandamento mafioso di Pagliarelli, che partecipava ai summit nonostante fosse agli arresti domiciliari. L'uomo, bloccato stamani dagli agenti della Squadra Mobile, era stato condannato all'ergastolo per una serie di omicidi, ma aveva ottenuto alcuni anni fa la detenzione in casa per via di problemi di salute.
Del direttorio avrebbe fatto parte anche il dottore Antonino Cinà, di 61 anni, che in passato è stato il medico di Totò Riina ed ha già scontato una condanna per associazione mafiosa. Il terzo boss a sovrintendere sugli altri 16 sarebbe Francesco Bonura, di 64 anni, indicato come il capomafia di Uditore. Tutti e tre sono stati arrestati stamani su ordine del procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone a capo del pool formato dai pm De Lucia, Prestipino, Buzzolani, Di Matteo e Gozzo.
Le conversazioni fra Cinà, Bonura e Rotolo registrate dalla polizia nel box in cui si svolgevano i summit, sono la colonna portante dell'inchiesta. In questo luogo segreto, che si trova a una decina di metri dalla villa di Rotolo, venivano ricevuti i vari rappresentanti delle famiglie mafiose per affrontare problemi e discutere le strategie criminali. Sono stati gli stessi boss, a loro insaputa, a rivelare segreti e nomi di persone insospettabili che sono affiliati alle varie famiglie della città. Sono così emersi nuovi elementi di spicco di Cosa nostra, nuovi punti di riferimento delle varie zone. Gran parte dei quali sono stati arrestati stamani.
Le intercettazioni confermano ancora una volta che Bernardo Provenzano, fino al giorno del suo arresto, avvenuto l'11 aprile scorso, era il "capo supremo di cosa nostra".
Per i "capifamiglia", il box rappresentava un territorio segreto e inaccessibile agli estranei, dove potevano parlare liberamente degli affari illeciti delle cosche. In questo piccolo ambiente, in cui vi erano otto sedie di plastica attorno ad un piccolo tavolo, i capimafia hanno discusso per due anni delle strategie criminali di cosa nostra e senza che lo sapessero venivano registrati dalla polizia. I boss parlavano tranquillamente, perchè adottavano tante precauzioni: utilizzavano un congegno elettronico che poteva annullare il funzionamento delle microspie o ne rilevava la presenza.
Era Rotolo che prima di ogni riunione effettuava personalmente la bonifica dell'ambiente. Le particolari apparecchiature utilizzate dagli investigatori hanno però superato l'esame ed hanno permesso di non essere scoperte. Un altro accorgimento utilizzato dai boss per non far avvicinare nessuno al box era quello di sistemare un pallone da calcio davanti la porta d'ingresso. Un segnale per avvertire le "sentinelle" che sorvegliavano la zona durante i summit di non far entrare nessuno.
Quasi tutti gli incontri sono stati filmati dalla polizia. Dai video si nota in particolare Rotolo scavalcare le recinzioni della sua villa per arrivare al box, dove veniva atteso dagli altri boss.
Il rientro dagli Usa a Palermo di alcuni componenti della famiglia Inzerillo che per anni sono stati "esiliati" negli Stati Uniti per sfuggire alla "guerra di mafia" dei primi anni Ottanta, ha provocato nei mesi scorsi duri scontri in cosa nostra. I contrasti emergono dall'inchiesta del pool della Dda guidato dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone che ha ordinato gli arresti fra cui quello degli Inzerillo.
Il ritorno in Italia degli Inzerillo era stato "caldeggiato" alla commissione mafiosa da Salvatore Lo Piccolo, boss latitante di San Lorenzo. A questa proposta si erano opposti il medico Antonino Cinà e Nino Rotolo, che temevano la ripresa di vecchi rancori e contrasti legati a ipotesi di vendetta per togliere ai corleonesi la leadership dell'organizzazione nel palermitano così com'era fino alla fine degli settanta. Proprio per questo motivo era in corso di elaborazione un piano per l'uccisione di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, entrambi latitanti, e per eliminarli era stata chiesta a Provenzano l'autorizzazione, e per ottenerla avrebbero insinuato sospetti sull'affidabilità dei Lo Piccolo e sulle reali intenzioni degli Inzerillo. Emergono, dunque, vecchi rancori.
Alla fine degli anni Ottanta gli Inzerillo, per mettersi al riparo dalla guerra di mafia, lasciarono Palermo e la Commissione di Cosa nostra decise di non condannarli a morte, ma dovevano restare "in esilio" negli Stati Uniti sotto la responsabilità di esponenti di cosa nostra americana, di cui, secondo gli inquirenti, è confermata l'attualità dei rapporti con i boss palermitani.
Il rientro degli Inzerillo, avvenuto da poco tempo, ha fatto riemergere tutti i contrasti ed i sospetti legati alla "guerra di mafia" ed alle stragi compiute dai corleonesi nei primi anni ottanta. La situazione, secondo quanto scrivono nell'ordinanza i pm, sembra essere stata chiarita durante un incontro che vi è stato lo scorso febbraio fra uno degli Inzerillo, Francesco, con Salvatore Lo Piccolo e il medico Cinà. Tutto ciò emerge dalle lettere trovate a Provenzano, dalle quali sembrerebbe che in qualche modo le tensioni interne all'organizzazione si sono raffreddate e il piano di morte sarebbe stato accantonato.
20/06/2006
Fonte: La Sicilia
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