Lucia Lotti si strozza citando i titoli della stampa italiana: Gela sarebbe la città più mafiosa della Sicilia, la “pattumiera” d’Italia. Per il procuratore capo della procura antimafia, questi “stereotipi soffocanti” che vogliono fare di Gela il “prototipo di un luogo irrimediabilmente perduto” non tengono conto dello scatto energico di cui la città ha dato prova. Uno scatto che rende ancora [più] brutali le pesanti minacce che pesano sulla procura: da qui a settembre, la procura rischia di essere abbandonata in massa dai suoi sostituti.
“Il tribunale di Gela è la sede della legalità dello Stato”, proclama un manifesto delle organizzazioni cattoliche di sinistra, le Acli. “Non si paga”, afferma un grande striscione che barra il portone d’ingresso del municipio. Segue un numero di telefono a cui possono rivolgersi coloro che vogliono denunciare il “pizzo” (in italiano nel testo originale N.d.T.), il racket mafioso. Nel giro di qualche mese, quasi un centinaio di commercianti e piccoli industriali lo hanno fatto arrestare 850 membri della “piovra”. In tempi normali, è necessario un coraggio che sconfina nell’eroismo con l’eroismo per compiere il passo verso la legalità. La mafia ha buona memoria. Non è mai troppo tardi per regolare i suoi conti. Ma in questa città della costa Sud della Sicilia, dove è stato firmato il primo trattato di pace del mondo nell’anno 425 a.C., è nata una formidabile speranza. Su istigazione di magistrati determinati e di un dinamico sindaco di 58 anni, Rosario Crocetta, prende forma un movimento di rivolta civile.
Sarebbe ora. Alla fine degli anni ‘90, Gela meritava ampiamente la sua reputazione di avamposto dell’inferno: una guerra tra due organizzazioni rivali, Cosa Nostra e la Stidda, variante locale, aveva fatto 400 morti prima che le “famiglie” proclamassero la “pace mafiosa”. Gela conta oggi 85000 abitanti, (ciò) che la rende la quinta città della Sicilia. L’urbanistica è anarchica, con i suoi quartieri diroccati, le sue strade senza nome, 14000 costruzioni illegali, un complesso petrolchimico sorto negli anni ‘60 che sfigura spiagge da sogno e decine di carcasse industriali abbandonate. Senza contare la distribuzione erratica dell’acqua, che lascia la città a secco per giorni.
Potere d’infiltrazione
“Gela sta cambiando”, afferma il carabiniere di turno davanti al palazzo di giustizia. Il procuratore arriva ben scortata nella sua BMW 330 blindata e guadagna rapidamente i suoi uffici. Più tardi, scrutata da decine di sguardi, condurrà il corrispondente di Le Figaro in un giro a piedi nella città, senz’altra protezione che una guardia del corpo. Storia che dimostra che una “passeggiata” sul Corso, che si riempie di gente la sera, non è molto più rischiosa che nella sua Genova natale.
Il pericolo, tuttavia, è onnipresente. Ogni anno, Gela conta 150 incendi dolosi, semplici atti di intimidazione. Con la crisi finanziaria, l’usura e il racket sono in piena espansione. Secondo il sindaco Crocetta, la “messa in regola”, altrimenti detto il pagamento del “pizzo”, costa in media 500 euro al mese al commerciante o all’industriale. A Gela, sarebbero 3000 in questa situazione. Gli sfortunati che non possono pagare devono cedere alla mafia, attraverso dei prestanome, unaparte delle loro attività, in cui [la mafia] ricicla i suoi guadagni.
Il potere di infiltrazione dei mafiosi non conosce limiti. A fine marzo, Lucia Lotti ha fatto arrestare sette affiliati alla Stidda così come un ex terrorista. Progettavano di rapire un dirigente di una banca di Ragusa. Uno di loro gestiva il club nautico, luogo d’incontro abituale della migliore società di Gela. Le forze dell’ordine hanno sequestrato kalashnikov ed esplosivi. Le intercettazioni telefoniche sono state decisive.
Altro esempio: il presidente di una grossa cooperativa di Gela, un certo Stefano Italiano, è stato colpito dalla giustizia. Aveva denunciato una banda che lo taglieggiava. Omettendo tuttavia di dire che aveva riciclato per questa banda considerevoli fondi illeciti. Aveva tentato di cambiare facendosi eleggere vice-presidente del comitato locale anti-racket. “Potrebbe essere Pirandello. Non è che una miserabile farsa quotidiana”, insorge la drammaturga Silvia Grasso.
“Né il tempo né i mezzi”
Per Rosario Crocetta, Gela è la prima città d’Italia ad essersi ribellata in massa contro la mafia. “La stiamo liberando”, proclama il sindaco. Personaggio fuori dal comune nell’Italia conformista del Sud, questo sindaco, comunista ed omosessuale, è in carica da sette anni. Nel giugno 2007, è stato rieletto al primo turno con il 65% dei voti. Ha allontanato le imprese mafiose dai mercati pubblici, epurato l’amministrazione dai suoi funzionari sospetti, tra cui la moglie di un boss locale, denunciato pubblicamente i capi dei clan e creato con quattro imprenditori un comitato di lotta contro il “pizzo”. Un “cambiamento epocale” dice. Vive sotto scorta e si sposta in un’auto blindata.
Ma il palazzo di giustizia manca di effettivi. “A breve termine, non ci saranno più sostituti [procuratori] a Gela”, spiega un altro procuratore, Anna Canapa. Una legge votata nel 2007 dalla sinistra impedisce ai procuratori di reclutare magistrati che abbiano meno di quattro anni di anzianità. All’ultimo concorso, su cento candidati, nessuno si è presentato volontario per Gela. A settembre, una volta terminate le sostituzioni temporanee, il giudice Canapa non avrà che un sostituto anziché cinque. Lucia Cotti conoscerà una situazione identica.
Procuratore capo del distretto giudiziario di Caltanissetta (centro della Sicilia) da cui dipende [la procura di] Gela e capo della procura antimafia, Sergio Lari traccia una situazione allarmante: “Salvo che a Palermo e Catania, la maggior parte delle procure siciliane funziona con il 50% dei propri effettivi. Non ho né il tempo né i mezzi per chiudere le inchieste”. Vi si aggiungono le riduzioni dei finanziamenti: ha già esaurito i 70000 euro assegnati per i costi di gestione del 2009; l’anno precedente ne aveva avuti 400000. “Globalmente abbiamo perso i due terzi degli stanziamenti” dice.
A fine pomeriggio, il palazzo di giustizia è stranamente deserto. Corridoi e uffici vuoti. Nessun poliziotto di turno al piano del procuratore, tuttavia dotato di una protezione ravvicinata. La giustizia italiana non ha più i mezzi per pagare. La mafia ne approfitta.
“Il tribunale di Gela è la sede della legalità dello Stato”, proclama un manifesto delle organizzazioni cattoliche di sinistra, le Acli. “Non si paga”, afferma un grande striscione che barra il portone d’ingresso del municipio. Segue un numero di telefono a cui possono rivolgersi coloro che vogliono denunciare il “pizzo” (in italiano nel testo originale N.d.T.), il racket mafioso. Nel giro di qualche mese, quasi un centinaio di commercianti e piccoli industriali lo hanno fatto arrestare 850 membri della “piovra”. In tempi normali, è necessario un coraggio che sconfina nell’eroismo con l’eroismo per compiere il passo verso la legalità. La mafia ha buona memoria. Non è mai troppo tardi per regolare i suoi conti. Ma in questa città della costa Sud della Sicilia, dove è stato firmato il primo trattato di pace del mondo nell’anno 425 a.C., è nata una formidabile speranza. Su istigazione di magistrati determinati e di un dinamico sindaco di 58 anni, Rosario Crocetta, prende forma un movimento di rivolta civile.
Sarebbe ora. Alla fine degli anni ‘90, Gela meritava ampiamente la sua reputazione di avamposto dell’inferno: una guerra tra due organizzazioni rivali, Cosa Nostra e la Stidda, variante locale, aveva fatto 400 morti prima che le “famiglie” proclamassero la “pace mafiosa”. Gela conta oggi 85000 abitanti, (ciò) che la rende la quinta città della Sicilia. L’urbanistica è anarchica, con i suoi quartieri diroccati, le sue strade senza nome, 14000 costruzioni illegali, un complesso petrolchimico sorto negli anni ‘60 che sfigura spiagge da sogno e decine di carcasse industriali abbandonate. Senza contare la distribuzione erratica dell’acqua, che lascia la città a secco per giorni.
Potere d’infiltrazione
“Gela sta cambiando”, afferma il carabiniere di turno davanti al palazzo di giustizia. Il procuratore arriva ben scortata nella sua BMW 330 blindata e guadagna rapidamente i suoi uffici. Più tardi, scrutata da decine di sguardi, condurrà il corrispondente di Le Figaro in un giro a piedi nella città, senz’altra protezione che una guardia del corpo. Storia che dimostra che una “passeggiata” sul Corso, che si riempie di gente la sera, non è molto più rischiosa che nella sua Genova natale.
Il pericolo, tuttavia, è onnipresente. Ogni anno, Gela conta 150 incendi dolosi, semplici atti di intimidazione. Con la crisi finanziaria, l’usura e il racket sono in piena espansione. Secondo il sindaco Crocetta, la “messa in regola”, altrimenti detto il pagamento del “pizzo”, costa in media 500 euro al mese al commerciante o all’industriale. A Gela, sarebbero 3000 in questa situazione. Gli sfortunati che non possono pagare devono cedere alla mafia, attraverso dei prestanome, unaparte delle loro attività, in cui [la mafia] ricicla i suoi guadagni.
Il potere di infiltrazione dei mafiosi non conosce limiti. A fine marzo, Lucia Lotti ha fatto arrestare sette affiliati alla Stidda così come un ex terrorista. Progettavano di rapire un dirigente di una banca di Ragusa. Uno di loro gestiva il club nautico, luogo d’incontro abituale della migliore società di Gela. Le forze dell’ordine hanno sequestrato kalashnikov ed esplosivi. Le intercettazioni telefoniche sono state decisive.
Altro esempio: il presidente di una grossa cooperativa di Gela, un certo Stefano Italiano, è stato colpito dalla giustizia. Aveva denunciato una banda che lo taglieggiava. Omettendo tuttavia di dire che aveva riciclato per questa banda considerevoli fondi illeciti. Aveva tentato di cambiare facendosi eleggere vice-presidente del comitato locale anti-racket. “Potrebbe essere Pirandello. Non è che una miserabile farsa quotidiana”, insorge la drammaturga Silvia Grasso.
“Né il tempo né i mezzi”
Per Rosario Crocetta, Gela è la prima città d’Italia ad essersi ribellata in massa contro la mafia. “La stiamo liberando”, proclama il sindaco. Personaggio fuori dal comune nell’Italia conformista del Sud, questo sindaco, comunista ed omosessuale, è in carica da sette anni. Nel giugno 2007, è stato rieletto al primo turno con il 65% dei voti. Ha allontanato le imprese mafiose dai mercati pubblici, epurato l’amministrazione dai suoi funzionari sospetti, tra cui la moglie di un boss locale, denunciato pubblicamente i capi dei clan e creato con quattro imprenditori un comitato di lotta contro il “pizzo”. Un “cambiamento epocale” dice. Vive sotto scorta e si sposta in un’auto blindata.
Ma il palazzo di giustizia manca di effettivi. “A breve termine, non ci saranno più sostituti [procuratori] a Gela”, spiega un altro procuratore, Anna Canapa. Una legge votata nel 2007 dalla sinistra impedisce ai procuratori di reclutare magistrati che abbiano meno di quattro anni di anzianità. All’ultimo concorso, su cento candidati, nessuno si è presentato volontario per Gela. A settembre, una volta terminate le sostituzioni temporanee, il giudice Canapa non avrà che un sostituto anziché cinque. Lucia Cotti conoscerà una situazione identica.
Procuratore capo del distretto giudiziario di Caltanissetta (centro della Sicilia) da cui dipende [la procura di] Gela e capo della procura antimafia, Sergio Lari traccia una situazione allarmante: “Salvo che a Palermo e Catania, la maggior parte delle procure siciliane funziona con il 50% dei propri effettivi. Non ho né il tempo né i mezzi per chiudere le inchieste”. Vi si aggiungono le riduzioni dei finanziamenti: ha già esaurito i 70000 euro assegnati per i costi di gestione del 2009; l’anno precedente ne aveva avuti 400000. “Globalmente abbiamo perso i due terzi degli stanziamenti” dice.
A fine pomeriggio, il palazzo di giustizia è stranamente deserto. Corridoi e uffici vuoti. Nessun poliziotto di turno al piano del procuratore, tuttavia dotato di una protezione ravvicinata. La giustizia italiana non ha più i mezzi per pagare. La mafia ne approfitta.
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