Lo ha stabilito la prima sezione penale della Corte di cassazione che, con la sentenza 18218 di oggi, ha respinto il ricorso del pentito e confermato l'ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Roma con la quale era stata respinta la richiesta di detenzione domiciliare.
Secondo i giudici di merito mancava un requisito fondamentale: "il ravvedimento".
Ciò perché, avevano spiegato "pur avendo l'istante intrapreso nel 2003 il percorso della collaborazione con la giustizia, l'osservazione penitenziaria condotta in istituto non aveva ancora evidenziato il perfezionamento di un adeguato percorso di revisione critica del proprio vissuto deviante ed un compiuto e concreto ravvedimento inteso come un evidente riconoscimento dei propri errori ed una convinta adesione a valori ed a regole di vita socialmente condivise".
In particolare, ha chiarito il Collegio, "a parte la stessa eccessiva lontananza della scadenza della pena, fissata nel 2020, che pone non pochi limiti alla concreta praticabilita' della misura, senza perdere di reale incisività ed efficacia i giudici del tribunale "hanno dato piena contezza del processo logico seguito e delle ragioni che impedivano di formulare un giudizio prognostico totalmente favorevole circa la possibilità che il condannato si astenesse in futuro dal commettere ulteriori reati".
Non basta. "Il tribunale inoltre - hanno messo nero su bianco i giudici di legittimità - nel compiere le proprie valutazioni, non si è basato soltanto sulla redazione redatta nel giugno 2005 dagli operatori penitenziari, rendendo conto anche degli aggiornamenti redatti successivamente, ponendo in evidenza, quanto alla collaborazione probatoria, che la stessa non puo' avere alcun decisivo rilievo in sede di valutazione circa la concedibilita' di misure alternative alla detenzione in carcere".
Fonte: virgilio.it
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