GELA (CALTANISSETTA) - Agenti della polizia di Stato hanno eseguito cinque ordini di custodia cautelare in carcere nei confronti di presunti esattori del pizzo a Gela. I provvedimenti emessi dal gip Paolo Scotto di Luzio, su richiesta dei pm della Dda, riguardano i presunti responsabili delle richieste estorsive fatte nei confronti di ristoratori del nisseno.L'inchiesta è stata condotta dalla Squadra Mobile di Caltanissetta e del commissariato di Gela. Agli indagati sono contestate le accuse di associazione mafiosa, tentata estorsione aggravata ed estorsione. Le indagini hanno preso il via nella seconda metà dello scorso anno e riguardano esponenti della famiglia mafiosa di cosa nostra di Gela, dediti al racket delle estorsioni.Secondo gli inquirenti l'organizzazione imponeva ad un commerciante il pagamento di 1.500 euro al mese per la "protezione" di un ristorante a Gela. I provvedimenti di custodia cautelare eseguiti dalla polizia riguardano: Marco Ferrigno, di 35 anni, abitante a Gela, con precedenti per associazione mafiosa, sottoposto a misura di prevenzione e con obbligo di dimora nella propria cittadina; Salvatore Gravagna, di 24, operaio; Salvatore Romano, di 29, disoccupato; Francesco Greco, di 26, con precedenti per rapina ed estorsione e Salvatore Tremi, di 35, tutti abitanti a Gela.Le intercettazioni ambientali disposte dalla polizia hanno consentito di accertare le intimidazioni subite da un ristoratore. Dalle indagini emerge, infatti, che Salvatore Gravagna, inteso "Totò u Catanisi" e Marco Ferrigno, chiamato "U cunigghiaru", sottoponevano il titolare di un ristorante al pagamento mensile di una somma di denaro. I componenti dell'organizzazione, che secondo gli inquirenti sarebbero legati a Cosa nostra gelese, si recavano inoltre quotidianamente a pranzo o cena, senza mai pagare.In particolare, Gravagna e Ferrigno, da quanto si rileva dalle intercettazioni, si presentavano nel locale consigliando al titolare "di mettersi in regola", e alle sue giustificazioni basate sul fatto che c'è un periodo di crisi economica, replicavano che "i carcerati non sono morti". Per gli investigatori questa affermazione fa riferimento alla necessità della cosca di assicurare lo stipendio ai detenuti o ai loro familiari.
22 Marzo 2006
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