CATANIA - Mancano le vetture, il carburante e anche gli autisti. Restano così a piedi gli 11 magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catania che, "per protesta contro questa situazione e per problemi di sicurezza" da tempo non firmano lo "schema di accordo di protezione" inviato dal ministero dell'Interno, e oggi hanno rimesso il loro mandato nelle mani del Procuratore della Repubblica, Mario Busacca.
Le officine meccaniche si rifiutano di riparare i guasti, perchè i titolari vantano crediti per oltre 35 mila euro, la stessa cosa accade con la benzina, che i magistrati pagano di tasca loro per andare a lavorare. Il distretto giudiziario di Catania comprende anche le Procure di Siracusa, Ragusa, Modica e Caltagirone.
"Preso atto delle continue e perduranti gravissime disfunzioni riscontrate - scrivono gli 11 pm della Dda di Catania in un documento inviato al procuratore capo e al ministero della Giustizia - la carenza di personale tecnico e le condizioni fatiscenti ed obsolete delle autovetture blindate utilizzate non consentono di adeguatamente salvaguardare la nostra incolumità, nè, tanto meno, di garantire un corretto svolgimento dei compiti istituzionali"
I magistrati antimafia di Catania osservano nella missiva che "a tale deficitaria condizione si è da ultimo aggiunta una avvilente indisponibilità di risorse finanziarie che non consentono, ormai da mesi, di approvvigionare le vetture di carburante, nemmeno per garantire la nostra presenza in udienza". Tanto che lo comprano loro a titolo personale. "Alla luce di tale insostenibile situazione - spiegano i pm della Dda etnea, non abbiamo sottoscritto lo schema di accordo per la protezione ancora una volta trasmesso dal ministro dell'Interno il 18 agosto scorso".
"I componenti della Direzione distrettuale antimafia - concludono gli 11 sostituti procuratori - ritengono di non dover ulteriormente subire la mortificazione di non potere adempiere di fatto ai propri compiti istituzionali come legge prescrive e coscienza impone, rassegnando, pertanto, il nostro mandato".
Il documento è firmato dai sostituti Francesco Puleio, Ignazio Fonzo, Fabio Scavone, Giovannella Scaminaci, Agata Santonocito, Francesco Testa, Iole Boscarino, Alessandro Centonze, Federico Falzone, Pasquale Pacifico, Andrea Ursino.
"Una cosa del genere non è tollerabile in un territorio in cui la mafia è ancora viva". Così il procuratore della Repubblica di Catania, Mario Busacca, commenta la vicenda. "Comprendo le motivazioni dei miei magistrati antimafia - aggiunge il procuratore Busacca - ma accettare le loro dimissioni sarebbe una sconfitta dello Stato e per questo non le potrò accettare. Certo dovrò limitare l'invio dei nostri pm antimafia fuori da Catania per problemi di bilancio ma soprattutto di sicurezza".
Il procuratore di Catania ricorda di "avere da tempo segnalato al ministero della Giustizia la grave situazione in cui lavoriamo per carenze finanziarie". "E adesso - conclude - invierò anche questa lettera dei miei 11 pm della Dda al ministro della Giustizia. Vedremo...".
30/10/2006
Fonte: La Sicilia
Se pensi che la mafia possa essere in qualche modo positiva o possa aiutare la Sicilia per favore esci da questo blog!
martedì, ottobre 31, 2006
lunedì, ottobre 30, 2006
Pentito fa il nome di Cesa
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«Ribadisco – prosegue – la mia totale estraneità ai fatti non conoscendo in alcun modo il pentito in questione e denuncio una campagna di accanimento ai danni della mia persona – e mio tramite – del partito per finalità a me ignote ma che possono essere, vista la mia totale estraneità a qualunque episodio illecito, solo ed esclusivamente di natura politica. Da tempo ho dato mandato al mio legale di presentare denuncia per calunnia, a tutela della verità e della salvaguardia della mia immagine e di quella dell'Udc».
Il settimanale scrive che il tesoriere del segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, Giovanni Randazzo, «avrebbe organizzato un giro di fatture gonfiate nei confronti di un'agenzia dell'Onu per finanziare Cesa e il suo partito, l'Udc». A rivelarlo ai pm romani, che secondo il settimanale avrebbero iscritto Randazzo e Cesa nel registro degli indagati per finanziamento illecito al partito, sarebbe stato un «coetaneo palermitano» del tesoriere, Francesco Campanella, "superpentito" di mafia.
Fonte: La gazzetta del Sud
Al Ministero si parla di Gela
Roma, 27 ott. (Apcom) - Il Ministro dell'Interno, Giuliano Amato, con il Sottosegretario Ettore Rosato, ha incontrato ieri al Viminale una delegazione della F.A.I. (Federazione Antiracket Italiana), guidata dal Presidente Tano Grasso, e il sindaco di Gela, Rosario Crocetta. La riunione è servita per fare il punto sulla situazione del racket e della criminalità mafiosa a Gela.
Il Presidente Grasso ha spiegato che "in città si riscontra un clima nuovo, con decine di imprenditori che denunciano i taglieggiatori e il superamento della vecchia omertà". Tutto questo, però, ha sostenuto ancora Grasso, "ha fatto sì che la mafia assumesse un atteggiamento di sfida, alzando il livello delle minacce contro chi si schiera in favore della legalità". Il Ministro Amato ha garantito il pieno sostegno dello Stato, e del Ministero dell'Interno in particolare, all'azione dell'Associazione guidata da Grasso e a tutti gli imprenditori e commercianti che si stanno ribellando alla mafia.
"La vostra battaglia - ha detto - è anche la mia battaglia". Proprio per testimoniare questa vicinanza, il Ministro ha assicurato una sua prossima visita a Gela per incontrare gli imprenditori impegnati contro il racket e tutti coloro che in città si oppongono alla diffusione della criminalità organizzata.
Fonte: virgilio.it
Il Presidente Grasso ha spiegato che "in città si riscontra un clima nuovo, con decine di imprenditori che denunciano i taglieggiatori e il superamento della vecchia omertà". Tutto questo, però, ha sostenuto ancora Grasso, "ha fatto sì che la mafia assumesse un atteggiamento di sfida, alzando il livello delle minacce contro chi si schiera in favore della legalità". Il Ministro Amato ha garantito il pieno sostegno dello Stato, e del Ministero dell'Interno in particolare, all'azione dell'Associazione guidata da Grasso e a tutti gli imprenditori e commercianti che si stanno ribellando alla mafia.
"La vostra battaglia - ha detto - è anche la mia battaglia". Proprio per testimoniare questa vicinanza, il Ministro ha assicurato una sua prossima visita a Gela per incontrare gli imprenditori impegnati contro il racket e tutti coloro che in città si oppongono alla diffusione della criminalità organizzata.
Fonte: virgilio.it
Ricordando Di Rudinì
L'archivio della memoria orale conserva più verità di quanto non si supponga: i fatti tramandati di generazione in generazione acquistano col tempo un sapore di leggenda e si caricano di fantasie popolari e del peso delle tradizioni, ma non perdono l'autenticità. E il volume di Gaspare Di Mercurio «La settimana dell'anarchia del 1866 a Palermo. Antonio Rudinì primo sindaco contro la mafia», edito da Ila Palma, oltre a contenere gli esiti di accurate ricerche bibliografiche e documenti d'ufficio, riporta storie raccontate da anziani, mai state scritte.
Rivive in queste pagine di Gaspare Di Mercurio la figura di Rudinì, che prese posizione contro la mafia, la quale, sfruttando il malcontento delle popolazioni siciliane dopo il compimento dell'Unità d'Italia, tesseva le sue trame, ammantate di rivendicazionismo politico. La fiducia riposta negli uomini che avevano guidato la campagna meridionale e collaborato ai governi di Vittorio Emanuele II, si era affievolita, man mano che la Sicilia diventava terra di conquista della burocrazia piemontese e dei grandi elettori locali, che con la livrea del perbenismo erano riusciti ad impadronirsi delle leve del potere.
Un capitolo estremamente interessante è quello dei «mandanti impuniti». Scrive Di Mercurio: «Era assurdo pensare che l'arcivescovo di Palermo, i monsignori, i padri guardiani di alcuni conventi, le badesse di monasteri, buona parte del clero e quella larga frangia dell'aristocrazia rimasta legata ai Borboni sarebbero dovuti salire sul banco degli imputati, ed essere condannati come mandanti e responsabili dei luttuosi episodi della settimana dell'anarchia».
Il sindaco Antonio di Rudinì con molto coraggio denunciò: «Nella lotta tra il delinquente ed il governo, il siciliano onesto rimaneva indifferente, chiudeva gli occhi, ma simpatizzava per il delinquente». Rudinì al giovane Leopoldo Notarbartolo ebbe a dire dopo la scandalosa sentenza di assoluzione dell'on. Raffaele Palizzolo: «Se sei certo che Palizzolo sia il mandante dei sicari di tuo padre, non resta che farti giustizia da te». Era il tardivo risveglio di quell'animus siciliano?
Fonte: La Sicilia
Rivive in queste pagine di Gaspare Di Mercurio la figura di Rudinì, che prese posizione contro la mafia, la quale, sfruttando il malcontento delle popolazioni siciliane dopo il compimento dell'Unità d'Italia, tesseva le sue trame, ammantate di rivendicazionismo politico. La fiducia riposta negli uomini che avevano guidato la campagna meridionale e collaborato ai governi di Vittorio Emanuele II, si era affievolita, man mano che la Sicilia diventava terra di conquista della burocrazia piemontese e dei grandi elettori locali, che con la livrea del perbenismo erano riusciti ad impadronirsi delle leve del potere.
Un capitolo estremamente interessante è quello dei «mandanti impuniti». Scrive Di Mercurio: «Era assurdo pensare che l'arcivescovo di Palermo, i monsignori, i padri guardiani di alcuni conventi, le badesse di monasteri, buona parte del clero e quella larga frangia dell'aristocrazia rimasta legata ai Borboni sarebbero dovuti salire sul banco degli imputati, ed essere condannati come mandanti e responsabili dei luttuosi episodi della settimana dell'anarchia».
Il sindaco Antonio di Rudinì con molto coraggio denunciò: «Nella lotta tra il delinquente ed il governo, il siciliano onesto rimaneva indifferente, chiudeva gli occhi, ma simpatizzava per il delinquente». Rudinì al giovane Leopoldo Notarbartolo ebbe a dire dopo la scandalosa sentenza di assoluzione dell'on. Raffaele Palizzolo: «Se sei certo che Palizzolo sia il mandante dei sicari di tuo padre, non resta che farti giustizia da te». Era il tardivo risveglio di quell'animus siciliano?
Fonte: La Sicilia
Sequestro da parte del Gico della Guardia di Finanza
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Secondo i magistrati avrebbe investito il denaro di boss come Bernardo Provenzano e Vito Roberto Palazzolo, latitante in Sudafrica, recentemente condannato per mafia. Sull'indagine la Guardia di Finanza mantiene uno stretto riserbo. Il sospetto che gli investigatori stessero indagando sui suoi rapporti con capimafia del calibro di Provenzano e Salvatore Lo Piccolo, boss ricercato da oltre 20 anni, Sgroi l'ha avuto leggendo i giornali.
La pubblicazione di un 'pizzino' in cui i padrini parlavano degli interessi delle cosche sulla grande distribuzione l'ha messo in allarme. Così l'imprenditore ha deciso di correre al riparo, ha infilato in un sacchetto 450mila euro in contanti, è salito su un aereo ed è volato a Milano dove ha consegnato il denaro a un cittadino polacco che avrebbe dovuto mettere la somma al sicuro. Sgroi, però, non sapeva di essere intercettato. A Milano ha trovato ad attenderlo la Finanza che gli ha sequestrato i soldi.
Sul decreto emesso dalla procura dovrà ora pronunciarsi, in sede di convalida, il gip Silvana Saguto. Ma l'inchiesta condotta dal pm della dda Nico Gozzo non riguarda solo il riciclaggio. C'è il sospetto che l'imprenditore abbia potuto contare sull'aiuto di funzionari compiacenti all'aeroporto di Palermo che avrebbero chiuso un occhio consentendogli di viaggiare indisturbato col denaro. Dei rapporti tra Sgroi e i boss ha parlato anche il pentito Nino Giuffrè che ha raccontato di interessi comuni tra l'imprenditore palermitano e Palazzolo. Infine in un'intercettazione telefonica, depositata al processo al boss latitante in Sudafrica, emergerebbe l'interesse di Provenzano sulla Sisa.
27/10/2006
Fonte: La Sicilia
venerdì, ottobre 27, 2006
Berlusconi non testimonierà
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Berlusconi nel processo di primo grado, citato dalla procura, si era avvalso della facoltà di non rispondere e successivamente la difesa del senatore aveva rinunciato al suo esame ritenendolo "manifestamente superfluo", circostanza che ha indotto la corte a respingere la richiesta di risentirlo nel dibattimento in corso.
I giudici hanno respinto anche l'istanza di esame di Dell'Utri, avanzata sempre dai suoi legali, ritenendo che "in questa fase l'imputato abbia solo la facoltà di rendere eventuali dichiarazioni spontanee".
27/10/2006
Fonte: La Sicilia
Arrestati per tentata estorsione
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Gli arrestati per la tentata estorsione sono Giacomo Rini, 69 anni, il figlio Francesco, di 31, entrambi titolari di una rivendita di materiale edile di Caccamo; Bartolomeo Licciardi, 46 anni, di Ficarazzi (PA), e Tommaso Lo Verso, 28 anni di Bagheria.
I quattro sono accusati in concorso di aver tentato, tra l'ottobre 2005 ed il gennaio 2006, una estorsione ai danni del direttore della banca di Caccamo, cercando di indurlo a scontare i debiti di Giacomo Rini. Il direttore era stato fatto bersaglio di messaggi di morte e gli è stata anche recapitata la testa mozzata di una pecora, con in bocca delle cartucce calibro 38.
27/10/2006
Fonte: La Sicilia
Condanne per Brusca e Madonia
PALERMO - Il gup Mario Conte ha condannato, con rito abbreviato, il pentito Giovanni Brusca e il boss Salvatore Madonia per l'omicidio del vigile del fuoco Gaetano Genova, eliminato con la lupara bianca a marzo del 1990. Il collaboratore di giustizia è stato condannato a 14 anni e 4 mesi, mentre il capomafia a 30 anni.
Genova venne ucciso perchè ritenuto dai mafiosi amico del collaboratore del Sisde Emanuele Piazza, anche lui assassinato nel 1990. Entrambi, secondo i boss, erano a caccia di latitanti. I resti del cadavere di Genova sono stati ritrovati nel 1998 grazie alle indicazioni di alcuni pentiti che hanno mostrato il luogo in cui il vigile venne seppellito.
26/10/2006
Fonte: La Sicilia
Genova venne ucciso perchè ritenuto dai mafiosi amico del collaboratore del Sisde Emanuele Piazza, anche lui assassinato nel 1990. Entrambi, secondo i boss, erano a caccia di latitanti. I resti del cadavere di Genova sono stati ritrovati nel 1998 grazie alle indicazioni di alcuni pentiti che hanno mostrato il luogo in cui il vigile venne seppellito.
26/10/2006
Fonte: La Sicilia
La Corte d'Assise infligge 30 ergastoli
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I giudici hanno dichiarato non doversi procedere per il collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, perchè il reato è stato estinto per prescrizione per effetto delle attenuanti di cui godono i pentiti. Per il delitto di Ernesto Battaglia, così come aveva chiesto il pg, i giudici hanno assolto la commissione mafiosa, compresi Provenzano e Riina, che sono stati condannati per altre posizioni. Per il delitto di Antonino Mineo è stato assolto solo Salvatore Montalto. Per il triplice omicidio commesso a Bagheria in cui vennero uccisi i familiari del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, per una vendetta trasversale, è stato assolto Francesco Madonia.
Il processo ha ricostruito dieci anni di delitti: dalla morte del boss Stefano Bontade, il Principe di Villagrazia, ucciso il 23 aprile 1981, che segnò l'inizio della guerra di mafia, all'eliminazione di Salvatore Inzerillo, boss di Passo di Rigano, un altro dei capi di quelle che di lì a poco sarebbero divenute le cosche perdenti. Tra gli altri episodi di sangue vi sono gli omicidi di Vincenzo Puccio e Mario Prestifilippo. Tra i boss che in primo grado sono stati condannati all' ergastolo figurano Riina, Provenzano, Pietro Aglieri, Raffaele Ganci, Leonardo Greco e Nicolò Eucaliptus, questi ultimi due capimafia di Bagheria e ritenuti favoreggiatori di Provenzano, che oggi hanno assistito in aula, nella stessa cella, alla lettura del dispositivo di sentenza.
25/10/2006
Fonte: La Sicilia
Appalti pubblici in Sicilia
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Anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, faranno parte dell'equipe che lavorerà per stabilire "quanto costa la mafia alla Sicilia". Oltre a Grasso e Messineo sono nel comitato tecnico-scientifico: Caterina Chinnici, procuratore presso il Tribunale per i minori di Caltanissetta e vicepresidente della fondazione intitolata al padre; Innocenzo Cipolletta, per il Centro di ricerca sui mercati finanziari della Luiss di Roma; Ettore Artioli, vicepresidente di Confindustria; Cosimo Sasso, direttore della Dia; Fabio Roia, sostituto procuratore a Milano e presidente di commissione del Csm; Alberto Tazzetti, presidente dell'Unione degli industriali di Torino; i docenti universitari Mario Centorrino, Vincenzo Militello ed Ernesto Savona.
Lo scopo, spiega Giovanni Chinnici, figlio del magistrato ucciso a Palermo nella strage del 29 luglio 1983, è "fare luce sui costi diretti e su quelli indiretti delle diverse forme criminose". Secondo Antonio La Spina, sociologo nell'università di Palermo e ricercatore senior dell'indagine, "incidono direttamente il pizzo, le tangenti, le assunzioni imposte, e indirettamente le distorsioni della concorrenza e le compressioni del business che ne derivano".
Del gruppo di coordinamento faranno parte anche il procuratore aggiunto di Palermo Guido Lo Forte, il giudice del Tribunale palermitano Antonio Balsamo e Massimo Plescia, imprenditore di Confindustria. La ricerca durerà un anno e in seguito potrà essere estesa oltre i confini della Sicilia.
Fonte: Affari italiani
Intervista a Simonetta Amenta
Bologna - Al margine della manifestazione biennale “Gli stati generali del documentario italiano”, abbiamo incontrato la palermitana Simonetta Amenta che dirige la Eurofilm, casa di produzione cinematografica con sede a Roma. Simonetta ha prodotto “Il diario di una siciliana ribelle” - che racconta la storia di Rita Atria - e “Il fantasma di Corleone”, quest’ultimo uscito nel marzo di quest’anno, poco prima che Bernardo Provenzano fosse catturato. Il regista di entrambi i documentari è il fratello di Simonetta, Marco. In queste giornate degli “Stati generali” è emerso chiaramente che in Italia non ci sono soldi per i documentari: mentre in Francia una tv commerciale arriva a trasmettere documentari per il 26% del proprio palinsesto, sulla RAI si arriva al 4%. Cerchiamo di capire come si realizzi un documentario nella difficile terra di Sicilia e contro quali ostacoli ci si scontri parlando di mafia. D: Simonetta, quanti soldi ha speso la Eurofilm, la tua casa di produzione, per “Il fantasma di Corleone”? R: Zero. Il compito della Eurofilm è stato quello di reperire i soldi. Poi c’è stato un anno di lavoro tra produzione, scrittura, interviste e contatti. D: Avete ricevuto fondi da parte delle istituzioni siciliane? R: La Film Commission di Palermo ci ha dato 3000 €. Il documentario è costato circa 300.000 €, la maggior parte dei finanziamenti sono venuti da broadcaster di Francia, Germania e dall’Unione Europea. D: “Il fantasma di Corleone” ha avuto successo? R: È stato trasmesso nelle tv di Francia, Germania, Belgio e altri paesi europei. All’estero la storia suscita molto interesse. D: E in Italia? R: È stato proiettato a Roma, Palermo e poche altre città, solo in sale d’essai. Sembra che la RAI adesso abbia intenzione di comprarlo. D: Com’è stato girare in Sicilia un documentario che parla di mafia? Avete cercato di fare “di nascosto”? R: Dal momento che metti in moto la cinepresa tutti sanno quello che stai facendo, è impossibile nascondersi. Il fatto di essere siciliani e di saper parlare con la gente, ci ha facilitati in qualche modo. D: Nel documentario tuo fratello dice di esser scappato dalla Sicilia dopo le morti di Falcone e Borsellino. Anche tu hai fatto la stessa scelta? R: Ho studiato a Roma e sono rimasta lì perché in Italia il cinema si fa a Roma. Ad ogni modo, quando sei lontano la terra ti manca e allora trovi tutte le ragioni per tornarci. D: Perché questo documentario su Provenzano? R: Per anni di Provenzano non se n’è parlato, sembrava fosse veramente un fantasma. D: Dopo la cattura di Provenzano pensi ci sarà una guerra di mafia? R: Non penso proprio, Cosa Nostra si è gia riorganizzata eleggendo nuovi capi al suo interno. D: Qual è il significato de “Il fantasma di Corleone”? R: È un’accusa allo Stato. D: Che accoglienza ha ricevuto “Il fantasma di Corleone” in Sicilia? R: Ci sono stati commenti positivi. Forse ha dato fastidio alla classe dirigente siciliana.
Fonte: Isola possibile
Fonte: Isola possibile
Fava a teatro
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Ne è scaturito un testo che si muove attraverso le testimonianze di mafiosi, investigatori, testimoni, è il racconto - in presa diretta, quasi in prima persona - di chi ha subito quella disgrazia: la famiglia, il figlio, l'autore. Ed è bello che Ninni Bruschetta, con la sua compagnia Nutrimenti Terrestri, abbia voluto continuare quel percorso nel teatro impegnato, coraggioso, fatto di arte e dignità, di forma e contenuto, già avviato da tempo: Bruschetta non ha mai smesso di investigare il lato oscuro del potere, affrontando direttamente - con la presenza viva dei suoi attori - i mille risvolti delle verità taciute, della disinformazione sistematica, dell'ambizione e della collusione, della gestione di poteri e del risvolto quotidiano, sociale di quel potere.
Il regista ha sviluppato un percorso nel teatro in cui si scopre come quel "fenomeno" che è la mafia, nei suoi cento anni di vita, abbia condizionato la vita civile ed economica del paese, controllando le scelte e le decisioni politiche, corrompendo i mediocri e uccidendo chi osa sfidare o combatterla. In un momento in cui un velo di pubblica omertà copre e nega i delitti della mafia, della camorra e di altre più o meno oscure associazioni a delinquere, il teatro - con il suo porre faccia a, faccia attori e spettatori - riscopre un compito importante, che è quello di ricordare, di raccontare, di testimoniare.
"L'Istruttoria" è portato in scena in modo molto semplice, ma efficace. Con la suggestiva musica dal vivo dei Dounia, l'attivissima collaborazione di Laura Giacobbe, una piccola struttura scenica di Mariella Bellantone e due bravi interpreti che hanno il compito di dar voce e corpo ai tanti protagonisti di quella vicenda criminale, l'ottimo e trasformistico Claudio Gioè, già apprezzato in film di rilievo come Cento Passi o La meglio gioventù, e la magnetica e dolente Donatella Finocchiaro, già splendida interprete di Angela di Roberta Torre.
La storia racconta di un giornalista coraggioso e umile: Giuseppe Fava, che - in una Catania creduta, sino ad allora, lontana dai tentacoli mafiosi - viene crivellato di colpi da due killer. Il processo è un susseguirsi di personaggi squallidi e curiosi, violenti e grotteschi: il paradosso di questo spettacolo è che riesce anche a far ridere delle contraddizioni, delle millanterie, delle fumosità, delle reticenze, delle complicità. Si ride, perché tutto sembra assurdo: e invece quella è la realtà, quello il mondo, quella Catania, la Sicilia, l'Italia.
Fonte: virgilio.it
giovedì, ottobre 26, 2006
Il dolce e l'amaro
ROMA — Saro Scordia (Luigi Lo Cascio) è orgoglioso. Lui non fa più file. Per rispetto, tutti lo fanno passare avanti. Qualche hanno dopo, lo stesso Scordia, è ancora orgoglioso, ma di aspettare il proprio turno. In questo paradosso la trama de Il dolce e l’amaro, film di Andrea Porporati con protagonisti, oltre Lo Cascio, la palermitana Donatella Finocchiaro, Fabrizio Gifuni, Renato Carpentieri, Tony Gambino, Gaetano Bruno e Ornella Giusto. Per capire cosa è accaduto bisogna seguire i 25 anni di vita (dagli anni 70 a metà degli anni 90) di questo ragazzo cresciuto tra i vicoli del quartiere palermitano della Kalsa e iniziato alla mafia perchè, secondo Gaetano Butera (Tony Gambino), è un ‘picciotto’ promettente. Ma Saro, dopo essere entrato nella mafia a un certo punto vorrà tornare indietro. Diventare un uomo normale. Motivo? La consapevolezza di fare una cosa sbagliata, ma soprattutto l’amore per Ada (Finocchiaro) una maestrina che, pur amandolo, non vuole condividere con lui la sua vita da criminale. «Non è un film sulla mafia, ma sui contorni di questa istituzione criminale — ci tiene a dire Porporati sceneggiatore di successo (La Piovra 7 e 9, Lamerica), scrittore e regista de La luce negli occhi (2001) —. Ad esempio: cosa succede prima e dopo l’iniziazione all’omicidio di un giovane mafioso? Ho cercato di far vedere come non sia facile uccidere e, ancora, che dopo l’ubriacatura del potere si possa anche considerare l’idea di tornare indietro». Fabrizio Gifuni — nel film che domani chiuderà le riprese per uscire a gennaio distribuito da Medusa — è invece Stefano Massirenti: «un ragazzo che cresce nello stesso quartiere di Saro e che condivide con lui l’amore per Ada. Ma, alla fine, prenderà la strada opposta rispetto al suo coetaneo: diventerà giudice».
Fonte: la provincia di Cremona
Fonte: la provincia di Cremona
mercoledì, ottobre 25, 2006
Nuovo Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia
Dopo il figlio, conferma anche per il padre.
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25/10/2006
Fonte: La Sicilia
martedì, ottobre 24, 2006
Conferma del carcere duro per Riina jr
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24/10/2006
Fonte: La Sicilia
Delitto Gaglianò
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23/10/2006
Fonte: La Sicilia
lunedì, ottobre 23, 2006
Totò fa ancora discutere...
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22/10/2006
Fonte: la Sicilia
Sempre più mafia al nord
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Fonte: Giornale di Vicenza
sabato, ottobre 21, 2006
Arrestato boss Greco per estorsione
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21/10/2006
Fonte: La Sicilia
Sequestrata azienda dei Graviano
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21/10/2006
Fonte: La Sicilia
venerdì, ottobre 20, 2006
Totò chiede la revoca del 41bis
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Già l'anno scorso Riina aveva chiesto la revoca del particolare regime che invece era stato prorogato. Ora la sua istanza punta ad ottenere l'annullamento della proroga che scadrà il 15 dicembre prossimo. Gli avvocati Luca Cianfaroni, Riccardo Donzelli e Valerio Vianello hanno spiegato nella domanda i vari motivi attraverso i quali il loro assistito, condannato a diversi ergastoli, mira a poter avere colloqui con i familiari oltre all'allentamento dei rigori previsti dal 41 bis.
La decisione sarà depositata dal Tribunale entro cinque giorni.
20/10/2006
Fonte: La Sicilia
giovedì, ottobre 19, 2006
Una donna a capo di una cosca
MESSINA - Una donna era a capo della famiglia mafiosa che gestiva la zona Sud di Messina mettendo a punto traffici illeciti, lo spaccio di droga e le estorsioni. Il dato emerge dall'inchiesta della Squadra Mobile della città dello Stretto che stamani ha portato all'esecuzione di 13 ordini di custodia cautelare fra cui compare quello a carico di Letteria Rossano, di 42 anni, moglie di Giacomo Sparta, il boss già detenuto e sottoposto al regime del 41 bis.L'indagine mette in risalto in particolare come Sparta, nonostante il carcere duro in cui si trova, riusciva ugualmente a far arrivare all'esterno i suoi ordini, proseguendo in questo modo la gestione, insieme alla moglie, della famiglia mafiosa messinese. Gli arresti di stamani della polizia di Stato costituiscono un seguito all'Operazione "Albachiara", condotta il 25 marzo 2003, quando vennero arrestate 53 persone ritenute responsabili di associazione mafiosa.I provvedimenti cautelari sono stati firmati dal gip Maria Eugenia Grimaldi, su richiesta del pm Rosa Raffa. Due dei 13 ordini di custodia cautelare sono stati notificati ad un indagato già in carcere e un altro agli arresti domiciliari. Gli arrestati risiedono a Messina, tranne due che abitavano in provincia di Taranto e Como e che sono stati catturati con la collaborazione delle Squadre Mobili di quelle città. Dalle indagini sarebbe emerso che la cosca imponeva il pagamento del pizzo a imprenditori edili e a commercianti di Messina e gestiva pure lo spaccio di sostanze stupefacenti. L'inchiesta abbraccia un periodo compreso fra aprile 2004 e febbraio 2005. Durante gli accertamenti i poliziotti hanno registrato diversi episodi di estorsione in danno di imprenditori edili impegnati nella realizzazione di opere pubbliche a Messina e provincia, e inoltre, casi le cui vittime sono alcuni commercianti.Le persone arrestate dalla polizia di Messina nell'operazione 'Staffetta' e accusate a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, coltivazione e detenzione e spaccio di sostanza stupefacenti e porto e detenzione illegali di armi sono tredici, tutte affiliate al claa del boss Giacomo Spartà, detenuto in regime di 41 bis. Si tratta di Angelo Crisafi, 40 anni ritenuto negli ultimi tempi a capo del clan insieme a Letteria Rossano, 42 anni moglie di Giacomo Spartà, Mario Crisafi, 38 anni, Stefano Lucchese 34 anni, Nazzareno Pellegrino, 23 anni, Salvatore Prugno, 35 anni, Santo Rossano, 19 anni, Fabio Siracusano, 27 anni, Luca Siracusano, 30 anni, Giovanni Stroncone 30 anni, Giuseppe Cambria Scimone, 43 anni, Nicola Tavilla 41 anni.Il clan che di solito operava soprattutto nella zona sud della città negli ultimi tempi era riuscito ad avera influenza anche in provincia. Tra le aziende vittime di estorsioni vi sono: una di Oliveri con cantieri a Messina impegnata per la realizzazione degli svincoli autostrdali, un'azienda operante a Rometta per il rifacimento di argini di un torrente, una ditta che si occupa del ripascimento della costa a Gioiosa Marea e un'azienda di Patti impegnata in un cantiere di Messina per la costruzione di palazzine dell'Iacp. I proventi delle attività criminali venivano divisi anche con i clan ritenuti amici come quello di Giostra. Il nome dell'operazione nasce dalla 'staffetta' da parte di alcuni affiliati a capo del clan per gestire le estorsioni. Il testimone veniva ceduto dopo l'arresto del reggente ad un altro elemento dotato di uguale influenza. Com' è accaduto quando è stato arrestato Salvatore Prugno nel 2004 sostituito da Angelo Crisafi. Il questore di Messina Santi Giuffrè ha sottolineato con rammarico come "in questa indagine non ci sia stata quasi per niente la collaborazione da parte dei cittadini".
19/10/2006
Fonte: La Sicilia
19/10/2006
Fonte: La Sicilia
mercoledì, ottobre 18, 2006
Processo tangenti ospedale Garibaldi
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La Procura ha chiesto, tra l'altro, la condanna a cinque anni di reclusione per il senatore Pino Firrarello (Fi) per corruzione e turbativa d'asta, e a tre anni per Nuccio Cusumano (Udeur), presidente della Commissione Agricoltura del Senato, per turbativa d'asta. Per entrambi è invece stata sollecitata l'assoluzione dal capo di imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. I fatti si riferiscono al 1998, quando Cusumano era sottosegretario al Tesoro ma non era parlamentare e fu per questo arrestato dai carabinieri. Chiesti anche cinque anni e due mesi per l' imprenditore Giulio Romagnoli. Il Pm Puleio, in tre giorni di requisitoria, ha parlato di "tangenti" pagate a politici per l'acquisizione dell'appalto e "dell'attività per escludere l'azienda vincitrice, la Fratelli Costanzo, in favore della Costruzioni generali Cgp Romagnoli". "Atti irregolari e illegali - ha osservato il magistrato - che hanno danneggiato irrimediabilmente la Fratelli Costanzo, con gravi ricadute occupazionali in città, e che hanno arrecato un gravissimo danno economico e sociale a Catania che per avere un ospedale ha speso il doppio del previsto e il nosocomio è stato inaugurato con sette anni di ritardo".Il pm ha chiesto anche la condanna di Michele Cavallini (4 anni e sei mesi), Giuseppe Cicero (6 anni e 4 mesi), Rosario Furnò (3 anni), Salvatore Gennaro (3 anni), Valerio Infantino (6 anni e 10 mesi), Giuseppe Intelisano (4 anni e 6 mesi), Roberto Mangione (1 anno), Fabio Marco (5 anni), Franco Mazzone (due condanne a 4 anni ciascuno per complessivi 8 anni), Gaetana Piccolo (2 anni 8 mesi), Rosario Puglisi (3 anni e 8 mesi), Vincenzo Randazzo (5 anni), Ignazio Sciortino (1 anno), Mario Seminara (6 anni), Angelo Tirendi (1 anno e sei mesi), Giuseppe Ursino (due condanne a 3 anni e 3 mesi ciascuno per complessivi 6 anni e sei mesi).Alcuni degli avvocati difensori hanno contestato "la mancata concessione delle attuanti generiche" visto che, hanno sostenuto i legali, "gran parte degli imputati hanno assistito all'intero processo rilasciando anche dichiarazioni sui fatti". Il processo riprenderà il prossimo 30 ottobre con l'intervento degli avvocati delle parti civili: la Fratelli Costanzo, l'ospedale 'Garibaldì e l'Iacp di Catania.
(ANSA).
18/10/2006
Tano Grasso parla a Roma
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Fonte: Il tempo
Arresti nel trapanese
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Salvatore Tamburello, noto come "u puzzaru" per via dell'attività di trivellazione di pozzi che esercitava, e che attualmente esercita il figlio Matteo, arrestato anche lui stamani, è un anziano esponente di spicco di Cosa nostra trapanese. Il vecchio Tamburello è stato detenuto fino all'11 novembre 2004 nel carcere di Sulmona, da dove è stato scarcerato per motivi di salute. I carabinieri hanno accertato che nonostante la detenzione, il boss ha esercitato ugualmente sul territorio la sua funzione di reggente che avrebbe continuato a fare, secondo l'accusa, anche dopo essere uscito dal carcere. Le indagini hanno permesso di accertare come Salvatore Tamburello, attraverso il figlio Matteo ed il genero Giovanni Giacalone, ricevesse puntuali informazioni sulle vicende del mandamento mafioso, impartendo direttive. Gli inquirenti sostengono che Matteo Tamburello teneva i contatti con il boss Andrea Manciaracina, all'epoca latitante, dal quale veniva periodicamente convocato per trattare vicende relative agli interessi di Cosa nostra, che lo stesso Matteo, in alcune intercettazioni ambientali, non esitava a definire "istituzionali". Proprio dalle intercettazioni emergono i timori dei Tamburello in seguito dell'arresto di Manciaracina, catturato nel 2003 assieme al latitante marsalese Natale Bonafede. Dall'indagine emerge che l'anziano boss, all'epoca detenuto nel carcere di Trapani, aveva il timore che i due latitanti, una volta finiti in cella, avrebbero potuto aprirsi alla collaborazione con la giustizia e per questo aveva cercato di avvicinarli visto che si trovavano nello stesso istituto di pena.Le indagini hanno poi consentito di accertare come Matteo Tamburello provvedeva al sostentamento delle famiglie degli affiliati che erano arrestati. In particolare nel periodo natalizio, Matteo effettuava "il giro" e portava i soldi che l'associazione destinava alle famiglie dei detenuti mafiosi. Erano somme che variavano da mille a cinquemila euro.
18/10/2006
Fonte: La Sicilia
martedì, ottobre 17, 2006
Arresti ad Adrano
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Alcuni dei provvedimenti sono stati eseguiti nel nord Italia. I fermi sono stati eseguiti dalla squadra mobile di Catania e dal commissariato di Adrano. Durante l'operazione, sono state trovate armi, munizioni, stupefacenti e altro materiale ritenuto di provenienza illecita, considerato di interesse investigativo. In carcere sono finiti gli appartenenti di un gruppo emergente che, secondo i magistrati, tentava di prendere il controllo delle attività criminali ad Adrano scalzando i vecchi boss mafiosi.
Il progetto di un nuovo omicidio che stava per essere commesso nel Catanese, scoperto grazie alle intercettazioni telefoniche, ha reso necessaria l'emissione dei 9 provvedimenti di fermo eseguiti questa notte. In manette è finito anche l'ex pentito Giovanni Pellegriti che, dopo avere scontato una condanna per mafia, era ora agli arresti domiciliari e aveva fatto richiesta dei benefici previsti dall'indulto. Secondo quanto accertato dagli investigatori, i nove fermati cercavano di controllare le attività criminali ad Adrano. Pellegriti, che ha interrotto la collaborazione nel 1998, avrebbe messo a servizio del gruppo la sua "esperienza" criminale.
I fermati nell' operazione, denominata "Meteorite", sono oltre a Pellegriti, i fratelli Pietro e Angelo Dell' Aquila, manovali edili rispettivamente di 30 e 34 anni, Enzo Cavallaro, un commerciante di autovetture di 34 anni, Vincenzo Mazzone, un bracciante agricolo, cugino di Pellegriti, di 37, i fratelli Antonino e Alfredo Lotta, rispettivamente di 34 e 35 anni, Nicola Ciaramidaro, di 28, e Alessandro Marchesa, di 26. La zona di Adrano, della quale è originaria gran parte dei fermati, ultimamente è stata teatro del tentativo di omicidio di Francesco Coco, avvenuto il 24 maggio scorso, del triplice omicidio di Alfio Rosano, Alfio Finoccharo e Daniele Crimi, avvenuto il 27 luglio scorso nei pressi di Bronte, e del duplice omicidio di Sebatiano Ganci e Carmelo Anzalone, avvenuto il 21 settembre scorso nelle campagne tra Adrano e Bronte.
Pellegriti è stato arrestato in una località del Piemonte, Angelo Dell' Aquila a Bergamo. Gli altri fermi sono stati eseguiti nel Catanese. I provvedimenti eseguiti nel Catanese sono già stati convalidati dal gip Granfranco D' Arrigo. Alcuni degli indagati sono stati trovati in possesso di armi. Ciaramidaro, al momento dell' arresto, avvenuto nell' aeroporto di Catania mentre attendeva i complici di ritorno dalla Spagna, è stato trovato con una pistola con il colpo in canna ed il cane alzato. Il 2 agosto scorso gli agenti del commissariato di Adrano avevano sequestrato alcune pistole a Ciaramidaro, Liotta e ad Angelo Dell' Aquila, ma non avevano proceduto all' arresto per non pregiudicare le indagini.
Un' altra pistola calibro 7,65 con la matricola cancellata, insieme con 2,2 chilogrammi di hashish ed una Citroen "C3" risultata rubata è stata trovata nell' abitazione di Ciaramidaro. Liotta è stato trovato con di 300 grammi di hashish e di un motociclo risultato rubato e Mazzone con una 7,65 e munizioni. I dettagli dell' operazione, chiamata "Meteorite" a significare l' uscita di un corpo estraneo, cioè dell' organizzazione della quale facevano parte i nove arrestati, che era composta in massima parte da incensurati ed estranei al mondo mafioso, sono stati illustrati durante un incontro con i giornalisti al quale hanno preso parte, tra gli altri, il procuratore della Repubblica Mario Busacca e il sostituto procuratore Agata Santonocito.
Santonocito ha sottolineato come sia "allarmante il fatto che persone incensurate siano riuscite a trovare lo spazio e la determinazione per affermare il loro predominio". "Se ad Adrano ci sono stati dei gravi fatti di sangue - ha detto - le forze dell' ordine non hanno mai abbassato la guardia".
17/10/2006
Fonte: La Sicilia
Arrestato latitante
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Gli investigatori, grazie proprio alla chiamata effettuata dal ricercato, sono arrivati a localizzarlo e a fare intervenire immediatamente gli agenti specializzati alla cattura. Alfano al momento dell'arresto era disarmato e non ha opposto resistenza. Sono numerose le intercettazioni, effettuate nel box del capomafia Nino Rotolo, che fanno riferimento ad Alfano come un esponente di primo piano della famiglia mafiosa della Noce.
17/10/2006
Fonte: La Sicilia
Le nuove capitali dell'usura
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"L'usura, le usure. Tempi, modi e luoghi di un fenomeno antico e moderno", di Lino Busà e Bianca La Rocca è stato presentato oggi nella sede della Confesercenti a Roma ed ha fornito l'occasione per un dibattito che ha visto protagonisti il presidente dell'Associazione Marco Venturi, il sottosegretario all'Interno Ettore Rosato, il commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket Raffaele Lauro, l'ex presidente della commissione Antimafia Roberto Centaro e il presidente onorario della Fai Tano Grasso.
Il quadro che emerge dal libro è piuttosto preoccupante: "l'usura - scrivono gli autori - rimane un elemento corruttivo della crescita economica del paese. Abbandonati i clamori della cronaca, convive silenziosamente accanto a un'economia sana, assumendo aspetti sempre più organizzati e strutturati e continuando a sottrarre benessere all'economia e alla società".
I numeri sono ancora più impietosi delle parole: le vittime privilegiate dell'usura sono i commercianti (46%), seguiti dagli imprenditori (22%) e dagli artigiani (20%). In totale i commercianti 'usurati' sono 150 mila, il 16% degli attivi. Ma se si vanno a guardare i dati regionali si scoprono realtà ancora più dure: in Calabria, ad esempio, 10.500 commercianti sono vittime dell'usura; praticamente un commerciante su tre (30%) paga il pizzo.
Non va meglio nel Lazio, in Campania e Sicilia, dove la percentuale è rispettivamente del 28,7%, 26% e 25,2%. Quella del sud è una realtà tristemente conosciuta ma leggendo il libro emerge un altro fenomeno, in proporzione ancora più rilevante. Abruzzo e Molise hanno percentuali che poco si discostano da quelle meridionali: in Abruzzo i commercianti vittime dell'usura sono 4.800, il 22% del totale, in Molise addirittura il 28% (1.700). Ma non solo: in base ad una serie di indicatori statistici, primo tra tutti quello ricavato dal rapporto tra le persone indagate e coinvolte nel fenomeno alla popolazione residente, è Pescara la città italiana con il più alto numero di usurai, davanti a Siracusa, Messina, Catanzaro, Vibo Valentia.
"È un fenomeno che continua, inesorabile, a svilupparsi sottotraccia, contro cui serve un contrasto molto deciso" ammette Marco Venturi, sottolineando che compito delle istituzioni è quello di "rimuovere resistenze e difficoltà" del sistema per dare nuovamente fiducia alle vittime. Uno dei nodi principali è quello delle banche. Lo riassume Tano Grasso, senza giri di parole: "molto spesso l'usuraio è il miglior cliente delle banche e chi lo conosce meglio sono proprio i direttori degli istituti di credito. Quello che fino ad oggi è mancato, perchè il fenomeno è cresciuto e la gente ha perso la speranza, è che la politica non è riuscita a coinvolgere in questa battaglia proprio le banche".
Il governo dunque "deve convocare gli istituti italiani" e "obbligarli a discutere". Criminalizzare il mondo bancario "è sbagliato", replica il sottosegretario all'interno Ettore Rosato, ma le banche "devono prendere atto della situazione reale del nostro paese". Anche il commissario antiracket Raffaele Lauro invita a non criminalizzare una categoria ma ha ammesso che il problema va affrontato.
A novembre, ha assicurato "ci saranno due tavoli a cui parteciperanno i vertici delle istituzioni finanziarie, i vertici delle istituzioni bancarie e imprenditoriali, per fare il punto sulla legge 108 e per individuare nuove strategie di lotta all'usura".Tolta l'ufficialità, le parole più schiette le dice proprio l'autore del libro. "Dopo dieci anni vedo due cose - è l'amaro commento di Busà - l'usura è di fatto un reato depenalizzato, con almeno 25mila usurai noti all'autorità giudiziaria che sono liberi e in circolazione; la legge, così com'è, è servita più ai criminali per mascherare le loro attività, che alle vittime per difendersi da loro".
16/10/2006
Fonte: La Sicilia
Salvo Vitale a Brescia
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Fonte: Brescia oggi
sabato, ottobre 14, 2006
Nonno Riina
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Ciavarello gia' nel decennio scorso si era lamentato di essere "perseguitato per amore": "Ce l'hanno con me - disse - perche' sono innamorato di Maria Concetta". La Riina e l'attuale "proposto" si conobbero nel 1994 a una festa. Il giovane, che oggi ha 32 anni, e' un patito del web e, dopo essere stato segnalato dal commissariato di Corleone all'autorita' giudiziaria, riempi' i suoi siti con testi in cui difendeva a spada tratta il proprio sentimento nei confronti della ragazza.
Dopo avere lavorato nell'Agrimar del cognato Giuseppe Salvatore Riina (oggi in carcere per mafia), da alcuni anni Ciavarello, assieme alla sorella - titolare dell'attivita' - e alla moglie lavora in una ditta che produce coppole. In settembre l'azienda ha fatto causa al Comune di Corleone, che ha usato per una propria iniziativa promozionale dell'immagine del paese e per una festa lo stesso slogan, "I love Corleone", gia' registrato dai Riina per la loro attivita'.
Fonte: affari italiani
De Mauro, parla La Licata
PALERMO. Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo sequestrato sotto casa il 16 settembre del 1970, «fu ucciso dalla mafia dopo essere stato “interrogato”» sulla natura delle notizie che aveva scoperto. Il corpo venne seppellito sul greto del fiume Oreto, il corso d’acqua che attraversa il territorio dov’è sorta la Circonvallazione di Palermo.
Questo racconta Francesco Marino Mannoia, il collaboratore chiamato a testimoniare al processo che vede il boss Totò Riina - a distanza di 36 anni dai fatti - unico imputato dell’omicidio del giornalista. Ma non dice solo questo, l’ex mafioso, parlando in videoconferenza dagli Stati Uniti (dove vive sotto protezione). «Il corpo di De Mauro - aggiunge - fu spostato, insieme con altri cadaveri seppelliti nelle vicinanze, perchè Cosa nostra temeva che potessero essere trovati nel corso dei lavori che di lì a poco sarebbero iniziati. Tutti furono sciolti nell’acido, ecco perché di quei corpi non è stato mai trovato nulla». Marino Mannoia, che dentro Cosa nostra è soprannominato «mozzarella», indica anche il posto esatto dove la mafia aveva improvvisato una specie di cimitero clandestino: «Sotto la Circonvallazione, nei pressi del bar Settebello». E la riesumazione («alcuni corpi non erano ancora decomposti») fu seguita personalmente da lui, allora luogotenente del boss Stefano Bontade.
L’operazione riuscì perché venne utilizzata una tecnica nuova «importata» dagli Stati Uniti da Salvatore Inzerillo, amico di Bontade. Per sciogliere i cadaveri si fece ricorso per la prima volta all’acido, altra cosa rispetto ai sali chimici «che non riuscivano a far sparire tutto». Marino Mannoia, come spesso gli è accaduto nel corso di tanti anni di processi, è apparso sicuro di sè quando ha descritto fatti vissuti direttamente. E, ovviamente, è stato più fumoso quando ha riferito notizie apprese da altri. Sul movente che avrebbe causato la fine di Mauro De Mauro, il collaboratore ha finito per fungere da riscontro alle dichiarazioni dell’altro pentito, Tommaso Buscetta, che aveva descritto il giornalista come «pericoloso» per la mafia, specialmente dopo aver scoperto qualcosa sulla tragica fine del presidente dell’Eni Enrico Mattei, vittima di un oscuro incidente aereo nel 1962. Secondo Buscetta, l’aereo di Mattei sarebbe stato sabotato mentre era fermo all’eroporto di Catania.
La manovalanza dell’attentato stava nella mafia, la testa abitava nelle alte sfere dei grandi giochi petroliferi. Il boss aveva parlato di un intervento di Cosa nostra americana «nell’interesse delle Sette Sorelle». Ieri anche Mannoia ha parlato di «interessi americani», ma non è stato in grado di approfondire. Il processo, d’altra parte, contiene in sè più d’una pista (un’altra si riferisce alla presunta scoperta di De Mauro del golpe Borghese che nell’estate del ‘70 era in preparazione), ma non sempre le ricerche sono risultate efficaci. Ci sono, tra le migliaia di carte, rivoli di indagine che, chissà per quale motivo, non sembra siano stati presi in considerazione. E’ il caso di un rapporto del questore di Palermo del 13 aprile del 1972, scritto - rivela il questore Bruno Contrada che allora lavorava alla squadra mobile di Palermo - sulla base di una fonte confidenziale trovata dal vicequestore Boris Giuliano, poi assassinato dalla mafia nel 1979. Giuliano aveva parlato con un impiegato del Tribunale civile di Palermo e da questi aveva appreso che De Mauro, accompagnato dal commercialista Nino Buttafuoco (l’uomo che entrerà pesantemente nelle indagini nel tentativo di depistarle), era stato nella cancelleria della «sezione Commerciale» in cerca di notizie sulle esattorie.
Già le famigerate esattorie dei cugini Nino e Ignazio Salvo. Il misterioso teste (E’ vivo? In questi 36 anni, è mai stato interrogato da qualche magistrato?) avrebbe confidato a Giuliano di aver poi saputo dal giornalista che questi era in cerca di prove «su una colossale frode in danno dell’Erario», soldi che servivano «per comprare protezioni a tutti i livelli e finanziare campagne elettorali». Se fosse vero, si tratterebbe di una sorta di colossale (70 miliardi del 1970) corruzione per finanziare la politica: una tangentopoli ante litteram. Ma il rapporto del questore va oltre, aggiungendo che Buttafuoco, in una sorta di ripensamento, nei giorni successivi si sarebbe mosso parecchio per impedire che De Mauro potesse utilizzare le notizie di cui era entrato in possesso. E cita, il rapporto, che proprio Buttafuoco - in un colloquio avuto col giornalista Roberto Ciuni - aveva manifestato preoccupazione «per aver confidato a De Mauro fatti riguardanti grosse evasioni fiscali o atti di corruttela nell’ambiente degli uffici tributari di Palermo».
Lo stesso Buttafuoco, subito dopo la scomparsa di De Mauro, si sarebbe precipitato a casa del giornalista per «offrire» alla moglie solidarietà ma per chiedere anche di essere informato dell’indirizzo assunto dalle indagini e soprattutto se fosse stato trovato qualche documento interessante. Un gioco pericoloso che gli costerà persino un periodo di detenzione, ma che si concluderà col proscioglimento.
Fonte: La Stampa
Questo racconta Francesco Marino Mannoia, il collaboratore chiamato a testimoniare al processo che vede il boss Totò Riina - a distanza di 36 anni dai fatti - unico imputato dell’omicidio del giornalista. Ma non dice solo questo, l’ex mafioso, parlando in videoconferenza dagli Stati Uniti (dove vive sotto protezione). «Il corpo di De Mauro - aggiunge - fu spostato, insieme con altri cadaveri seppelliti nelle vicinanze, perchè Cosa nostra temeva che potessero essere trovati nel corso dei lavori che di lì a poco sarebbero iniziati. Tutti furono sciolti nell’acido, ecco perché di quei corpi non è stato mai trovato nulla». Marino Mannoia, che dentro Cosa nostra è soprannominato «mozzarella», indica anche il posto esatto dove la mafia aveva improvvisato una specie di cimitero clandestino: «Sotto la Circonvallazione, nei pressi del bar Settebello». E la riesumazione («alcuni corpi non erano ancora decomposti») fu seguita personalmente da lui, allora luogotenente del boss Stefano Bontade.
L’operazione riuscì perché venne utilizzata una tecnica nuova «importata» dagli Stati Uniti da Salvatore Inzerillo, amico di Bontade. Per sciogliere i cadaveri si fece ricorso per la prima volta all’acido, altra cosa rispetto ai sali chimici «che non riuscivano a far sparire tutto». Marino Mannoia, come spesso gli è accaduto nel corso di tanti anni di processi, è apparso sicuro di sè quando ha descritto fatti vissuti direttamente. E, ovviamente, è stato più fumoso quando ha riferito notizie apprese da altri. Sul movente che avrebbe causato la fine di Mauro De Mauro, il collaboratore ha finito per fungere da riscontro alle dichiarazioni dell’altro pentito, Tommaso Buscetta, che aveva descritto il giornalista come «pericoloso» per la mafia, specialmente dopo aver scoperto qualcosa sulla tragica fine del presidente dell’Eni Enrico Mattei, vittima di un oscuro incidente aereo nel 1962. Secondo Buscetta, l’aereo di Mattei sarebbe stato sabotato mentre era fermo all’eroporto di Catania.
La manovalanza dell’attentato stava nella mafia, la testa abitava nelle alte sfere dei grandi giochi petroliferi. Il boss aveva parlato di un intervento di Cosa nostra americana «nell’interesse delle Sette Sorelle». Ieri anche Mannoia ha parlato di «interessi americani», ma non è stato in grado di approfondire. Il processo, d’altra parte, contiene in sè più d’una pista (un’altra si riferisce alla presunta scoperta di De Mauro del golpe Borghese che nell’estate del ‘70 era in preparazione), ma non sempre le ricerche sono risultate efficaci. Ci sono, tra le migliaia di carte, rivoli di indagine che, chissà per quale motivo, non sembra siano stati presi in considerazione. E’ il caso di un rapporto del questore di Palermo del 13 aprile del 1972, scritto - rivela il questore Bruno Contrada che allora lavorava alla squadra mobile di Palermo - sulla base di una fonte confidenziale trovata dal vicequestore Boris Giuliano, poi assassinato dalla mafia nel 1979. Giuliano aveva parlato con un impiegato del Tribunale civile di Palermo e da questi aveva appreso che De Mauro, accompagnato dal commercialista Nino Buttafuoco (l’uomo che entrerà pesantemente nelle indagini nel tentativo di depistarle), era stato nella cancelleria della «sezione Commerciale» in cerca di notizie sulle esattorie.
Già le famigerate esattorie dei cugini Nino e Ignazio Salvo. Il misterioso teste (E’ vivo? In questi 36 anni, è mai stato interrogato da qualche magistrato?) avrebbe confidato a Giuliano di aver poi saputo dal giornalista che questi era in cerca di prove «su una colossale frode in danno dell’Erario», soldi che servivano «per comprare protezioni a tutti i livelli e finanziare campagne elettorali». Se fosse vero, si tratterebbe di una sorta di colossale (70 miliardi del 1970) corruzione per finanziare la politica: una tangentopoli ante litteram. Ma il rapporto del questore va oltre, aggiungendo che Buttafuoco, in una sorta di ripensamento, nei giorni successivi si sarebbe mosso parecchio per impedire che De Mauro potesse utilizzare le notizie di cui era entrato in possesso. E cita, il rapporto, che proprio Buttafuoco - in un colloquio avuto col giornalista Roberto Ciuni - aveva manifestato preoccupazione «per aver confidato a De Mauro fatti riguardanti grosse evasioni fiscali o atti di corruttela nell’ambiente degli uffici tributari di Palermo».
Lo stesso Buttafuoco, subito dopo la scomparsa di De Mauro, si sarebbe precipitato a casa del giornalista per «offrire» alla moglie solidarietà ma per chiedere anche di essere informato dell’indirizzo assunto dalle indagini e soprattutto se fosse stato trovato qualche documento interessante. Un gioco pericoloso che gli costerà persino un periodo di detenzione, ma che si concluderà col proscioglimento.
Fonte: La Stampa
giovedì, ottobre 12, 2006
Un arresto per estorsione
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12/10/2006
Fonte: La Sicilia
Mafia a Brescia
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Fonte: Brescia oggi
Proposta di legge della Gasparrini
Roma, 11 ott. (Apcom) - Da due a cinque anni di reclusione, arresto in flagranza, emissione di ordinanza cautelare e dichiarazione di ineleggibilità o di decadenza se eletto. Queste le misure a carico del candidato o del malavitoso che supporta la sua campagna elettorale, previste nella proposta di legge presentata da Federica Rossi Gasparrini (Federcasalinghe) per migliorare la disciplina della sorveglianza speciale.
Le disposizioni legislative tendenti a colpire le organizzazioni criminali sono state completate e perfezionate, anche recentemente, con la disciplina legislativa del regime di carcerazione che va sotto il nome di "articolo 41-bis", anche detto "carcere duro". "C'è però un aspetto della legislazione vigente - afferma Gasparrini - che necessita di un ulteriore perfezionamento: è quello riguardante la disciplina della sorveglianza speciale". E' infatti previsto dalla legge che le persone sottoposte al regime di sorveglianza speciale di polizia sono per legge private dell'elettorato attivo e passivo, cioè non possono votare e non possono essere elette".
"Tuttavia - prosegue Gasparrini - non c'è alcuna disposizione di legge che vieti a tali persone di svolgere propaganda elettorale in favore di candidati o di simboli, che possono continuare ad esercitare la loro influenza sul terreno politico e, poiché si tratta di persone riconosciute socialmente pericolose - sottolinea l'onorevole - è evidente come grazie alla loro attività propagandistica vengano favorite persone portatrici di interessi non leciti, legate ai candidati. La presente proposta di legge - conclude Gasparrini - vuole quindi colpire uno dei nodi cruciali dei rapporti tra politica e malaffare, che in alcune regioni d'Italia infangano le istituzioni democratiche".
Fonte: virgilio.it
Le disposizioni legislative tendenti a colpire le organizzazioni criminali sono state completate e perfezionate, anche recentemente, con la disciplina legislativa del regime di carcerazione che va sotto il nome di "articolo 41-bis", anche detto "carcere duro". "C'è però un aspetto della legislazione vigente - afferma Gasparrini - che necessita di un ulteriore perfezionamento: è quello riguardante la disciplina della sorveglianza speciale". E' infatti previsto dalla legge che le persone sottoposte al regime di sorveglianza speciale di polizia sono per legge private dell'elettorato attivo e passivo, cioè non possono votare e non possono essere elette".
"Tuttavia - prosegue Gasparrini - non c'è alcuna disposizione di legge che vieti a tali persone di svolgere propaganda elettorale in favore di candidati o di simboli, che possono continuare ad esercitare la loro influenza sul terreno politico e, poiché si tratta di persone riconosciute socialmente pericolose - sottolinea l'onorevole - è evidente come grazie alla loro attività propagandistica vengano favorite persone portatrici di interessi non leciti, legate ai candidati. La presente proposta di legge - conclude Gasparrini - vuole quindi colpire uno dei nodi cruciali dei rapporti tra politica e malaffare, che in alcune regioni d'Italia infangano le istituzioni democratiche".
Fonte: virgilio.it
Arriva Menucci-Benincasa
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Fonte: La Sicilia
L'agenda misteriosa
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Fonte: La Sicilia
Pippo Calò trasferito a Roma
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Alla domanda sul perchè numerosi collaboratori di giustizia lo hanno nel tempo indicato come coinvolto nell’uccisione di Calvi per averlo saputo da altri appartenenti a Cosa Nostra, Calò ha risposto in maniera altrettanto perentoria: “Tutto falso - ha detto - tutte calunnie. Tutti i pentiti che sono venuti qua sono stati gestiti e mi assumo tutta la responsabilità per quello che sto dicendo”. Calò ha voluto rispondere con una domanda alle dichiarazioni rese in aula nel dicembre scorso dal collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo. Dopo l’udienza il boss è stato riportato nel carcere di Ascoli dove sconta una serie di ergastoli in regime di 41bis. Calò, l’uomo d’affari Flavio Carboni, la sua ex compagna Manuela Kleinzig, l’ex boss della Banda della Magliana Ernesto Diotallevi e il contrabbandiere Silvano Victor sono sotto processo per l’ omicidio dell’ex presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi trovato impiccato il 18 giugno 1982 a Londra sotto il ponte dei Frati Neri. La prima udienza del processo si tenne il 6 ottobre scorso. Gli avvocati di Calò, Corrado Raffaele Oliviero del Foro di Roma e Mauro Gionni di Ascoli, avevano chiesto fin dalle prime battute che il loro assistito fosse presente nell’aula della seconda sezione della Corte d’Assise di Roma, fatto che è avvenuto soltanto ieri. Il castello accusatorio si regge su tre punti che il pubblico mistero romano ritiene tutt’ora fondamentali: punire Roberto Calvi (presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato del Banco Ambrosiano fino al 17 giugno del 1982) per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti a “ cosa nostra” e alla “ camorra”. Soldi recuperati totalmente o in parte prima del suo assassinio. Inoltre conseguire l’impunità, ottenere e conservare il profitto legato ai reati di riciclaggio posti in essere attraverso il banco Ambrosiano e le società legate allo stesso istituto di credito e di concorso nelle distrazioni delle ingenti somme di denaro effettuate in danno della banca e di altre società. Infine impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico - istituzionali, della massoneria, della loggia “P2” e dello Ior con i quali - sempre secondo l’accusa - aveva gestito investimenti e finanziamenti anche provenienti da “ cosa nostra” e da enti pubblici nazionali. L’accusa quindi è convinta che Pippo Calò, capo mandamento di Porta Nuova nell’ambito di “cosa nostra” e incaricato di gestire grandi somme di denaro provento e profitto dell’attività della associazione criminale, avrebbe impartito ordini a Vincenzo Casillo, esponente della “ nuova camorra organizzata” diretta da Raffaele Cutolo. Questi ultimi, con altre persone non ancora identificate, avrebbero provocato la morte di Calvi per strangolamento simulandone poi il suicidio. Flavio Carboni invece, dopo essersi appropriato di 19 milioni di dollari erogati dal Banco Ambrosiano, avrebbe indotto Calvi ad affidarsi alle sue indicazioni per trovare una soluzione alle pressanti difficoltà giudiziarie del banchiere. In questa operazione si sarebbe avvalso dell’apporto di Ernesto Diotallevi e della sua compagna Manuela Kleinszig per organizzare la fuga di Calvi dall’Italia facendo poi in modo che la vittima venisse prelevata dagli esecutori materiali dell’omicidio. Per portare a termine il piano la Kleinszig avrebbe collaborato con Flavio Carboni. Infine, sempre secondo l’accusa Ernesto Diotallevi avrebbe svolto la funzione di collegamento tra Calò, presunto mandante del delitto, e Carboni. Il processo ai presunti killer di Calvi potrebbe aprire un vero e proprio vaso di pandora. “ Dove non si trova il vero responsabile io divento una sorta di prezzemolo giudiziario”. Questo fu il commento a caldo del boss Giuseppe Calò. E l’avvocato Gionni insiste anche oggi: “ Dagli atti emergono responsabilità di personaggi legati a banche di livello nazionale che avrebbero ricevuto anche i famosi documenti di Calvi”. Durante le ultime fasi dell’inchiesta agli indagati si è aggiunto anche il nome di Silvano Victor.
Fonte: Corriere adriatico
Restituiti beni confiscati per 250mln di euro
La Corte di Cassazione, confermando la decisione del 2005 della Corte d'Appello di Palermo, ha stabilito la restituzione dei beni per un valore di 250 milioni di euro all'imprenditore di Sciacca (Ag) Giuseppe Montalbano, già condannato in primo grado a sette anni e sei mesi con l'accusa associazione a delinquere di tipo mafioso.
I beni restituiti all'imprenditore settantenne – tra i quali 226 appartamenti, 19 terreni, un capannone, quote societarie e vari conti correnti, secondo la Cassazione sarebbero stati acquisiti in maniera legittima , per via ereditaria o grazie a investimenti.
L'unico bene che non è stato dissequestrato è la villa di Via Bernini a Palermo nella quale soggiornava Toto Riina prima della sua cattura. Montalbano, che ne risulta proprietario, ha sempre sostenuto di averla data in affitto ignorando che fosse in uso al boss mafioso corleonese.
Fonte: avvisopubblico.it
I beni restituiti all'imprenditore settantenne – tra i quali 226 appartamenti, 19 terreni, un capannone, quote societarie e vari conti correnti, secondo la Cassazione sarebbero stati acquisiti in maniera legittima , per via ereditaria o grazie a investimenti.
L'unico bene che non è stato dissequestrato è la villa di Via Bernini a Palermo nella quale soggiornava Toto Riina prima della sua cattura. Montalbano, che ne risulta proprietario, ha sempre sostenuto di averla data in affitto ignorando che fosse in uso al boss mafioso corleonese.
Fonte: avvisopubblico.it
Mannoia parla di De Mauro
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Fonte: agi.it
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