Nel secondo dopoguerra, capomafia di Camporeale era Vanni Sacco, che rimase legato per tutta la vita alla vecchia mafia dei Rimi di Alcamo, di Badalamenti di Cinisi e di Michele Navarra di Corleone. Fu lui, nel 1948, ad occuparsi di quella «testa calda» di Calogero Cangelosi, che si ostinava ad organizzare i contadini per rivendicare l'applicazione dei decreti Gullo sulla nuova ripartizione dei prodotti agricoli (il 60% ai contadini e il 40% ai padroni) e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte o malcoltivate degli agrari. A don Serafino Sciortino e agli altri grossi proprietari terrieri del paese non andava giù che qualcuno provasse a mettere in discussione il loro potere e le loro ricchezze. E diedero quell'ordine di morte, che Vanni Sacco e i suoi picciotti eseguirono la sera del 1° aprile 1948, mentre il sindacalista e quattro suoi compagni stavano rincasando. Colpito alla testa e al petto dai colpi di mitra, Cangelosi cadde per terra, spirando all'istante. Dei contadini che l'accompagnavano, Vito Liotta e Vincenzo Di Salvo furono feriti gravemente, mentre rimasero miracolosamente illesi Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Cangelosi fu il 36° sindacalista siciliano a cadere sotto il piombo della mafia. Prima di lui, il 10 marzo, a Corleone era stato assassinato Placido Rizzotto, e il 2 marzo, a Petralia, Epifanio Li Puma. Nel 1948 Camporeale era un importante comune del latifondo della provincia di Trapani, proprio al confine con la provincia di Palermo, di cui avrebbe cominciato a far parte dal 1954. In quel periodo Vanni Sacco si sentiva investito dalla «sacra missione» di riportare l'ordine nei feudi, «turbato» dai contadini che agitavano parole quali dignità, giustizia sociale, libertà. Fino al 1957 era stato un liberale, ma poi decise di avvicinarsi alla DC, che già controllava i più importanti centri di potere. Chiese la tessera per sé e per altri 300 individui come lui, col malcelato intento di impadronirsi del partito. Almerico, che era anche segretario della sezione scudo-crociata, capì la manovra e respinse la richiesta. Ma da quel giorno cominciò a morire. E a nulla valse il lungo e puntiglioso memoriale indirizzato a Nino Gullotti, segretario della Dc siciliana, di cui aveva messo conoscenza anche uno dei "giovani turchi" dello scudo-crociato palermitano, Giovanni Gioia. Arrivarono le prime minacce, ma lui non si perse d'animo. Scrisse un lungo memoriale, spiegò come il partito a Camporeale rischiasse di essere conquistato dalla mafia e come lui corresse il pericolo di essere assassinato. Nessuno gli rispose o gli diede ascolto. E fu assassinato davvero. «L'onorevole Gioia non batté ciglio e proseguì imperterrito nell'opera di assorbimento delle cosche mafiose nella Dc», scrisse nel 1976 Pio La Torre nella relazione di minoranza della Commissione antimafia. Vanni Sacco, quindi, venne accolto con tutti gli onori nello scudo-crociato, diventando «un perfetto e stimatissimo democristiano in un territorio nel quale il politico di maggiore rilievo era stato, e sarebbe ancora rimasto per lungo tempo, un prestigioso uomo di governo del livello di Bernardo Mattarella, mentre la regia delle relazioni politico-affaristicche-mafiose sarebbe sempre più spettata a due potenti esattori delle imposte, i cugini Ignazio e Nino Salvo, futuri pilastri della corrente andreottiana», scrive Giuseppe Carlo Marino (I Padrini, Newton & Compton editori, Roma 2001).
Fonte: La Sicilia
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